Fra il nastro d’argento del mattino e il verde nastro scintillante del mare, il battello toccò Harwich; ne uscì, come uno sciame di mosche, un gruppo di persone, fra cui l’uomo che noi dobbiamo seguire non spiccava in nessun modo... né lo desiderava. Non c’era nulla di notevole in lui, tranne un lieve contrasto fra la gaiezza festiva dei suoi abiti e la gravità ufficiale del suo viso. Indossava una leggera giacchetta grigia, un panciotto bianco e un cappello di paglia con un nastro grigio-azzurro. Il volto magro appariva scuro per il contrasto, e terminava in una barbetta nera che sembrava di taglio spagnolo ed evocava i colletti pieghettati dell’epoca elisabettiana. Fumava una sigaretta con la serietà di una persona in ozio. Nulla in lui faceva pensare che la giacchetta grigia nascondesse una rivoltella carica, che il panciotto bianco contenesse una tessera della polizia, e che il cappello di paglia ricoprisse uno dei più acuti cervelli d’Europa; infatti era Valentin in persona, il Capo della Polizia parigina nonché il più famoso investigatore del mondo, e veniva da Bruxelles a Londra a compiere il più grande arresto del secolo.
Flambeau si trovava in Inghilterra. La polizia di tre nazioni aveva seguito le sue tracce da Gand a Bruxelles, da Bruxelles a Hook, e si congetturava ch’egli avrebbe approfittato dell’insolita confusione dovuta al Congresso Eucaristico che si teneva allora a Londra. Probabilmente avrebbe viaggiato sotto le vesti di qualche impiegato addettovi. Ma, naturalmente, Valentin non poteva esserne certo: nessuno poteva essere certo di qualcosa quando si trattava di Flambeau.
Sono passati ormai molti anni dacché questo colosso della delinquenza smise
improvvisamente di tenere il mondo in agitazione; e, quando si ritirò, ci fu, come si disse dopo la morte di Orlando, una gran calma sulla terra. Ma, ai suoi bei giorni (voglio dire brutti, naturalmente), Flambeau era una figura importante e internazionale come il Kaiser. Quasi ogni mattina il giornale annunciava che era sfuggito alle conseguenze di uno straordinario delitto commettendone un altro. Era un guascone di statura gigantesca e di grande audacia fisica, e si raccontavano le più incredibili storie circa le sue improvvise esibizioni di atletica: come voltò all’ingiù il Juge d’instruction, e lo lasciò ritto sulla testa «a chiarirsi le idee», e come corse per la Rue de Rivoli con un poliziotto sotto ogni braccio. Si deve però riconoscergli che la sua fantastica forza fisica era generalmente usata in scene incruente se pur indecorose; i suoi delitti erano principalmente ingegnose rapine. Ma ognuna costituiva un nuovo peccato, e farebbe un racconto a sé. Fu lui che mise in piedi la grande Compagnia delle Latterie Tirolesi a Londra, senza latterie, senza mucche, senza carri, senza latte, ma con migliaia di sottoscrittori che lui serviva con la semplice operazione di trasportare davanti alle porte dei suoi clienti le bottiglie del latte che stavano davanti alle porte degli altri.Fu lui che mantenne una inspiegabile e intima corrispondenza con una fanciulla cui intercettavano tutta la posta, con lo straordinario sistema di fotografare i suoi messaggi infinitamente piccoli sulle lastre di un microscopio. Una travolgente semplicità era però la caratteristica di molti suoi esperimenti. Si diceva che una volta avesse ridipinto tutti i numeri di una strada nel cuore della notte solo per confondere un viaggiatore cui aveva teso un tranello. E certissimo che inventò una cassetta postale portatile che metteva agli angoli delle vie in sobborghi tranquilli, nella possibilità che qualcuno ci mettesse dentro dei vaglia. Inoltre, si sapeva che era un acrobata impressionante: nonostante la sua persona imponente, poteva saltare come una cavalletta e svanire fra gli alberi come una scimmia. Perciò il grande Valentin, quando partì per trovare Flambeau, sapeva benissimo che le sue avventure non sarebbero finite quando l’avesse trovato.
Ma come trovarlo? Su questo punto le idee del grande Valentin non erano ancora ben chiare.
C’era una sola cosa che Flambeau, nonostante tutta la sua abilità nel travestirsi, non poteva nascondere: la sua notevole statura. Se l’occhio esperto di Valentin avesse scorto un’alta fruttivendola, un alto granatiere, o anche una duchessa abbastanza alta, li avrebbe arrestati su due piedi. Ma in tutto il treno non c’era nessuno che potesse essere un Flambeau travestito, più di quanto un gatto possa essere una giraffa travestita. Sulla gente nel battello Valentin si era già tolto ogni dubbio; e le persone salite ad Harwich o durante il viaggio si limitavano a sei. C’era un impiegato delle ferrovie, piccolo, che andava fino alla stazione terminale, tre giardinieri piuttosto piccoli saliti due stazioni dopo, una vedova molto piccola proveniente da una cittadina dell’Essex, e un piccolissimo prete cattolico proveniente da un villaggio dell’Essex. A proposito di quest’ultimo, Valentin quasi si mise a ridere. Il piccolo prete era tipico di quelle pianure dell’Inghilterra orientale, con un viso rotondo e piatto come quelle focaccette di Norfolk, e occhi incolori come il Mare del Nord. Aveva vari pacchi di carta scura che non riusciva a radunare. Il Congresso Eucaristico aveva indubbiamente risucchiato fuori dalla loro vita stagnante molte creature del genere, cieche e incapaci come talpe fuori dalla terra. Valentin era uno scettico del severo tipo francese e non riusciva a nutrire simpatia per i preti, ma poteva averne pietà, e questo prete avrebbe suscitato la pietà di chiunque. Portava un grosso ombrello di poco prezzo che cadeva continuamente per terra, e non sembrava sapere quale fosse la parte giusta del suo biglietto di andata e ritorno. Spiegava con petulante semplicità a tutti quelli che erano nel treno che doveva fare attenzione, perché aveva una cosa fatta di vero argento «con pietre azzurre» in uno dei suoi pacchetti. La sua strana mescolanza di ottusità e di santa semplicità continuarono a divertire il francese finché il prete arrivò (in un modo o nell’altro) a Tottenham con tutti i suoi pacchetti, e ritornò indietro a prendere l’ombrello. Valentin ebbe allora persino la benevolenza di consigliargli di badare all’oggetto d’argento senza parlarne a tutti. Ma, pur parlando con lui, Valentin teneva gli occhi aperti alla ricerca di qualcun altro; stava ben attento se vedeva qualcuno, ricco o povero, maschio o femmina, che superasse i sei piedi: infatti Flambeau li superava di quattro pollici.
