«Devono arrivare a minuti. Forse sono già qui». Konstantin Ivanovic, il direttore, sembrava imbarazzato. Considerava il lavoro degli uomini del KGB una intrusione bella e buona. «È meglio che vi fermiate, Stefan Andreevic.
Potrei aver bisogno del vostro consiglio.»
«Loro non saranno d’accordo» obiettò Stefan Andreevic Dobrov.
«Questo è il mio ufficio, non il loro!» ribatté il direttore.
«Qui non possono dettare legge!»
«Va bene» disse Dobrov, conciliante «sono pronto a collaborare.»
La porta si aprì in quel momento. Vera Alexeevna, la segretaria, faceva scudo e tentò di parlare, ma il primo dei due uomini dietro di lei la scostò con una mano, dicendo:
«Va bene, va bene. Sappiamo la strada».
Arrivati in mezzo alla stanza, i due si fermarono. Il più anziano, sicuramente il più alto in grado, aveva gli occhi molto chiari ed era piuttosto stempiato. Ma questo non gli creava alcun complesso. Aveva l’aria inquisitrice, al contrario del suo collega che, sotto i capelli neri, folti e piuttosto unti, mostrava una faccia del tutto inespressiva. «Bene adesso siamo qui, e allora è inutile perdere tempo» esordì il funzionario del KGB.
«Sono d’accordo, compagno Britov» ribatté il direttore, facendo cenno ai due di prendere posto sulle poltroncine davanti al suo tavolo. Dobrov era in piedi vicino al lungo mobile che occupava la parete di fronte alle finestre.
«Lui se ne può anche andare» disse Britov, accennando a Stefan Dobrov con un movimento della spalla.
«È il mio assistente. È al corrente di tutto» rispose il direttore, sulla difensiva.
«Un altro al corrente di troppe cose» commentò Britov, senza curarsi di nascondere il suo disprezzo. Il collega, Belev, frugò nelle tasche e ne tolse un pacchetto cincischiato di Malboro, fabbricato su licenza in Bulgaria. Il direttore cercò di richiamare la sua attenzione sul cartello che pendeva alla parete dietro le sue spalle: FUMARE NON È OBBLIGATORIO.
Ma l’uomo lo ignorò e accese una sigaretta, quasi subito imitato dal collega.
«Bene, se è al corrente di tutto, chissà che non abbia una bella spiegazione» continuò Britov, dopo aver tirato qualche boccata «e magari potrebbe dirci anche come si chiama e tutto il resto». Il direttore stava per aprire bocca, ma l’uomo del KGB, Belev, lo precedette:
«Stefan Andreevic Dobrov, detto “il conte”. La famiglia era effettivamente di nobiltà zarista. Trentadue anni. Laureato in economia all’Università
Lomonosov e diplomato all’Istituto per le Relazioni Internazionali. Gioca a scacchi e pratica molti sport. Ha una passione per la musica ed una amante che si chiama Larissa Dontseva. Mezzosoprano al teatro dell’Operetta. Sta aspettando il visto per andare in Etiopia come consigliere economico.»
«Fa piacere sapervi così informati» mormorò Dobrov, educatamente. «Mi dà un senso di calore e di protezione.»
«Uhm, anche spiritoso» sbuffò Britov. «Cos’è questa storia della famiglia?»
L’accenno alla nobiltà evidentemente lo infastidiva.
«È uno scherzo fra colleghi» dichiarò Konstantin Ivanovic.
«La sua famiglia fu riabilitata da Lenin in persona. E comunque si tratta dei suoi bisnonni. Morti e sepolti da un pezzo.»
«Be’, torniamo al nostro problema» concluse Britov.
«Abbiamo controllato ogni cosa. Tutto è perfettamente a posto. Abbiamo messo sotto inchiesta tutti quelli che hanno anche lontanamente relazione con l’Istituto, ma non è risultata la più piccola crepa. Le procedure sono rispettate scrupolosamente.»
«Volete, per favore, riassumere i fatti, compagno Britov?» chiese il direttore.
