lunedì 22 gennaio 2024

Stefano Benni: Bar Sport


    L'uomo primitivo non conosceva il bar.  Quando la mattina  si  alzava,
    nella sua caverna,  egli avvertiva subito un forte desiderio di caffè.
    Ma il  caffè  non  era  ancora  stato  inventato  e  l'uomo  primitivo
    aggrottava   la   fronte,   assumendo  la  caratteristica  espressione
    scimmiesca.  Non  c'erano  neanche  bar.  Gli  scapoli,  la  sera,  si
    trovavano  in  qualche  grotta,  si  mettevano  in  semicerchio  e  si
    scambiavano botte di clava in testa secondo un preciso rituale. Era un
    divertimento molto rozzo,  e presto passò di moda.  Allora gli  uomini
    primitivi  cominciarono a riunirsi in caverne e a farsi sui muri delle
    caricature,   che  tra  di  loro  chiamavano  scherzosamente  graffiti
    paleolitici.  Ma  questo primo tentativo di bar fu un fallimento.  Non
    esistevano la moviola,  il vistoso sgambetto,  il secco rasoterra,  il
    dribbling  ubriacante  e l'arbitraggio scandaloso,  e la conversazione
    languiva in rutti e grugniti.
    Gli antichi romani,  invece,  inventarono subito la taverna osservando
    il volo degli uccelli,  e la suburra era un vero pullulare di bar. Gli
    osti facevano affari d'oro,  tanto  che  divennero  presto  la  classe
    dominante.  Cesare cominciò la sua carriera come cameriere, e conservò
    per tutta la vita la pessima abitudine di farsi dare mance dai barbari
    sconfitti.
    Nei bar romani si beveva molta menta,  vini dei colli e  assenzio.  Le
    leggi  erano molto severe: a chi veniva pescato ubriaco veniva mozzata
    la lingua.  Questo provvedimento fu revocato  allorché  in  Senato  le
    sedute  cominciarono  a  svolgersi  in perfetto silenzio.  1 camerieri
    erano per la maggior parte schiavi cartaginesi. Ma c'erano anche molti
    filosofi greci,  che servivano in tavola per  mantenersi  agli  studi.
    Aristotele fece il cameriere per due anni al «Porcus rotitus», ed ebbe
    l'intuizione  della  sua  Logica  osservando un cliente che cercava di
    infilzare con la forchettina  una  grossa  cipolla.  Platone  fece  lo
    sguattero al «Pomplius», uno dei ristoranti più à la page di Roma dove
    il carrello del bollito era una biga a due cavalli.
    Anche   in   Grecia  i  bar  ebbero  grande  diffusione.   I  filosofi
    Peripatetici insegnavano nei tavolini all'aperto e finivano le lezioni
    completamente ubriachi.  Pitagora inventò la sua famosa tavola  perché
    era  stanco  di  essere  imbrogliato  sui conti della birra,  e Zenone
    divenne Stoico perché non aveva mai la pazienza di far raffreddare  la
    sua cioccolata in coppa.