Ad ogni modo scese a Liverpool Street, assolutamente sicuro di non essersi fino allora lasciato sfuggire il ladro. Andò quindi a Scotland Yard per regolare la sua posizione e disporre che gli procurassero aiuti in caso di bisogno; poi accese un’altra sigaretta e andò a fare un lungo giro per le strade di Londra. Mentre passava per le strade e le piazze oltre la Victoria Station, si fermò improvvisamente. Era una bizzarra piazza tranquilla, tipica di Londra e, in quel momento, assolutamente silenziosa. Intorno, le case alte e piatte apparivano allo stesso tempo ricche e disabitate; l’aiuola nel centro sembrava deserta come una verde isoletta del Pacifico. Uno dei quattro lati era parecchio più alto degli altri, come una pedana, e la linea di questo lato era interrotta da una delle mirabili incongruità di Londra: un ristorante che sembrava uscito da Soho. Era bizzarro e attraente, con alberi nani sistemati dentro dei vasi e lunghe tende a strisce gialle e bianche. Era un bel po’ più in alto della strada, e nel consueto modo affastellato di Londra, una scaletta saliva dalla strada fino alla porta come una scala di salvataggio salirebbe alla finestra di un primo piano. Valentin si fermò davanti alle tende gialle e bianche e le esaminò lungamente.
La cosa più incredibile dei miracoli è che accadono. Qualche nuvola nel cielo si dispone in modo da assumere la forma di un occhio umano; un albero si stacca nel paesaggio di un viaggio incerto con l’esatta ed elaborata forma di un punto interrogativo. Ho visto io stesso entrambe le cose in questi ultimi giorni. E Nelson muore nell’istante della vittoria, e un uomo di nome Williams uccide assolutamente per caso un uomo di nome Williamson: il che suona come un infanticidio. In breve, c’è nella vita un elemento di magica coincidenza che può sempre sfuggire alla gente che bada solo all’aspetto prosaico delle cose. Come è stato ben espresso dal paradosso di Poe, la saggezza dovrebbe sempre contare sull’imprevisto.
Aristide Valentin era profondamente francese; e l’intelligenza francese è assolutamente e unicamente intelligenza. Non era «una macchina pensante», perché questa è una frase insensata del fatalismo e materialismo moderno; una macchina è una macchina, proprio perché non può pensare. Ma era un uomo che pensava, e un uomo semplice allo stesso tempo. Tutti i suoi meravigliosi successi, che sembravano opere di magia, erano stati ottenuti mediante una severa logica, e secondo il limpido e semplice pensiero francese. I Francesi elettrizzano il mondo non con dei paradossi, ma sviluppando luoghi comuni. Portano un luogo comune ad estreme conseguenze... come nella Rivoluzione francese. Ma, proprio perché Valentin capiva la ragione, capiva anche i limiti della ragione. Solo un uomo che non sappia nulla di motori parla di far andare una macchina senza benzina; solo un uomo che non sa nulla della ragione parla di ragionare senza basi solide e indiscusse. E qui gli mancavano basi solide: Flambeau non si era visto a Harwich e, se era a Londra, poteva essere chiunque, da un alto vagabondo in un prato di Wimbledon a un alto organizzatore di brindisi all’albergo Métropole. In questo stato di totale ignoranza, Valentin aveva un punto di vista e un metodo suoi propri.
In simili casi lui faceva conto sull’imprevisto; quando non poteva seguire tracce razionali, freddamente e accuratamente seguiva delle tracce irrazionali. Invece di recarsi nei soliti posti: banche, posti di polizia, punti di ritrovo, egli andava sistematicamente nei posti meno adatti; bussava a ogni casa vuota, entrava in ogni cul de sac, risaliva ogni straducola ingombra di immondizie, percorreva ogni strada tortuosa che lo faceva deviare inutilmente. Difendeva questo sistema pazzesco con molta logica. Diceva che se si aveva un filo, questo era il metodo peggiore ma che, se non si aveva assolutamente nessun filo, era il migliore, perché c’era la possibilità che qualche cosa di insolito che avesse fermato lo sguardo dell’inseguito poteva fermare anche quello dell’inseguitore. Si deve incominciare da qualcosa, ed è meglio incominciare proprio là dove un altro finirebbe. Qualcosa in quella scaletta che conduceva al ristorante, qualcosa nella calma e nella bizzarria del locale, risvegliò la fantasia romantica dell’agente investigativo, una fantasia per lo più latente, e lo indusse a tentare a caso. Salì i gradini e, sedutosi a un tavolino vicino alla finestra, ordinò una tazza di caffè nero.
