lunedì 15 gennaio 2024

Nicola Porro: Gli altarini della sinistra


La sinistra ritiene di non avere altarini o almeno così i suoi sacerdoti raccontano di se stessi. Non c’è un avvicendarsi di passione e risurrezione, in cui la seconda sveli la verità che la prima aveva celato, non c’è una presa di coscienza, un pentimento e un nuovo inizio; la sua liturgia è costantemente impegnata ad assolvere se stessa e a ridimensionare con un sorriso di sufficienza gli eclatanti peccati commessi nel passato.

Non c’è nulla di più detestabile di questo tic della sinistra, e cioè di voler insegnare agli altri il senso dei propri errori.

E magari i destinatari della lezioncina sono proprio coloro che quegli errori non li hanno mai commessi. Forse aveva ragione George Orwell quando con lucidità commentava: «Gran parte del pensiero di sinistra è come scherzare con il fuoco senza sapere che il fuoco brucia». E quando l’incendio è divampato hanno pure la presunzione di spiegare agli altri come evitarlo o spegnerlo.

Risultano straordinari pertanto quegli statalisti che oggi attribuiscono al mercato la distruzione dell’ambiente da parte del mercato, dopo che per sessant’anni hanno costruito oltrecortina le zone ecologicamente più degradate e inquinate del pianeta; per non parlare di quei socialisti che oggi proclamano la necessità di sburocratizzare un sistema bloccato, dopo che hanno magnificato, per almeno un secolo, le virtù dello stato, coprendosi gli occhi davanti ai suoi fallimenti. Sono ridicoli quanto quei sindacalisti e politici di sinistra che sfilano dolenti davanti alle salme delle fabbriche di automobili porgendo le loro condoglianze alle famiglie di operai senza futuro, proprio dopo aver terminato un comizio sulla necessità di bandire i motori a scoppio.

Il liberale, al contrario, ha o dovrebbe avere sempre in mente la forza del proprio errore, perché sa che chi agisce può sbagliare e che dal prenderne atto può iniziare un cambiamento. È perfettamente cosciente che la libertà dell’individuo, e dunque quella delle sue organizzazioni sociali, può provocare danni. Come direbbe Nassim Taleb, proprio per questo il liberale è antifragile, perché di fronte a fattori di stress come gli errori, cambia e migliora, per adattarsi; il fallimento, dunque, contiene in nuce una nuova opportunità. Il liberale, per dirla con Orwell, tende a scherzare col fuoco, certamente come tutti, ma è consapevole che esso bruci.

Il liberale non sa se il presunto omicida o truffatore sia davvero colpevole, ma è consapevole del fatto che le circostanze potrebbero averci ingannato, e dunque conviene non affidarsi alle emozioni della folla e aspettare pazientemente il giudizio finale.

Il liberale non sa se l’ambiente verrà davvero compromesso dall’emissione di quantità sempre superiori di anidride carbonica, ma pensa che affidare il cambiamento del proprio stile di vita e del proprio modello sociale, un hayekiano ordine spontaneo, a una pattuglia di burocrati, potrebbe rappresentare un grande rischio per le nostre libertà.

Un liberale non si affida ciecamente agli eroi acclamati dai più, sa che l’uomo perfetto su questa Terra non esiste, pertanto, conoscendo i limiti e la debolezza dell’individuo, diffida o almeno non divinizza i Soumahoro o i Davigo, se mai ne avesse, perché rischierebbe di fare una plateale figuraccia e di doverli tirar giù di fretta dall’Olimpo.

Il sogno libertario, in effetti, si è inventato l’epica di John Galt, l’eroe di Ayn Rand, ma lo ha cancellato dal mondo, lo ha reso invisibile, lo ha furbescamente creato innaturale e misterioso: inattaccabile. Forse l’unico modo per poter celebrare a tutto tondo l’egoismo etico come virtù essenziale per lo sviluppo di una società più libera.

Ma torniamo a noi.

Come si può progredire verso la costruzione di una società più libera senza la coscienza dell’errore?

Questo mio libro vuole raccontare con qualche esempio tratto dalla cronaca quotidiana, come la sinistra – non tutta certo – viva ormai un chiaro imbarazzo proprio per questa mancata presa di coscienza. Celare gli errori del passato e del presente, infatti, non solo non giova alla gestione dello stato, ma crea una condizione stantia e ipocrita ormai insopportabile per la sinistra stessa.

Una sinistra che ha un racconto tutto suo e apparentemente inscalfibile del suo modo di essere in cui il giustificazionismo etico è diventato uno stile corredato dall’insopportabile supponenza di voler sempre perseguire il bene collettivo e non l’interesse personale.