    Il medioevo fu uno dei periodi d'oro dei bar. Fu inventato il posto di
    ristoro,  o stazione per cavalli, in cui i cavalli potevano riposare e
    i cavalieri rifocillarsi.  In realtà la cosa andava così: il cavaliere
    chiedeva  al  cavallo «Sei stanco,  sì»,  si fermava e beveva.  Questo
    avveniva anche trenta, quaranta volte in un chilometro.
    Nelle taverne ci si fermava a  duellare  e  a  schiaffeggiarsi  con  i
    guanti.  D'Artagnan  sfidava e uccideva tutti quelli che sorprendeva a
    giocare a flipper, perché il rumore lo mandava in bestia.
    In queste taverne,  che avevano nomi come  «Il  Gallo  d'oro»,  «L'oca
    irsuta»,  «Il Buco del diavolo»,  si beveva in coppe pesantissime alte
    fino a  mezzo  metro,  intarsiate  di  rubini  e  zaffiri,  con  olive
    gigantesche come cocomeri.
    Una  variante celebre di queste taverne erano quelle dei pirati,  dove
    si beveva quasi esclusivamente rhum. In verità i pirati andavano pazzi
    per il frappé: ma rozzi e adusi alla vita di mare, finivano sempre per
    piantarsi i cucchiaini negli occhi.  Per questo il novanta  per  cento
    portava la famosa benda nera.
    Molti finirono così distrutti dall'«acqua di fuoco»,  finché il famoso
    Morgan l'orbo non scoprì che il frappé si poteva  bere  anche  con  la
    cannuccia.  Per  questa  intuizione  la regina d'Inghilterra lo nominò
    baronetto e gli regalò un timone in similpelle leopardo.
    Alcune di queste taverne erano leggendarie,  come  il  «Cannone  delle
    Antille», il cui proprietario era il famoso O'Shamrok. O'Shamrok aveva
    un  pappagallo  straordinario,  Bozambo,  che  egli aveva addestrato a
    tenerlo sulla spalla.  Cioè era il pappagallo che teneva sulla  spalla
    O'Shamrok,  il  quale si teneva aggrappato con i piedi.  Il pappagallo
    serviva i clienti in tre lingue  e  O'Shamrok  fumava  la  pipa  e  si
    limitava  a  dire  delle  cretinate come «Shamrok vuole il brustolino»
    oppure «Shamrok dice buonasera. Eeeerk», e così via. In quella taverna
    si poteva entrare solo con una gamba di legno,  o  con  un  occhio  di
    vetro,  o con un uncino al posto della mano, tanto che c'era sempre un
    fabbro pronto a separare gli avventori che si salutavano.  Il  cliente
    più  gradito  era  l'Olonese,  che  era  in  realtà un comodino con un
    braccio e un cappello in testa.  L'Olonese beveva  ogni  sera  quattro
    pinte  di rhum,  che gli venivano versate nei cassetti.  Quando era in
    vena  di  scherzi,   spalancava  lo  sportello  in  fondo  e  mostrava
    l'orinale,  provocando  l'ilarità  degli astanti.  Morì a Maracaibo: i
    suoi si ammutinarono e di notte gli riempirono il letto di chiodi.
    Un altro cliente abituale era il Corsaro  Nero.  Aveva  una  gamba  di
    legno  saldata  male,  e quando cambiava il tempo la giuntura gli dava
    delle fitte atroci.  Quando ciò avveniva,  il Nero perdeva  la  testa,
    cominciava  a  urlare  e  con la scimitarra si tagliava la gamba.  Per
    questo uno dei suoi uomini lo seguiva sempre con  una  sacca  da  golf
    piena  di  gambe di ricambio.  Il Corsaro Nero era molto vanitoso e ne
    aveva più di trecento, tutte di legno pregiato,  da combattimento,  da
    passeggio e da sera. Ne aveva anche una da affondamento, terminante in
    una pinna di tek.
    Una  sera  che  era molto ubriaco e aveva molto male,  il Corsaro Nero
    prese la scimitarra e si tagliò la gamba buona.  Sulle prime non volle
    ammettere  l'errore  e continuò a giocare stoicamente a chemin de fer.
    Verso mezzanotte,  però,  cominciò a dondolare sulla sedia e disse  di
    non  sentirsi  bene.   Per  fortuna  c'era  lì  un  chirurgo,   Almond
    l'assassino,  che cosparse di whisky la ferita e disse:  «Nero,  tieni
    duro,  adesso ti farò un po' di male». Il Corsaro disse: «Non ho paura
    del male. Ma cosa dirà mia madre?». Almond gli montò due gambe, ma una
    era più lunga,  così  il  Corsaro  stava  in  piedi  un  momento,  poi
    precipitava a destra.  Allora ne montò due uguali,  ma una era scura e
    l'altra chiara e il Corsaro quando si vide allo  specchio  si  mise  a
    piangere.  Finalmente  riuscì  a  montarne  due che andavano bene,  ma
    proprio in quel momento entrarono gli sgherri  dell'esercito  inglese,
    capitanati  da Nelson.  Tutti i pirati riuscirono a fuggire scivolando
    con l'uncino lungo i fili del bucato.  Solo il Corsaro restò fermo  in
    mezzo  alla  sala  con  le gambe di legno,  senza riuscire a muoversi.
    Nelson lo vide e disse:  «Nero,  cos'è,  un  altro  dei  tuoi  sporchi
    trucchi?».  Il  Corsaro  Nero  replicò  sardonico:  «Bau»,  e cercò di