Il mattino era inoltrato, e lui non aveva fatto colazione; qualche traccia di altre colazioni sui tavolini gli ricordò che aveva fame e, aggiunto un uovo affogato alla sua ordinazione, cominciò a zuccherare il caffè, riflettendo sempre su Flambeau. Ricordava come Flambeau fosse scappato, una volta servendosi di un paio di tenaglie e un’altra servendosi dell’incendio di una casa; una volta andando a pagare una lettera non affrancata, e una volta facendo guardare alla gente in un telescopio una cometa che doveva distruggere il mondo. Valentin pensava che il suo cervello di investigatore valesse quanto quello del criminale, il che era vero, ma si rendeva benissimo conto dello svantaggio. «Lui è l’artista creatore; e io solamente il critico», disse fra sé con un sorriso agro, poi portò lentamente la tazza alle labbra, e la riposò subito. Ci aveva messo del sale.
Guardò il recipiente da cui proveniva la bianca polvere: era certamente una zuccheriera, così chiaramente intesa allo scopo di contenere zucchero come una bottiglia di champagne è intesa a contenere dello champagne. Si domandò perché ci tenessero il sale. Guardò per vedere se c’erano oggetti più adatti allo scopo: sì, c’erano due saliere piene. Forse c’era qualche particolarità nel contenuto delle saliere, e ¡’assaggiò: era zucchero. Quindi si guardò intorno con aria interessata, per vedere se ci fossero altre tracce di quel singolare gusto che metteva lo zucchero nelle saliere e il sale nelle zuccheriere. A eccezione di una strana macchia di un qualche liquido scuro sui muri tappezzati di chiaro, il locale appariva ordinato, gaio e comunissimo. Suonò per il cameriere.
Quando questi arrivò in fretta, coi capelli un po’ scomposti e gli occhi annebbiati per l’ora ancora mattutina, l’agente (che apprezzava anche le forme più semplici di umorismo) gli disse di assaggiare lo zucchero e di vedere se era all’altezza della reputazione del ristorante. Il risultato fu che il cameriere improvvisamente sbadigliò e si svegliò del tutto.
«Fate questo scherzo spiritoso ai vostri clienti ogni mattina?», chiese Valentin. «Scambiare lo zucchero col sale è un scherzo che vi appare sempre nuovo e brillante?»
Il cameriere, quando il significato di tale ironia si fece più chiaro, assicurò balbettando che il locale non aveva certo quell’intenzione: doveva essersi trattato di uno sbaglio stranissimo. Prese la zuccheriera e la guardò; poi prese la saliera e guardò anche quella, assumendo un’espressione sempre più stupefatta. Alla fine si scusò bruscamente, e si precipitò via, tornando poco dopo in compagnia del proprietario. Questi esaminò a sua volta la zuccheriera e la saliera, e anche lui parve stupefatto.
A un tratto il cameriere sembrò perdere la parola per l’eccesso di idee.
«Credo», balbettò eccitato, «che siano stati i due preti.»
«Che preti?»
«I due preti», disse il cameriere, «che hanno gettato la minestra sul muro.»
«Gettato la minestra sul muro?», ripetè Valentin, certo che si trattasse di qualche bizzarra metafora italiana.
«Sì, sì», fece il cameriere con enfasi, e indicò la macchia scura sulla tappezzeria bianca, «l’hanno gettata là sul muro.»
Valentin guardò con aria interrogativa il padrone, che venne in soccorso con ulteriori particolari.
Sì, signore», disse, «è verissimo, sebbene io non pensi che abbia nulla a che fare con lo zucchero e il sale. Entrarono due preti e si fecero dare del brodo; era molto presto, e avevamo appena aperto. Erano tutti e due persone molto tranquille e rispettabili; uno pagò e uscì, l’altro, che sembrava sotto tutti gli aspetti un po’ più impacciato, indugiò qualche momento per radunare le sue cose. Ma finalmente uscì; solo, prima di varcare la soglia, prese deliberatamente la sua tazza da brodo, che aveva bevuto solo a metà, e ne gettò il contenuto contro il muro. Io ero di là, e così pure il cameriere; perciò corsi di qui appena in tempo per trovare il muro macchiato e il locale vuoto. Non è danno grave, ma si è trattato di una bella sfacciataggine. Cercai di raggiungere i due nella strada, ma erano già troppo lontani: vidi soltanto che svoltavano in Carstairs Street.»
Valentin era già in piedi, col cappello e il bastone in mano. Aveva deciso che in quell’assoluta oscurità poteva soltanto seguire il primo dito che indicasse qualcosa di insolito, e questo era un fatto abbastanza insolito. Pagato il conto e chiusasi dietro la porta a vetri, svoltò in fretta nell’altra strada.
Per fortuna, anche in simili momenti febbrili, il suo occhio restava calmo e pronto. Qualcosa in una vetrina lo colpì come un lampo: tornò indietro a guardare. Era un negozio di frutta e verdura, con un’esposizione esterna della merce, e i cartellini dei nomi e dei prezzi. Sul mucchio delle noci c’era un pezzetto di cartone con scritto a caratteri marcati in gesso turchino: «Le migliori arance: due per un penny». Sulle arance c’era ugualmente chiara ed esatta la dicitura: «Vere noci del Brasile, 4 pence la libbra». Valentin guardò quei due cartellini e pensò che aveva già incontrato quella sottile forma di umorismo, e piuttosto di recente. Fece notare al fruttivendolo dal viso rosso, che guardava imbronciato su e giù per la strada, l’inesattezza di quegli annunzi pubblicitari. Il fruttivendolo non disse nulla, ma con un gesto secco rimise a posto i cartellini. L’investigatore, appoggiandosi con eleganza al suo bastone da passeggio, continuò l’esame del negozio. Alla fine disse «Scusate la mia apparente incoerenza, mio buon amico, ma vorrei farvi una domanda di psicologia sperimentale sull’associazione delle idee».
