Nel fresco crepuscolo azzurro, il negozio all’angolo di due ripide strade in Camden Town, una confetteria, riluceva come la punta di un sigaro: o sarebbe forse meglio dire come la punta di un razzo, perché la luce era multicolore e alquanto complessa, rifrangendosi in molti specchi e danzando su molte torte e dolci dorati o gaiamente colorati. Contro questo vetro splendente erano appiccicati i nasi di molti monelli, perché i cioccolatini erano avvolti in quelle carte dai colori metallici, rosse, verdi, dorate, che sono quasi più attraenti degli stessi cioccolatini; e la grossa candida torta nuziale nella vetrina era in certo modo inaccessibile e insieme soddisfacente, come se tutto il Polo Nord fosse buono da mangiare. Era ben naturale che simili iridescenti meraviglie attraessero i giovani abitanti del quartiere, dai dieci ai dodici anni; ma quell’angolo attraeva anche giovani più avanti negli anni: infatti c’era un giovanotto di non meno di ventiquattro anni, con gli occhi fissi alla vetrina. Anche per lui quel negozio aveva un ardente fascino, ma questo non proveniva completamente dai cioccolatini, sebbene egli non li disprezzasse, tutt’altro.
Era un giovanotto alto, robusto, dai capelli rossi, con un volto risoluto, ma un fare distratto. Teneva sotto il braccio una cartella grigia, contenente schizzi in bianco e nero, che vendeva con più o meno successo agli editori, da quando suo zio, un ammiraglio, l’aveva diseredato a causa del socialismo, dopo una conferenza che il giovane aveva tenuto su tale teoria economica. Si chiamava John Turnbull Angus.
Decidendosi infine ad entrare, traversò il negozio e passò in una saletta interna, che era una specie di caffè-trattoria, dove salutò, togliendosi il cappello, la ragazza che serviva. Questa era bruna, elegante, svelta, vestita di scuro, con guance colorite e occhi neri e vivaci; dopo un momento, lo seguì nella saletta per prendere l’ordinazione.
Questa evidentemente era sempre la stessa. «Mi porti, per favore», egli disse, con precisione, «un panino da un soldo e un caffè.» E un momento prima che la
ragazza se ne andasse, aggiunse: «E poi desidero che lei mi sposi».La ragazza s’irrigidì subito, e disse: «Questi sono scherzi che non ammetto».
Il giovanotto dai capelli rossi levò gli occhi grigi, d’inaspettata serietà.
«Davvero», disse, «è una cosa seria... seria come il panino da un soldo; costa, e come il panino, la si paga; è indigesta, come il panino: e fa male.»
La ragazza bruna continuava a fissarlo con gli occhi scuri, e pareva lo
studiasse con attenzione quasi tragica. Alla fine del suo esame, ebbe come l’ombra di un sorriso, e si sedette su una sedia.
«Non le pare», osservò Angus, con aria assente, «che sia crudele mangiare quei panini da un soldo? Potrebbero crescere e diventare panini da due soldi. Abbandonerò questi stupidi passatempi, quando saremo sposati.»
La ragazza bruna si alzò e si diresse alla finestra, immersa evidentemente in profonde considerazioni, non prive di simpatia. Quando alla fine si voltò con aria decisa, fu stupita di vedere che il giovanotto stava disponendo accuratamente sulla tavola vari oggetti della vetrina: una piramide di confetti multicolori, alcuni piatti di tartine, e due caraffe contenenti quel misterioso vino di Porto o di Xeres caratteristico dei pasticcieri. In mezzo a tutte queste cose ben disposte, aveva posato con precauzione l’enorme torta ricoperta di bianco zucchero candito, il grande ornamento della vetrina.
«Che sta mai facendo?», chiese.
«Il mio dovere, cara Laura...», incominciò lui.
«Oh, per amor di Dio, si fermi un momento!», esclamò la ragazza, «e non mi parli in quel modo. Che significa tutto questo?»
«Un banchetto rituale, signorina Hope.»
«E quella?», essa domandò con impazienza, indicando la montagna zuccherata.
«La torta nuziale, signora Angus», egli disse.
La ragazza si diresse alla torta, la tolse di lì con un po’ di acciottolio, e la rimise nella vetrina; quindi ritornò, e, appoggiando i graziosi gomiti sulla tavola, considerò il giovanotto piuttosto favorevolmente, ma con una certa esasperazione.
«Non mi lascia il tempo di riflettere», disse.
«Non sono così sciocco», egli rispose, «è la mia umiltà cristiana.»
Lei continuava a guardarlo, ma si era fatta molto più seria, pur continuando a sorridere. «Signor Angus», disse con fermezza, «prima di continuare un altro minuto con queste sciocchezze, devo dirle qualcosa di me, il più rapidamente possibile.»
«Ne sono felicissimo», rispose Angus gravemente. «Potrebbe anche dirmi qualcosa di me, mentre ci siamo.»