    scappare a quattro gambe. Fu preso e buttato nelle carceri, per essere
    impiccato l'indomani.
    La Filibusta,  quella sera,  si  riunì  sulla  nave  dell'Olonese  per
    studiare  una  maniera  per  liberare il Corsaro Nero.  Ma dalla costa
    facevano i fuochi artificiali,  e tutti si precipitarono in coperta  a
    vederli,  così nessuno si ricordò più dello sventurato.  La mattina il
    Corsaro Nero si presentò sul  palco  dei  condannati  con  un  sorriso
    beffardo.  Continuò  a  sorridere anche mentre gli mettevano il cappio
    attorno al collo.  Infatti s'era fatto fare,  durante  la  notte,  due
    gambe di legno alte sei metri, e quando la botola si aprì lui restò in
    piedi  sui  trampoli.  Il boia dovette scendere sotto il palco con una
    sega.  Ma  intanto  dalla  nave  dell'Olonese  partì  una  bordata  di
    cannonate  che centrò in pieno il palco,  e il Nero fuggì con la forca
    in spalla,  arrivò fino al mare,  rubò un gommone e tornò tra i  suoi,
    che  però  si ammutinarono e lo fecero imbalsamare.  Ma stiamo uscendo
    dall'argomento.
    Passiamo quindi alla Rivoluzione francese: in questo  periodo  il  bar
    ebbe  veri  momenti  di fulgore.  I nobili vi passavano quasi tutta la
    giornata.
    Cristoforo Colombo era stato da poco in  America,  e  appena  sbarcato
    aveva  visto  gli indigeni che portavano al collo degli strani oggetti
    di ferro,  a forma di cilindro con un piccolo becco.  Gli indios,  nel
    loro dialetto,  li chiamavano «napoletana»,  o «moka», che voleva dire
    «macchina-di-ferro-dal-nero-succo-che ti sveglia».  Essi  tenevano  in
    questi  cilindri  un  liquore denso e scuro,  di cui bevevano quantità
    incredibili.  Cristoforo Colombo volle  assaggiarlo  e  subito  disse:
    «Manca  lo zucchero»,  poi propose una permuta,  e si fece dare tre di
    queste macchine per trecento sveglie.  Gli indigeni,  soddisfatti,  lo
    chiamarono «Bazuk» (uomo-bianco-che-fa-gli-affari-da-bestia), e fecero
    un balletto in suo onore.
    Colombo  tornò  in  Spagna,  e  appena  giunto alla corte della regina
    Isabella,  si chinò ai suoi piedi con la cuccuma in mano e le fece una
    grossa  macchia sul vestito intarsiato di diamanti.  La regina adirata
    disse: «Que fais?» (cosa fai?) anzi non disse proprio  così,  comunque
    da  quel  giorno  la bevanda si chiamò Quefé e poi Caffè,  anche se il
    popolo  irriverente  insisteva  nel  chiamarlo  Cazzofè.   Alla  corte
    spagnola  il caffè divenne subito di gran moda: ma potevano berlo solo
    gli uomini,  poiché per le  donne  era  considerato  scandaloso  farsi
    vedere  con  una  tazzina in mano.  In realtà,  le dame della corrotta
    corte di Isabella tutte le notti,  di nascosto scivolavano  fuori  del
    palazzo  reale travestite da palafrenieri,  e andavano a bere il caffè
    nella suburra.  Un giorno il cuoco di palazzo,  Olivares,  sorprese la
    regina che di nascosto frugava nel bidone del rusco per raccattare una
    manciata di fondi.  Per far tacere lo scandalo il re dovette nominarlo
    marchese e impiccarlo.
    Dalla Spagna il  caffè  volò  in  Francia,  dove  divenne  la  bevanda
    preferita della nobiltà.  Qui l'abate Sieyes, nota figura di taccagno,
    inventò il cappuccino,  che originariamente al posto del  latte  aveva
    l'acqua.
    I nobili francesi, come detto, davano triste spettacolo di sé passando
    tutto  il  tempo al bar e divertendosi a sputare i semi delle olive in
    testa al Terzo Stato.  Il popolo  fremeva,  e  Parigi  era  ormai  una
    polveriera.  La  scintilla  fu data da un episodio avvenuto al bar "Le
    Canard muscleton»; il marchese di Poissac,  noto libertino,  buttò una
    palla  di  gelato  nella  scollatura di una cameriera,  e il marito di
    questa lo inseguì tra i tavolini e lo uccise. Subito il popolo, armato
    di forconi, scese in strada e si mise a fare scempio di artstocratici.
    Il re, dato che la CIA non era ancora stata costituita, fu costretto a
    fuggire.  Ma mentre stava  già  con  una  gamba  sul  davanzale  della
    finestra,  gli  giunse la notizia che i rivoluzionari si erano riuniti
    nella sala della pallacorda. Allora si precipitò trafelato,  e infatti
    li  trovò che giocavano,  e stavano litigando perché Robespierre aveva
    sbagliato una schiacciata.
    «Voglio giocare anch'io» disse il re, e tutti gli piombarono addosso e
    lo portarono alla ghigliottina.
    Intanto,  in Italia,  Girolamo Savonarola bollava la corruzione  della
    nobiltà e lanciava il caffè Hag. Il resto è storia dei giorni nostri.


 

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