Il negoziante dalla faccia rossa gli rivolse uno sguardo minaccioso; ma lui continuò allegramente, agitando il bastone da passeggio: «Perché», disse, «perché due cartellini sbagliati in un negozio di frutta sono come un cappello da prete venuto a Londra in vacanza? O, caso mai non mi fossi spiegato chiaramente, come nasce la mistica associazione che connette l’idea di noci indicate come arance con l’idea di due preti, uno alto e uno piccolo?».
Gli occhi del fruttivendolo gli uscirono dalla testa come quelli di una lumaca; per un momento parve davvero che stesse per gettarsi sullo sconosciuto. Alla fine balbettò: «Non so come c’entri lei, ma, se è un loro amico, può dir loro da parte mia che prenderò a pugni le loro sciocche teste, parroci o non parroci, se rovesciano ancora le mie mele».
«Davvero?», chiese Valentin, con molta simpatia. «Hanno rovesciato le sue mele?»
«Uno di loro», disse l’adirato fruttivendolo, «le ha fatte rotolare per tutta la strada. Vorrei aver raggiunto quello sciocco, non fosse altro che per fargliele raccogliere.»
«Da che parte sono andati i preti?», chiese Valentin.
«Nella seconda strada a sinistra, e poi hanno traversato la piazza», rispose l’altro prontamente.
«Grazie», disse Valentin, e svanì come un folletto. Dall’altra parte della seconda piazza trovò un poliziotto, e gli disse: «È urgente, guardia: ha visto due preti con dei cappelli larghi?».
Il poliziotto incominciò a ridere forte. «Altroché, signore! E, se vuole saperlo, uno era ubriaco. Si fermò in mezzo alla strada con un’aria così confusa che...»
«Da che parte sono andati?», lo interruppe Valentin.
«Hanno preso uno di quegli autobus gialli, da quella parte», rispose l’uomo, «quelli che vanno a Hampstead.»
Valentin mostrò la sua tessera, e disse molto in fretta: «Chiami due dei suoi uomini che mi aiutino nell’inseguimento», e attraversò la strada con un’energia così contagiosa che il poderoso poliziotto fu indotto a un’obbedienza estremamente sollecita. Dopo un minuto e mezzo, l’agente francese venne raggiunto sul marciapiede di fronte da un ispettore e da un sottoposto, tutti e due in borghese.
«Ebbene, signore», incominciò il primo, sorridendo con importanza, «in che possiamo...»
Valentin indicò bruscamente col bastone: «Ve lo dirò su quell’autobus», disse, e si precipitò come una freccia attraverso il groviglio del traffico. Quando tutti e tre si furono lasciati cadere ansimanti sui sedili, al piano superiore del veicolo giallo, l’ispettore disse: «Faremmo quattro volte più in fretta con un tassì».
«Verissimo», rispose la loro guida placidamente, «se solo sapessimo dove stiamo andando»
«Ebbene, dove stiamo andando?», chiese l’altro, sgranando gli occhi.
Valentin fumò accigliato per qualche secondo; poi, togliendosi la sigaretta di bocca, disse: «Se sapete quel che un uomo sta facendo, precedetelo; ma se volete capire che cosa stia facendo, stategli dietro. Deviate quando lui devia, fermatevi quando si ferma, e procedete adagio come lui. Allora potrete vedere quello ch’egli ha visto e agire com’egli ha agito. Tutto quel che possiamo fare è tener gli occhi bene aperti alla ricerca di qualche cosa strana».
«Che genere di cosa strana?», chiese l’ispettore.
«Qualunque genere di cosa strana», rispose Valentin, e ricadde in un ostinato silenzio.
L’autobus giallo attraversò la zona settentrionale della città, per interminabili ore, o almeno così pareva; il grande investigatore non volle dare altre spiegazioni, e i suoi aiutanti dovevano provare dei silenziosi e crescenti dubbi circa la loro impresa. Forse provavano anche un silenzioso e crescente desiderio di far colazione, perché l’ora normale di colazione era passata da un po’, e le strade dei sobborghi settentrionali di Londra parevano allungarsi sempre più, come un infernale telescopio.
Era una di quelle spedizioni in cui si ha sempre l’impressione di essere ormai arrivati al termine dell’universo, e poi si vede che si è solo arrivati al principio di Tufnell Park. Londra finiva in sparse taverne e squallidi cespugli, per rinascere inspiegabilmente con grandi vie illuminate e vistosi alberghi. Era come attraversare tredici volgari cittadine contigue. Ma, sebbene il crepuscolo invernale incombesse già sulla strada dinanzi a loro, l’investigatore parigino rimaneva seduto, in silenzio e attento, osservando i due lati della strada che passavano velocemente davanti ai suoi occhi. Quando ebbero superato Camden Town, i poliziotti erano quasi addormentati; certo ebbero come un soprassalto quando Valentin, balzato in piedi, diede loro un colpetto sulle spalle, e gridò al conduttore di fermare.
Si precipitarono giù dall’autobus senza capire perché e, quando si guardarono intorno per ricevere spiegazioni, videro Valentin che indicava trionfalmente una vetrata sul lato sinistro della strada. Era una grande vetrata, che apparteneva a un grande caffè dorato e fastoso; quella parte era riservata a rispettabili pranzi, e portava la scritta: «Ristorante». La vetrata, come tutte le altre sulla facciata del locale, era di vetro smerigliato e arabescato; ma nel mezzo c’era un grosso buco nero, come una frattura nel ghiaccio.
«Il nostro filo, finalmente», esclamò Valentin, agitando il bastone, «ecco lì, la finestra rotta.»
«Che finestra? Che filo?», chiese il più importante dei suoi aiutanti. «Che prova c’è che abbia qualche rapporto con loro?»