«E a che scopo? Non siamo tutti al corrente di ogni cosa?» ironizzò l’uomo del KGB.
«Noi del GKNT, il Comitato Statale per la Scienza e per la Tecnica siamo abituati così». La voce del direttore era calma, ma la sottolineatura della sigla del Comitato aveva lo scopo di ricordare agli interlocutori che non erano davanti a delle persone qualsiasi.
«E va bene» cedette Britov «raccontala tu, l’intera storia, Ghenia. Ma taglia corto.»
Belev non cambiò espressione. Accese un’altra sigaretta, guardando con intenzione il cartello, e poi cominciò:
«Da alcune settimane siamo stati avvertiti che c’è una fuga di dati tecnici dall’Acceleratore di Dubno, che è uno dei nostri centri più importanti per lo studio della fisica delle particelle. Copie dei tabulati interni sono state segnalate sia negli Stati Uniti sia in Israele. È possibile che ce ne siano anche altrove. Eppure le misure di sicurezza intorno al centro studi sono perfettamente stagne. Non c’è alcun contatto, nemmeno indiretto, con alcun ente esterno. Le informazioni e le relazioni periodiche hanno un solo canale di uscita, il GKNT, appunto questo. Che riferisce direttamente al Primo Ministro ed al Segretario del Partito.
Tutte le persone coinvolte sono risultate assolutamente oneste, fedeli e perfettamente consapevoli dell’importanza delle procedure di sicurezza».
«Ciononostante…» intervenne Britov, cupo.
«Malgrado questo» proseguì Belev «abbiamo la certezza che la fuga di notizie va avanti da alcuni mesi. Forse da anni. Impossibile dirlo.» Belev chiuse la bocca e tirò una boccata più energica.
«No c’è nient’altro» disse Britov. «E non rimane che una sola ipotesi, da fare: gli americani ci stanno fottendo ancora una volta con i loro maledetti satelliti e con le loro furberie elettroniche.»
«E gli israeliani?» intervenne Dobrov.
«Stanno fottendo a loro volta gli americani, come sempre» bofonchiò
Britov.
Konstantin Ivanovic non apprezzò la battuta. Stava riflettendo intensamente. Oltre al danno tecnico, la fuga di notizie per le quali il suo ufficio era l’unico tramite lo tormentava anche moralmente.
L’incidente consentiva ad un altro Comitato di mettere il naso nelle sue faccende e la cosa lo rendeva furioso.
«Non c’è molto» disse infine, guardando con disgusto le sigarette sempre accese. «Devo ammettere che non c’è molto. Dobbiamo fare qualcosa.»
«E che cosa?» esclamò Britov. «Dire a Dubno di smettere di stampare tabulati? Rompergli le fotocopiatrici? Bloccare semplicemente l’Acceleratore?»
«Non c’è bisogno di fare del sarcasmo.» Shukin, il direttore, cercava di mantenersi calmo, anche se l’atmosfera ormai satura di fumo glielo rendeva ogni istante più difficile.
«Bisogna pensare, pensare.»
«Abbiamo incaricato i cervelli più fini del Comitato, di ragionare su questa faccenda. Risultato: zero.»
«Del vostro Comitato» insinuò Shukin.
«Abbiamo messo sotto pressione le nostre talpe negli Stati Uniti, per vedere di saperne di più da quel capo del filo» proseguì Britov, ignorando la provocazione «ma ci vorrà del tempo. E intanto “loro” si passano i nostri tabulati più segreti come fossero copie del Reader’s Digest.»
«Bisogna pensare… pensare» mormorò ancora il direttore, di nuovo immerso nella sua riflessione.
«D’accordo. Bisogna pensare. Ma fatelo in fretta, cervelloni. Altrimenti qui bisogna chiudere.» Britov si alzò, subito seguito da Belev, e si avviò alla porta. Il suo “arrivederci” si perse nel corridoio.
Shukin si avvicinò di scatto alla finestra e la aprì leggermente. Subito una folata d’aria gelida invase la stanza, e il fumo prese ad uscire rapidamente.
Soddisfatto, il direttore attese qualche istante, quindi chiuse e tornò al suo posto.