Pensiamo all’ambito economico in cui la sinistra sostiene l’uguaglianza e combatte le disuguaglianze, ritenute da sempre offensive e criminali; al contrario detesta chi protegge le tradizioni culturali in nome di una disuguaglianza di provenienze da proteggere; vuole che tutti rispondano in modo uguale di fronte alla giustizia indipendentemente dal colore del proprio colletto; anche se per la sinistra quello bianco, di colletto, è sempre un po’ più colpevole; è magnanima nel capire che il lavoratore è sempre e comunque parte debole della contrattazione e dunque merita di essere legalmente aiutato con una spintarella; una sinistra che ha creato il sindacato a sua immagine e somiglianza e che ne ha fatto la sua cinghia di trasmissione; che ha inventato i contratti erga omnes definendoli “collettivi”, salvo poi pentirsene e richiedere le clausole salariali minime per legge.

Il denaro per la sinistra è lo sterco del demonio, soprattutto se posseduto in grande quantità, ma diventa inspiegabilmente profumato se gestito e intermediato da un soggetto pubblico che si chiama stato; ritiene che i diritti dei più deboli, ad esempio centinaia di milioni di potenziali immigrati, debbano essere garantiti a tutti i costi e che debbano essere sovvenzionati senza ma e senza se dai più forti, cioè noi occidentali che, pieni di peccati originali, dal colonialismo allo schiavismo al maschilismo, dobbiamo agire in questo modo per pentimento e ammenda.

La sinistra è pura e se qualcuno viene colto con le mani nel sacco, be’ è un “compagno che sbaglia”. La sinistra riesce a elencare, senza mai mancare un colpo, tutta la lista dei diritti che spettano ai cittadini (non agli individui), omettendo in toto i loro doveri. La sinistra è sempre progressista, anche quando ci vuole sostenibili in bicicletta, senza aria condizionata, con meno docce e più parsimonia nell’acquisto di carne. La sinistra ha amato il lockdown perché finalmente la natura si è riappropriata delle nostre brutte città, opera dell’uomo. La sinistra adora la campagna e lo slow food, preferisce il lardo di Colonnata al bacon, e tutto questo ve lo racconta da magnifiche zone centrali sempre più rurali, in cui è vietato il traffico alle auto, se non le loro, è bandita l’apertura dei fast food e dove il verde è custodito come il green della 18 di St. Andrews. La sinistra ti spiega come cucinare con le piastre a induzione e si compiace della multa che il sindaco eleva a chi si è permesso di usare un barbecue per grigliare le costolette. La sinistra legge i giornali e compra l’«Internazionale», mentre gli altri si impasticcano sui social. Adorava Twitter quando bloccava e censurava Donald Trump e prima che lo comprasse Elon Musk, ora invece lo detesta perché si è permesso di chiedere un abbonamento di 8 dollari a chi voglia essere riconosciuto grazie a una spunta blu. La sinistra ama le élite, quelle che si autoleggono come tali, non quelle che pagano per avere un segno di riconoscimento sul social di un miliardario. La sinistra ama il fact checking, la verifica puntigliosa dei fatti e delle fonti, perché per definizione non si applica ai dogmi religiosi, cioè i loro. Si può forse fare un controllino sulla data in cui finirà il mondo?

La sinistra è fratellanza e rispetto delle opinioni altrui, sempre che siano però scritte e ospitate nei loro contenitori. La sinistra è contro la censura, ma non esita un secondo a proporre un reato di “negazionismo” a chi la pensa fuori dal coro. La sinistra è per il lavoro, ma quello fisso, a tempo indeterminato e ben retribuito. Sull’utero al contrario ritiene che i contratti a tempo e specificatamente quelli tipici a nove mesi siano leciti, ma che debbano essere ben regolati: uno “statuto delle gestanti”. Eppure, non sopporta le politiche per la natalità. La sinistra dà peso alle parole, è inclusiva, sostenibile e ovviamente resiliente. La sinistra vuole rompere i soffitti di cristallo, basta che non ci si elevi troppo. Per par condicio dà valore alle vocali, tutt* e tuttə, che stiano attente al genere. La sinistra è specializzata a fare lezioncine su quei clamorosi errori che ammette di aver fatto in passato, lo fa con nonchalance, come se avesse già sviscerato la questione, così che non molli la cattedra anche quando siano state riconosciute le sue nefandezze. La sinistra ha amato la Russia e odiato l’America, ma oggi detesta Mosca e ama New York. La sinistra firma appelli e ci mette la faccia, sempre ben accompagnata da altre centinaia di migliaia di facce che dicano la stessa cosa. La sinistra è seria e studiosa. E soprattutto si crede tale. La sinistra ama le facoltà di lettere, ma detesta chi difende l’italiano. La sinistra celebra la festa della Liberazione e del Primo Maggio, ma dimentica quella del 4 novembre. La sinistra non partecipa a tavole rotonde senza donne, la sinistra è laica. La sinistra si inventa una segretaria di partito donna, dopo che la destra ha reso una donna presidente del Consiglio. La prima però è migliore perché è “diversa”, la seconda invece è solo “madre”.