Valentin per poco non spezzò il suo bastoncino di bambù per la rabbia. «Prova! Buon Dio, questo vuole delle prove! Certo, ci sono venti probabilità contro una che non abbia nessun rapporto con loro. Ma che altro possiamo fare? Non vedete che dobbiamo seguire la più assurda delle possibilità, oppure andare a casa e metterci a dormire?» Si lanciò nel ristorante, seguito dai compagni, e si sedettero a fare una tarda colazione a un tavolino, guardando dall’interno la stella disegnata nel vetro dalla rottura.
«Si è rotta la finestra, vedo», disse Valentin al cameriere, mentre pagava il conto.
«Sì, signore», rispose l’altro, occupandosi del resto, a cui Valentin aggiunse silenziosamente una mancia enorme. Il cameriere si drizzò con tranquilla ma indubbia animazione. «Ah sì, signore», disse, «si è trattato di una cosa molto strana.»
«Davvero? Raccontateci», disse l’agente con distratta curiosità.
«Ebbene, vennero due signori vestiti di nero», disse il cameriere, «due di quei preti stranieri che ci sono in giro. Consumarono una colazione modesta, e uno di loro pagò e uscì. L’altro stava per raggiungerlo quando io controllai il resto e vidi che mi aveva dato più di tre volte il dovuto. “Senta”, dissi al tipo che stava per uscire, “ha pagato troppo”. “Oh!”, egli rispose, tranquillissimo, “davvero?”. “Sì”, dissi io e presi il conto per mostrarglielo. Allora ebbi come un colpo.»
«Perché?», chiese l’interlocutore.
«Ebbene, avrei giurato su sette Bibbie che avevo scritto 4 scellini su quel conto. Ma in quel momento vidi che avevo messo 14: era chiarissimo.»
«D’accordo», esclamò Valentin, alzandosi lentamente, mentre gli occhi gli ardevano, «e poi?»
«Il prete sulla soglia disse con calma: “Mi spiace di confondere la vostra contabilità, ma servirà per pagare la finestra”. “Che finestra?”, chiesi io. “Quella che sto per rompere”, mi rispose, e fracassò quel vetro con l’ombrello.»
Tutti e tre gli uomini diedero in un’esclamazione; e l’ispettore disse sottovoce: «Stiamo forse inseguendo dei matti scappati dal manicomio?».
Il cameriere continuò, divertendosi alquanto a quella ridicola storia: «Rimasi così imbambolato per un momento, che non riuscii a far nulla. L’uomo uscì dal locale e raggiunse l’amico all’angolo. Poi si avviarono così in fretta su per Bullock Street che io non riuscii a raggiungerli, sebbene fossi corso fuori».
«Bullock Street», disse Valentin, e si lanciarono per quella via con la stessa rapidità della strana coppia che stavano inseguendo.
Il loro viaggio li portò fra viuzze di nudi mattoni che parevano gallerie, vie con poche luci e poche finestre, che sembravano tagliate nel retro cieco di tutte le case di questo mondo. Il crepuscolo si addensava, e non era facile per i poliziotti londinesi capire in che direzione stavano andando. L’ispettore però era certo che sarebbero sbucati in qualche punto della Brughiera di Hampstead. A un certo punto una vetrina sporgente e illuminata a gas forò l’azzurro crepuscolo come una lanterna e Valentin si fermò un momento davanti a uno sgargiante negozietto di dolci. Dopo un momento di esitazione entrò, osservò i vivaci colori della confetteria con molta serietà, e scelse tredici sigari di cioccolata con una certa attenzione; evidentemente cercava il modo di attaccar discorso, ma non ne ebbe bisogno.
Una donna anziana, angolosa, aveva osservato il suo aspetto elegante con aria interrogativa ma, quando vide la porta bloccata dall’ispettore, gli occhi le si svegliarono. «Oh», disse, «se siete venuti per quel pacco, l’ho già mandato.»
«Pacco?», ripetè Valentin, e fu lui ad assumere un’aria interrogativa.
«Voglio dire il pacco che ha lasciato quel signore... quel prete.»
«Per carità», disse Valentin, piegandosi in avanti e dimostrando per la prima volta la sua ansietà, «per amor del cielo, ci dica esattamente quel che è successo.»
«Bene», disse la donna un po’ incerta, «i preti entrarono circa mezz’ora fa, comperarono delle pastiglie di menta e conversarono un po’, poi si avviarono in direzione di Hampstead. Ma un istante dopo, uno di loro tornò indietro di corsa dicendo: “Ho lasciato un pacco?” Io guardai da tutte le parti e non lo vidi. Allora lui disse: “Non importa; ma se lo trovaste, per favore mandatelo a questo indirizzo” e mi lasciò l’indirizzo e uno scellino per il disturbo. Ed ecco che, sebbene mi sembrasse di aver cercato dappertutto, trovai che aveva lasciato un pacchetto di carta scura, e lo spedii al posto che aveva detto. Ora non ricordo l’indirizzo: era dalle parti di Westminster. Ma, dato che sembrava una cosa tanto importante, pensavo che la polizia fosse venuta a cercarlo.»
«Infatti», disse Valentin brevemente. «Hampstead Heath è qui vicino?»
«Sempre diritto per cinque minuti», disse la donna, «e arriverete ai prati.» Valentin uscì dal negozio e cominciò a correre. Gli altri due lo seguirono al trotto, un po’ riluttanti.