«Bisogna escogitare qualcosa… bisogna trovare una soluzione» disse, convinto.
Dall’appartamentino al quarto piano nel vecchio palazzo della Kadascevska
Nabereznaja si poteva contemplare la Moscova ghiacciata e, alzando un po’ la vista, le torri del Cremlino. Ma Dobrov non si lasciava distrarre dal paesaggio invernale che si stendeva al di là dei doppi vetri. Era total mente concentrato sulla splendida ragazza bionda allungata accanto a lui sul divano letto. Seguiva con la punta del dito un percorso immaginario che partiva dalla punta dei capezzoli e arrivava fino all’ombelico. Lei sembrava imbronciata.
«Perché devi andartene in Etiopia, non si capisce. È un posto dove non va nessuno.»
«Già. Tranne i consiglieri economici.»
«Questo non significa niente. Il fatto è che in Etiopia non hanno alcun bisogno di un soprano leggero. Mentre se tu andassi a Vienna, o Budapest – o anche Londra o Parigi – dopo un po’ potrei venire anch’io, giusto?»
«Secondo il KGB tu sei un mezzosoprano» disse lui, continuando a giocare.
«Sono un soprano leggero» precisò lei, seguendo con gli occhi il dito che le segnava la pelle. «Ma come estensione sono un soprano. Niente mezzo.»
«Se lo dicono loro, sei un mezzosoprano. Non c’è dubbio. Se ne intendono.»
«Di lirica?»
«Di far cantare la gente.»
«Ah-ah. Molto spiritoso. Be’, la loro opinione non mi interessa. Vengono a teatro senza biglietto e non offrono mai un fiore. Possono andare al diavolo.»
La ragazza si girò di scatto sul divano, mettendosi bocconi e offrendo lo splendido dorso allo sguardo del suo amante.
«Hai ragione» ammise lui, allungando di nuovo la mano e andandole più vicino. «Hai proprio ragione. Quelli non sono in grado di capire la tua musica…»
«Lasciami!» esclamò lei, immusonita. «Lasciami, con i tuoi discorsi stupidi!»
«Oh, bene. Io non volevo farti arrabbiare. Solo riportare un giudizio tecnico, ecco». La voce di lui era insinuante e carezzevole come i suoi polpastrelli.
«Dici sul serio?» Lei era già pronta a cedere nuovamente.
«Lo giuro. Sono assolutamente serio.»
«Strano. Lo sei talmente di rado» osservò la ragazza.
«È vero. A me piace il lato buono delle cose. Come questo, ad esempio». La carezza si faceva più precisa. «Ma stavolta sono serissimo.»
«E poi» aggiunse lei «se non lo so io quale è il mio registro vocale, chi vuoi che lo sappia? Proprio adesso sto finendo le prove di una cosa nuova.»
«Nuova? Un’altra operetta?»
«No… una specie… insomma, un’opera comica. Uno spettacolo leggero scritto molto prima che nascesse l’operetta. Da un certo Bortnianski. Si chiama Il Falcone.»
«Il Falcone? Molto interessante.»
«Oh, sì, è basato su una storia italiana. Di un certo Boccaccio, si dice. Molto poetica.»
«Uh-uh. Boccaccio? L’ho sentito nominare. Ehi, se è come me lo hanno raccontato, varrà la pena di venirti a vedere, quando lo farete. Sei sicura che sarà messo in scena? Prenoto tutte le prime dieci repliche!»
«Nemmeno per sogno. Non potrai vederlo!»
«E perché no?» si lamentò lui.
«Perché… non lo vedrà nessuno!»
«Oh, è una cosa per pochi intimi?»
«No, per tutti. Ne faremo un disco.»
«Disco?»
«Certo, anzi due. Non ci sta tutta in uno solo. Quindi bisognerà inciderne due. Forse di più. Speriamo che siano di buona qualità. Mi piacerebbe…»
Dobrov si alzò di scatto, smettendo di accarezzarla. Fissava il vuoto.