Per la sinistra in economia non esiste una legge della domanda e dell’offerta e il vincolo di bilancio, ma solo la soddisfazione dei bisogni, che sono sempre necessari. Il grande Einaudi aveva per tempo colto bene questa contraddizione e nelle sue Lezioni di Politica sociale, scriveva:

«Affermando essere il mercato lo strumento adatto per indirizzare la produzione nel senso di produrre beni e servigi, precisamente nella quantità e della qualità corrispondenti alla domanda degli uomini, non si afferma che il mercato indirizzi altresì la produzione a produrre beni e servigi nella quantità e nella qualità che sarebbe desiderata [il corsivo è mio, N.d.A.] dagli stessi uomini. Questi fanno quella domanda che possono, con i mezzi, con i denari che hanno disponibili. Se avessero altri e maggiori mezzi, farebbero un’altra domanda: degli stessi beni in quantità maggiore o di altri beni di diversa qualità. Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni. Una donna che passa davanti a una vetrina sente un bisogno intenso del paio elegante di calze che vi è esposto; ma non avendo quattrini in tasca, o non avendone abbastanza, non fa alcuna domanda. Il mercato è costruito per soddisfare domande, non desideri».

Può sembrare una legge dura, ma è la legge di mercato, l’unica, sia pure imperfetta, che cerca di smistare nel modo migliore le risorse comunque limitate di cui noi tutti disponiamo. Sarebbe bello rispondere – magari in modo centralizzato – ai desideri di tutti, congelando, per così dire, la domanda e ampliando senza limiti l’offerta, ma utopistico. Il risultato inevitabile è che questi bisogni col tempo verrebbero sempre più compressi, per l’impossibilità dei produttori di soddisfare ogni richiesta senza tenere conto della loro economicità.

Molti dei nostri intellettuali, anche i più sofisticati e apprezzabili, si sono formati con in tasca una tesserina con l’effige di Lenin.

Giuliano Ferrara è uno di loro, ma, a differenza della gran pattuglia dei suoi simili, è di una rara lucidità quando nota:

«Sul retro di copertina della mia prima tessera del Pci (Lenin sul fronte) al punto 10, conclusivo, era scritto: “Difendere il partito da ogni attacco”. Per educazione o diseducazione totalizzante, non ero dunque predisposto al dubbio, sebbene mio padre notasse, con una sfumatura di ironia, che l’articolo 10 si prestava a un equivoco di tipo militare, lontano dall’idea di una via italiana o democratica al socialismo. Ero un ragazzo, l’assenza di dubbio mi dava conforto, incoraggiamento e spinta… Per quattro decenni i miei nuovi amici, da Aron a Popper, mi hanno spiegato le virtù infinite del dubbio, cuore e anima di ogni pensiero critico. Alla nuova filosofia della congettura e della confutazione, del fallibilismo, della verifica in termini di fatto, dell’esperienza, del metodo rigidamente improntato alla flessibilità etica ed epistemologica del dubitare su tutto e di tutto, ma non di tutti, ché al mondo ci sono anche amicizia e amore, mi sono conformato da vero conformista, da neofita di un liberalismo debole e acquisito. Incorporata l’idea che il dubbio sia il sale della terra, per via di una lettera di Orazio a Massimo Lollio, in cui lo invitava a essere saggio a costo di sprofondare nella medietà o mediocrità del dubbio, con la famosa formula Sàpere àude, poi trasformata da Kant nel simbolo illuminista dell’autonomia critica, osare, servirsi della propria intelligenza, non dipendere da nessun dogma e limitarsi a conoscere ciò che si può conoscere con certezza, sempre dopo aver dubitato di ogni cosa, ho accettato il primato umano e divino del dubbio nel pensiero» («Il foglio», 25 luglio 2023).

La sinistra e i suoi intellettuali non sono sfiorati dal dubbio e persino contestano chi lo coltiva: chi non ha certezze sull’ambiente, chi non può prevedere, per definizione, i risultati dell’organizzazione del mercato, chi non vuole regolare, nei dettagli, chi preferisce il risultato alle procedure, che sono l’unica attività umana parzialmente controllabile. Il dubbio è il male. E Lenin, sempre lui, lo spiegò in modo chiaro in un libretto assai famoso: La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky. È lì che si legge, e si capisce, che colui che dissente dal verbo del partito, dal potere della massa, dal luogo comune è «un asino che va bastonato», espulso, escluso. Kautsky è un dannato, un rinnegato perché avrebbe osato trasformare Marx in un volgare liberale: in fondo il potente leader dell’Internazionale si poneva solo qualche dubbio sulla necessità di una rivoluzione violenta che abbattesse la democrazia borghese. Un dubbio che non si può neanche formulare nel più segreto dei propri pensieri.

 

Nessun commento:

Posta un commento