La strada che percorrevano era così stretta e scura che, quando uscirono inaspettatamente nello spazio aperto, sotto il grande cielo limpido, furono stupiti di vedere che la sera era ancora così chiara. Una splendida cupola verde pavone sfumava nell’oro, fra alberi neri e lontananze violette. Il cielo verde era abbastanza scuro perché vi apparissero, come punte di cristallo, due o tre stelle. La luce del giorno che ancora restava era un bagliore dorato all’orizzonte, sopra quella popolare valletta chiamata la «Valle della Salute». La gente a passeggio da quelle parti non si era ancora dispersa del tutto; qualche coppia indistinta sedeva sulle panche; e un po’ più in là una ragazzina strillava su un’altalena. Lo splendore del cielo diminuiva e si oscurava intorno alla sublime volgarità dell’uomo; e, in cima al pendio, guardando attraverso la valletta, Valentin vide quello che cercava.
Fra i gruppi scuri che si separavano là in fondo, ce n’era uno particolarmente scuro che non si stava separando: un gruppo di due figure in abito clericale. Sebbene apparissero piccoli come insetti, Valentin poteva vedere che uno dei due era molto più piccolo dell’altro. E, sebbene quest’altro fosse un po’ curvo, alla guisa di uno studioso, e avesse modi che lo facevano passare inosservato, Valentin vide che era alto più di sei piedi. Strinse le labbra e andò avanti, agitando il bastone con impazienza. Quando ebbe notevolmente diminuito la distanza e ingrandito le due figure come in un grande microscopio, vide qualcos’altro: qualcosa che lo sorprese, e che pure in qualche modo si era aspettato. Chiunque fosse il prete alto, non ci potevano essere dubbi sull’identità di quello piccolo: era il suo amico del treno di Harwich, il tozzo curé dell’Essex che lui aveva messo in guardia a proposito dei pacchetti di carta scura.
Fin qui, tutto sembrava rientrare in un ordine abbastanza razionale. Valentin aveva appreso la mattina che un certo Padre Brown aveva portato dall’Essex una croce d’argento ornata di zaffiri, una reliquia di considerevole valore, per mostrarla ad alcuni dei preti stranieri convenuti al Congresso. Si trattava indubbiamente dell’oggetto «d’argento con le pietre azzurre», e Padre Brown era dunque il pretino inesperto incontrato sul treno. Ora, non c’era nulla di strano nel fatto che quanto aveva scoperto Valentin l’avesse scoperto anche Flambeau. Flambeau scopriva tutto. E non c’era neppure nulla di strano nel fatto che Flambeau, sentendo parlare di una croce di zaffiri, cercasse di rubarla: era la cosa più naturale di tutta la storia. E certo non c’era nulla di strano nel fatto che Flambeau facesse quello che voleva di un babbeo come l’uomo dell’ombrello e dei pacchetti, il tipo d’uomo che chiunque poteva condurre al Polo Nord tirandolo per un filo: né era sorprendente che un attore come Flambeau, vestito anche lui da prete, l’avesse condotto sui prati di Hampstead. Fin qui tutto sembrava abbastanza semplice e, mentre l’agente compiangeva il prete per la sua dabbenaggine, quasi disprezzava Flambeau per essersi abbassato a una vittima così inerme. Ma quando Valentin pensò a quello che era frattanto accaduto, e a tutto ciò che l’aveva condotto al suo trionfo, si scervellò per trovarci il benché minimo senso. Che rapporto aveva il furto di una croce d’argento a un prete dell’Essex, con la minestra gettata sul muro? Che rapporto aveva col chiamare arance le noci o col pagare dei vetri prima di romperli? Era giunto al termine della sua caccia; eppure, in qualche modo, gli sfuggiva la parte centrale. Quando falliva (il che gli accadeva di rado) aveva generalmente afferrato il filo, pur sfuggendogli il criminale. Qui aveva afferrato il criminale, ma ancora gli sfuggiva il filo.
Le due figure avanzavano come due mosche nere sul profilo verde di una collina. Erano evidentemente immersi nella conversazione, e forse non facevano attenzione a dove andavano; ma certamente erano diretti verso le alture più deserte e silenziose della brughiera.
A mano a mano che gli inseguitori guadagnavano terreno, erano costretti ad assumere gli atteggiamenti poco dignitosi dei cacciatori di cervi, a rannicchiarsi dietro a ciuffi di alberi e anche a strisciare fra l’erba alta. Con simili scomodi stratagemmi, i cacciatori arrivarono abbastanza vicino alla cava da sentire il mormorio della discussione, ma non si riusciva a distinguere quello che dicevano, tranne la parola «ragione» che ricorreva di frequente, pronunciata da una voce acuta, quasi fanciullesca. Una volta, in un’improvvisa depressione del terreno e in un fitto groviglio di piante, i poliziotti persero di vista le figure che stavano inseguendo. Non ritrovarono la traccia per dieci tormentosi minuti, finché giunsero sul ciglio di una grande collina che dominava una specie di anfiteatro, in una grandiosa e desolata scena crepuscolare. In quel luogo dominante ma deserto c’era, sotto un albero, una vecchia panca di legno. Su questa sedevano i due preti, ancora impegnati in una seria conversazione. I sontuosi colori verdi e dorati aleggiavano ancora sull’orizzonte che si oscurava; ma la volta del cielo passava lentamente dal verde all’azzurro pavone, e le stelle spiccavano sempre di più, come massicci gioielli. Facendo silenziosamente segno ai suoi assistenti, Valentin riuscì a strisciare fin dietro al grande albero e, rimanendo lì in mortale silenzio, udì per la prima volta le parole degli strani preti.
Dopo aver ascoltato per un minuto o due, fu colto da un terribile dubbio. Forse aveva trascinato i due poliziotti inglesi in quella desolata brughiera, di notte, per un’impresa che non aveva più senso che cercare fichi sui cardi lì intorno. Infatti i due preti discorrevano esattamente da preti, piamente, con dottrina e competenza, dei più elevati enigmi della teologia. Il piccolo prete dell’Essex parlava più semplicemente, con il viso rotondo rivolto alle stelle sempre più luminose; l’altro parlava con la testa piegata, come se non fosse neppur degno di guardarle. Ma in nessun bianco chiostro italiano o in nessuna scura cattedrale spagnola si sarebbe potuto sentire una conversazione più innocentemente clericale.