«Cosa ti prende, adesso? Ti sei stancato? Non fermarti, ti prego. Mi fa bene quel massaggio.»
Ma il giovane non la stava ascoltando. Si era alzato in piedi e ora camminava nervosamente sul tappeto.
«Smettila, su. Torna qui.»
«Devo fare una telefonata.» Dobrov si rivestì rapidamente. Lei tacque, incuriosita dal repentino cambiamento. L’uomo compose in fretta un numero.
«Konstantin Ivanovic, per favore, sono Dobrov. Konstantin Ivanovic? Credo di aver trovato qualcosa. Sì certo. Proprio come avete detto voi: ho pensato molto. Devo fare una verifica. Possiamo incontrarci in via Gorki fra mezz’ora? Avvertite voi il poliziotto di servizio? Benissimo, a fra poco.» Larissa si alzò, avvolgendosi in un lenzuolo: «È qualcosa che non devo sapere?»
«Forse. Chissà. Ora devo proprio scappare.»
«Va bene. Ma non lasciarmi troppo a lungo. Fa molto freddo, in questa stagione…»
L’edificio grigio del GKNT, in via Gorki 11, era deserto. Il poliziotto di servizio, avvertito per telefono dal direttore, stava aspettando e aprì subito la porta.
«Lavoro straordinario?»
«Più o meno» ammise Dobrov.
«Il direttore è già qui?»
«Non ancora.»
«Avvertitelo, per favore, che sono nella sala del centro di calcolo.»
«Sta bene.»
Dobrov ignorò l’ascensore, salendo rapidamente i gradini due alla volta.
Andò direttamente nella segreteria di Shukin, dove consultò il registro degli appuntamenti. Con un sorriso soddisfatto vide che l’incontro che gli interessava sarebbe stato il giorno dopo, alle undici del mattino. Nel grande armadio a muro trovò subito quello che cercava: una scatola di floppy disk, accuratamente avvolta in carta bianca, con il timbro di Dubno ed una scritta vistosa, ripetuta più volte: Defektnii Tovar, merce difettosa.
Arrivò sulla porta del centro di calcolo contemporaneamente al direttore.
Shukin aveva il respiro leggermente affannoso – evidentemente anche lui non si era servito dell’ascensore – e non perse tempo a fare domande.
Sedettero uno accanto all’altro, davanti alla console di un piccolo computer. In risposta ai comandi, sullo schermo apparvero in sequenza le varie procedure standard, finché si lesse la scritta READY. Dobrov caricò allora il primo dischetto della scatola nel drive della macchina, e scrisse il comando DIR.
Stavano lavorando da qualche minuto, quando subirono forti colpi alla porta. Mentre il giovane rimaneva concentrato sulla macchina, Shukin uscì rapidamente, chiudendo il battente alle sue spalle. Nel corridoio, c’erano Britov e Belev, con la stessa espressione di qualche ora prima, come se non avessero mai lasciato l’edificio. Dietro a loro, un po’ imbarazzato, il poliziotto di servizio che non sapeva dove guardare.
«Cosa volete?»
«Domanda inutile. Cosa state combinando là dentro?»
«Questo è il GKNT, non una casa di appuntamenti sul Gorki Park. L’accesso a questa stanza è vietato.»
«Stiamo compiendo un’indagine nell’interesse dello Stato. E anche nel vostro interesse. Non ha senso impedirci di fare il nostro lavoro. A meno che non ci sia qualcosa da nascondere.»
«Sapete benissimo che no c’è nulla, compagno Britov. Se scopriremo qualcosa che può aiutare l’indagine, ve lo diremo subito. Ma ora ci stiamo occupando di un’altra faccenda.»
«A quest’ora?» chiese Britov, ironico.
«Domani, domani a mezzogiorno potremo dirvi qualcosa». La voce di Dobrov, comparso all’improvviso dopo il direttore, era bassa e tranquilla. Britov e Belev lo guardarono senza alcuna simpatia.
«Perché a mezzogiorno?» si informò Britov.
«Perché dobbiamo fare alcune verifiche. Abbiamo delle procedure precise, che vanno rispettate». Il tono di Dobrov era neutro, ma qualcosa irritò ugualmente l’uomo del KGB.