Le prime parole che sentì erano la conclusione di una frase di Padre Brown: «... ciò che realmente intendevano nel Medioevo dicendo che i cieli erano incorruttibili».
Il prete più alto assentì con la testa curva, e disse: «Ah sì, questi infedeli moderni fanno appello alla ragione; ma chi può guardare quei milioni di mondi senza sentire che possono esistere dei meravigliosi universi al di sopra di noi, dove la ragione è assolutamente irragionevole?».
«No», disse l’altro prete, «la ragione è sempre ragionevole, anche nell’ultimo limbo, all’ultimo confine delle cose. So che accusano la Chiesa di umiliare la ragione, ma è proprio il contrario. Sola sulla terra, la Chiesa sostiene che la ragione è realmente suprema. Sola sulla terra, la Chiesa afferma che Dio stesso è legato alla ragione.»
L’altro prete levò l’austero viso al cielo scintillante, e disse: «Eppure chi sa se in quell’universo infinito...?».
«Solo infinito fisicamente», lo corresse il piccolo prete, voltandosi bruscamente sulla panca, «non infinito nel senso che sfugga alle leggi della verità.»
Dietro l’albero, Valentin si mordeva le unghie in preda a una silenziosa rabbia. Gli pareva quasi di sentire le risatine dei poliziotti inglesi che aveva condotto così lontano su un indizio fantastico, ad ascoltare le chiacchiere metafisiche di due tranquilli vecchi parroci. Nella sua impazienza perse la egualmente elaborata risposta del prete alto e, quando ascoltò di nuovo, era nuovamente Padre Brown che stava parlando.
«La ragione e la giustizia tengono nella loro stretta anche la più lontana e solitaria stella. Guardi quelle stelle: non sembrano tanti diamanti e zaffiri? Ebbene, si può immaginare qualunque pazzia botanica o geologica si voglia. Pensi a foreste di diamante con foglie di brillanti. Pensi che la luna sia azzurra: un solo gigantesco zaffiro. Ma non immagina che tutta questa pazza astronomia porterebbe la minima differenza alla ragione e alla giustizia delle nostre azioni. Su pianure di opale, sotto rupi di perla, troverà un avviso che dirà: “non rubare”.»
Valentin era sul punto di sollevarsi dalla sua rigida e scomoda posizione e strisciare via più silenziosamente che poteva, sotto il colpo dell’unica grande follia della sua vita. Ma qualcosa nel silenzio stesso del prete alto lo indusse a fermarsi finché quello non avesse parlato. Quando infine parlò, disse semplicemente, con la testa piegata e le mani sulle ginocchia: «Io penso tuttavia che altri mondi possano forse sollevarsi al di sopra della nostra ragione. Il mistero de cielo è insondabile, e per parte mia posso soltanto piegare la testa».
Poi, con la fronte ancora bassa e senza cambiare minimamente l’atteggiamento o la voce, aggiunse: «Vuole darmi quella sua croce di zaffiri? Siamo del tutto soli qui, e io potrei farla a pezzi, come un fantoccio di paglia».
La voce e l’atteggiamento assolutamente immutati aggiungevano una strana violenza a quell’impressionante cambiamento di conversazione. Ma il custode della reliquia parve voltare soltanto un poco la testa. Il suo viso un po’ sognante guardava ancora le stelle. Forse non aveva capito. O, forse, aveva capito e si era irrigidito per il terrore.
«Sì», disse il prete alto, «sono Flambeau.»
Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Su, mi dà quella croce?».
«No», disse l’altro, e il monosillabo aveva un suono strano.
Flambeau abbandonò improvvisamente tutte le sue pretese pontificali. Il famoso ladro si appoggiò all’indietro, e rise piano ma lungamente.
«No», esclamò, «non me la dà, eh, orgoglioso prelato? Non me la dà, celibe sempliciotto che non è altro! Devo dirle perché non me la dà? Perché l’ho già nella tasca della mia giacca.»
Il piccolo prete dell’Essex volse il viso che, nel crepuscolo, appariva confuso, e disse, con la timida ansia del «segretario privato»: «Ne è... sicuro?».
Flambeau rise forte con entusiasmo.
«Lei è davvero divertente come una farsa in tre atti», esclamò. «Sì, testa di rapa, sono sicurissimo. Ho avuto il buon senso di fare un duplicato del pacchetto, e ora, amico mio, lei ha il duplicato e io ho i gioielli. Un vecchio trucco, Padre Brown... un vecchissimo trucco.»
«Sì», disse Padre Brown, e si passò la mano fra i capelli con lo stesso fare incerto. «Sì, ne avevo già sentito parlare.»
Il colosso del crimine si piegò sul piccolo prete di campagna con una specie d’improvviso interesse. «Lei ne ha sentito parlare?», chiese. «Dove ne ha sentito parlare?»
«Non posso dirle il nome, naturalmente», disse l’ometto con semplicità. «Era un penitente, sa? Aveva vissuto prosperamente per una ventina d’anni solo facendo duplicati di pacchetti di carta scura. E così, quando ho incominciato a sospettarla, ho pensato subito al sistema di quel poveretto.»
«Incominciato a sospettarmi?», ripetè il fuorilegge con accresciuta intensità. «Ha davvero avuto il buon senso di sospettarmi quando l’ho condotta in questa parte deserta della brughiera?»
«No, no», disse Padre Brown con l’aria di scusarsi. «Veda, l’ho sospettata appena ci siamo incontrati. Per quel piccolo rigonfio nella manica dove voialtri portate il bracciale punzonato.»