«Farò rapporto, lo sapete, vero? Lo farò immediatamente.» Con questa dichiarazione, si girò nel corridoio, seguito da Belev e dal poliziotto.
Sulla faccia di quest’ultimo c’era l’ombra di un ghigno divertito.
Shukin non nascondeva la tensione:
«Allora?» chiese vivacemente.
«Credo che ci siamo. Ma devo fare un lungo e noioso lavoro di controllo.
Se volete potete andare a casa. Per domattina sarà tutto pronto.»
«No. Preferisco di no. Aspetterò nella mia stanza che abbiate finito.
Intanto devo guardare delle carte.»
«Sta bene. Ma finirò molto tardi.»
Vera Alxeevna non fece nemmeno l’atto di alzarsi dal suo tavolo, quando vide Britov e Belev entrare nella segreteria e dirigersi immediatamente verso l’ufficio del direttore. Guardò soltanto l’orologio elettrico sulla parete: era mezzogiorno in punto. I due entrarono nella stanza e si fermarono davanti alla scrivania. Shukin era al suo posto, mentre Dobrov, come al solito, stava seduto su un angolo del mobile basso lungo il muro.
«Accomodatevi» fece il direttore, ignorando l’evidente disprezzo per il protocollo da parte dei visitatori. Belev sedette e cominciò immediatamente a frugare nelle tasche alla ricerca di una sigaretta. Shukin lo prevenne.
«No. Fumare non è obbligatorio.»
Gli occhi di Belev divennero piccoli e tutto il suo corpo si tese. Se Britov fu sorpreso, non lo diede a vedere. Fece un cenno appena percettibile al collega, che respirò a fondo e poi appoggiò le mani sulle ginocchia quindi l’uomo del KGB si rivolse a Shukin:
«Allora? Ci sono novità?»
«Definitive.»
«Che cosa vuol dire?»
«Che abbiamo scoperto quale strada prendevano i tabulati. E che abbiamo sistemato ogni cosa.»
Il volto di Britov si indurì. Guardò fissamente l’uomo che gli stava davanti; il cui viso non nascondeva i cinquantacinque anni, né la stanchezza delle lunghe ore insonni. Ma esprimeva una percettibile aria di trionfo.
«Non avete superato le vostre competenze?»
«Sono certo di no.»
«Potrebbe costarvi caro.»
«Correrò il rischio.»
«I fatti: ora vorrei i fatti, se non vi dispiace.»
«Sta bene. Stefan Andreevic, volete parlare voi?»
Tutti e tre si girarono a guardare Dobrov. Nei due funzionari del KGB non c’era un briciolo di simpatia. Il giovane corresse appena la sua posizione, sospirò e disse: «Se me lo dite voi, Konstantin Ivanovic.
Dunque: sappiamo che al centro di Dubno ci sono diversi calcolatori elettronici. Ogni giorno, se ci sono risultati, questi vengono copiati su un computer di produzione U.S.A. che serve soltanto per immagazzinare i dati.»
«Lo abbiamo controllato sotto ogni punto di vista» intervenne Britov «e non ha alcuna funzione particolare. Copia e basta.»
«Di ogni sezione» proseguì tranquillamente Stefan Dobrov «vengono fatte due copie: una su nastro di grande capacità. E una su dischetto, per consentire una rielaborazione rapida, se fosse necessaria.»
«Abbiamo controllato anche questo. Sia i nastri che i dischetti restano a
Dubno, nella zona più controllata. Non vengono rimossi per alcun motivo. A voi, qui, arriva soltanto un riassunto in codice che contiene forse un centesimo di quello che c’è su un dischetto». Britov era palesemente in furiato. Dobrov non rilevò l’interruzione.
«I dischetti vengono forniti da una ditta americana, produttrice di PVC.»
Britov sbottò: è la prima cosa a cui abbiamo pensato. Non siamo sprovveduti come credete voi, qui. Abbiamo controllato a fondo. La ditta non ha nessun contatto con Dubno. Fa le spedizioni una volta ogni tre mesi, e rispetta in pieno tutte le clausole contrattuali con il massimo scrupolo.
Provvediamo noi stessi a prelevare la spedizione all’aeroporto di Vnukovo, quando arriva, ed a far pervenire il materiale a Dubno. Lo controlliamo a fondo ogni volta. Mai trovato niente fuori posto.»
«Esatto» sottolineò Dobrov. «Curate voi stessi che il contratto sia eseguito integralmente. Non è vero?»
«Sì, è così» sbottò Britov. «E siamo assolutamente precisi.»
«Giusto. Anche nel pretendere il rispetto delle clausole di garanzia.»
«Perché, non dovremmo?»
«Non dico questo. Tra le clausole di garanzia, la più importante prevede la sostituzione gratuita dei dischetti difettosi. Capita spesso che ve ne siano, si tratta di materiale poco affidabile, dopotutto.»
«Non oltre il tre per cento del totale, altrimenti il contratto sarebbe immediatamente annullato». Britov era sempre più teso. «È una percentuale accettata dalle nostre norme tecniche, e i fornitori si sono sempre mantenuti al di sotto.»
«Certo. E sono anche molto pronti a sostituire i pezzi difettosi, vero?»
«Prontissimi.»
«E qualche volta sono stati cambiati anche dischetti perfettamente normali, vero?»
«Ah, capisco dove volete arrivare». Britov si rilassò. «Per quella faccenda. Certo: la clausola del contratto dice che non è necessario restituire tutti i dischetti che presentano errori. Basta un campione per ogni partita riscontrata non perfetta. Così, qualche volta, capita che un quantitativo non sia interamente difettoso, ma i ragazzi giù si fanno mandare ugualmente tutto il blocco. Spediscono qui a voi un pacchetto di dischi rovinati e così guadagnano un po’ di materiale extra. Non c’è niente di male. Tutta valuta risparmiata. Gli americani se lo possono permettere.»
«Non c’è dubbio. Infatti noi riceviamo la merce difettosa e la consegniamo ai rappresentanti degli americani.
«Proprio così. I dischetti, però, prima di arrivare qui da voi, vengono ripuliti ben bene da tutti i dati che possono aver contenuto. Sono controllati varie volte. Dai ragazzi di Dubno e anche da noi.»
«E l’americano non ha mai battuto ciglio, vero? Ha sempre cambiato senza discutere?»
«Certo, ma gli conviene. In cambio di un po’ di plastica extra, ha un buon contratto a lungo termine.»
«Sicuro. E anche dei buoni tabulati» intervenne Shukin.
«Come?» Britov scattò.
«Nel modo più semplice. I dischi che restituiamo agli americani sembrano difettosi, ma non lo sono. Hanno una doppia traccia. Una riusciamo a cancellarla, l’altra no. I dati restano sul disco, ma sono invisibili ai nostri controlli.»
«Accidenti. Quei figli di puttana. Adesso… li sistemeremo per bene. Oh, accidenti. Ci hanno fottuti. Quando è la prossima riunione per la garanzia?»
«Stamattina alle undici.»
«Maledizione! Allora… avete già consegnato gli ultimi campioni?»
«Certamente.»
«Ma siete impazziti? Oh, no, no. Senza dubbio avete inventato qualcosa!»
«Sicuro. C’era un solo mezzo: restituire i dischi senza insospettirli e screditare tutto quanto avevano ricevuto in precedenza.»
«Sì, ma le informazioni presenti sulla doppia traccia?»
«Per cancellare i dischi, compresa la doppia traccia, bisogna ricoprire tutto con nuovi dati. Ed è quello che abbiamo fatto.»
«Intossicazione?»
«Parlerei di dieta, piuttosto.»
«Cosa vuol dire?»
Shukin si concesse un sorriso.
«Che abbiamo riempito i dischi ripetendo all’infinito una ricetta gastronomica: quella del Borsch all’Ucraina. Speriamo che questo contribuisca a migliorare la cucina americana. Non l’ho mai potuta sopportare.»
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