«Come diavolo», esclamò Flambeau, «ha mai sentito parlare del bracciale punzonato?»
«Oh, sa, il mio gregge!», disse Padre Brown alzando un po’ le sopracciglia. «Quando ero curato a Hartlepool, ce n’erano tre con il bracciale punzonato. Così, avendo sospettato fin dal principio, mi assicurai che la croce fosse in salvo, a ogni buon conto. Mi spiace, ma l’ho osservata, sa: così l’ho vista scambiare i pacchetti. Allora li ho scambiati di nuovo, e ho lasciato indietro quello giusto.»
«Lasciato indietro?», ripetè Flambeau, e per la prima volta nella sua voce c’era una nota che non era di trionfo.
«È stato così», disse il piccolo prete, sempre con la stessa semplicità. «Son tornato in quel negozio di dolciumi e ho chiesto se avevo lasciato un pacchetto, dando loro un indirizzo per il caso che saltasse fuori. Sapevo bene che non l’avevo lasciato, ma lo lasciai allora. Così, invece di corrermi dietro con il prezioso pacchetto, lo hanno mandato direttamente a un mio amico a Westminster.» Poi aggiunse con una certa tristezza: «Anche questo l’ho imparato da un poveretto di Hartlepool. Lo faceva sempre con le borse che rubava nelle stazioni, ma adesso è in un monastero. Oh, queste cose si imparano... Che vuole», aggiunse, passandosi di nuovo la mano sulla testa con una disperata aria di scusa, «non si può fame a meno se si è preti. La gente viene e ce le racconta».
Flambeau lacerò un pacchetto di carta che aveva in tasca. Non c’era altro che carta e pezzetti di ferro. Balzò in piedi e gridò: «Non ci credo. Non credo che una zucca come lei abbia potuto organizzare tutto questo. Credo che abbia ancora la roba, e se non me la dà... ebbene, siamo qui soli, e me la prenderò con la forza!».
«No», disse Padre Brown semplicemente, e si alzò anche lui, «non la prenderà con la forza. Prima di tutto, perché davvero non ce l’ho più. In secondo luogo, perché non siamo soli.»
Flambeau si fermò.
«Dietro quell’albero», disse Padre Brown, indicandolo, «ci sono due robusti poliziotti, e il più grande agente investigativo del mondo. Perché sono venuti qui, mi chiede? Li ho portati io, naturalmente! Come ho fatto? Ebbene, glielo dirò, se vuole. Dio vi benedica, dobbiamo conoscere una ventina di questi trucchi, quando lavoriamo fra i criminali! Bene, non ero sicuro che lei fosse un ladro, e non era il caso di fare uno scandalo a danno di un prete. Così ho solo provato se qualcosa sarebbe riuscito a farle togliere la maschera. Uno per lo più fa una scena se trova del sale nel caffè; se non dice niente, vuol dire che ha qualche ragione per stare quieto. Ho scambiato lo zucchero col sale, e lei è stato zitto. Uno in genere protesta se il conto è tre volte troppo alto. Se lo paga, vuol dire che ha qualche motivo per passare inosservato. Ho maggiorato il suo conto, e lei lo ha pagato.»
Il mondo pareva attendere che Flambeau balzasse come una tigre; ma era tenuto fermo quasi per magia, in preda a una enorme curiosità.
«Bene», continuò Padre Brown con pesante lucidità, «dato che non voleva lasciare nessuna traccia per la polizia, qualcuno doveva pur lasciarla. In ogni posto in cui siamo andati, ho cercato di far qualcosa che avrebbe fatto parlare di noi per tutta la giornata. Non ho fatto danni molto gravi... un muro macchiato, delle mele rovesciate, una finestra rotta; ma ho salvato la croce, che deve sempre essere salvata. Adesso è a Westminster. Mi meraviglia un poco che non l’abbia fermata col Fischio dell’Asino.»
«Con che cosa?», chiese Flambeau.
«Mi fa piacere che non ne abbia mai sentito parlare», disse il prete, con una smorfia. «È una brutta cosa. Sono sicuro che lei è troppo una brava persona per appartenere ai Fischiatori. Non avrei potuto resistervi neppure con la Carambola: non ho abbastanza forza nelle gambe.»
«Di che diavolo sta parlando?», fece l’altro.
«Oh, credevo che conoscesse la Carambola», disse Padre Brown, piacevolmente sorpreso. «Oh, allora lei non è poi tanto cattivo!»
«Come diavolo fa a conoscere tutti questi orrori?», esclamò Flambeau.
L’ombra di un sorriso attraversò il viso semplice e rotondo del prete.
«Oh, dato che sono un celibe sempliciotto, suppongo», disse. «Non le è mai venuto in mente che quando un uomo non fa quasi nient’altro che ascoltare i reali peccati degli uomini, non è facile che resti completamente all’oscuro del male del mondo? Ma, ad essere precisi, quanto a questo, un’altra parte del mio mestiere mi ha dato la certezza che lei non era un prete.»
«Che cosa?», fece il ladro, quasi a bocca aperta.
«Ha attaccato la ragione», disse Padre Brown. «E questa è cattiva teologia.»
E mentre si voltava per radunare le sue cose, i tre poliziotti uscirono da dietro gli alberi scuri nel crepuscolo. Flambeau era un artista e uno sportivo. Fece un passo indietro e un grande inchino a Valentin.
«Non si inchini a me, mori ami», disse Valentin, con argentina chiarezza. «Inchiniamoci entrambi al nostro maestro.»
E rimasero tutti e due un momento a testa scoperta, mentre il piccolo prete dell’Essex strizzava gli occhi miopi cercando il suo ombrello.
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