«Oh, stia zitto e ascolti. Non è una cosa di cui debba vergognarmi, e neppure una cosa che mi rincresca molto. Ma che direbbe se ci fosse qualcosa che non mi riguarda, e che pure è il mio incubo?»
«In tal caso», disse l’uomo, seriamente, «direi di portare di nuovo qui la torta.»
«Prima bisogna che ascolti la storia», disse Laura, decisa. «Per incominciare, devo dirle che mio padre era proprietario della locanda «Il Pesce Rosso» a Ludbury, e io servivo i clienti.»
«Mi sono spesso chiesto», egli disse, «perché questa pasticceria avesse una specie di atmosfera cristiana.»
«Ludbury è un angolo sonnolento ed erboso nelle Contee dell’Est, e i soli clienti del «Pesce Rosso» erano commessi viaggiatori di passaggio: per il resto, la peggior gente che possa vedere, solo che lei non l’ha mai vista. Gente meschina, oziosa, che aveva abbastanza da vivere e nulla da fare, se non girare da un caffè all’altro e scommettere sui
cavalli; erano vestiti male, ma anche troppo bene per loro. Del resto anche questa disgraziata gentaglia non veniva molto da noi. Ce n’erano però due che ci venivano fin troppo. Erano due tipi che vivevano del proprio, terribilmente oziosi e vestiti con esagerata ricercatezza. Tuttavia mi facevano un po’ pena, perché mi pareva che venissero nel nostro piccolo caffè deserto poiché avevano tutt’e due una leggera deformità, una di quelle particolarità di cui a volte gli zoticoni si fanno beffe. Non si trattava neppure di vere e proprie deformità, ma piuttosto di stranezze; uno era sorprendentemente piccolo, come un nano, o almeno un fantino: non aveva affatto l’aspetto del fantino, però; aveva una testa rotonda e nera, una nera barba ben curata, e occhi vivaci come quelli di un uccello; faceva tintinnare il denaro nelle tasche, giocherellava con una grossa catena d’oro, e compariva sempre vestito troppo da signore per esserlo. Non era sciocco, sebbene fosse un futile poltrone. Aveva una bizzarra abilità per una quantità di cose che non servivano a nulla, una specie d’improvvisata arte di prestigiatore: accendeva quindici fiammiferi l’uno dall’altro, come un fuoco d’artificio, oppure tagliava una banana o altro in forma di ballerina. Si chiamava Isidore Smythe; mi sembra ancora di vederlo, con il piccolo volto scuro, avvicinarsi al banco e fare con cinque sigari un canguro che salta.
L’altro era un tipo più taciturno e normale, ma non so perché mi allarmava di più del povero piccolo Smythe; era molto alto e magro, con i capelli chiari e il naso aquilino, e sarebbe stato quasi bello, di una certa bellezza spettrale, se non avesse avuto il più spaventoso strabismo che abbia mai visto o di cui abbia mai sentito parlare. Quando ti guardava, non sapevi più dove ti trovavi, e tanto meno dove lui guardava. Penso che questo difetto che lo sfigurava amareggiasse quel povero diavolo; infatti, mentre Smythe era disposto a mostrare dovunque i suoi giochetti, James Welkin (così si chiamava lo strabico) non faceva che bere nel nostro bar, e andarsene da solo a far lunghe camminate per la campagna vicina, che era grigia e piatta. Credo però che anche Smythe soffrisse un poco della sua piccola statura, sebbene la sopportasse con maggior disinvoltura. E così rimasi veramente stupita, e molto dispiaciuta, quando entrambi mi chiesero in moglie, nella stessa settimana.
Allora feci una cosa che ho poi giudicato sciocca; ma, dopotutto, quegli strani tipi erano miei amici, e temevo che capissero la vera ragione per cui li rifiutavo, cioè la loro tremenda bruttezza. Così inventai una frottola d’altro genere, ossia che non avrei mai sposato nessuno che non si fosse fatto strada nel mondo. Dissi che era una questione di principio, che non volevo vivere di denaro semplicemente ereditato, come il loro. Due giorni dopo che avevo parlato in questo senso, a fin di bene, cominciarono i guai. Seppi che entrambi erano partiti per far fortuna, come in una sciocca favola.
Ebbene, non ho mai più visto né l’uno né l’altro. Ma ho ricevuto due lettere dall’ometto di nome Smythe, lettere davvero interessanti.»
«Non ha mai saputo niente dell’altro?»
«No, non ha mai scritto», disse la ragazza, dopo un momento di esitazione. «La prima lettera di Smythe era solo per dirmi che era
partito a piedi con Welkin in direzione di Londra; ma questi era un tal camminatore che l’ometto se ne separò, e si riposò lungo la via. Aveva poi incontrato una compagnia di comici girovaghi e, in parte perché era quasi un nano, in parte perché era davvero molto abile, si trovò assai bene con loro, e fu presto mandato nell’Aquarium, per partecipare non so più a quale spettacolo. Questa era la prima lettera. La seconda era molto più strana, e l’ho ricevuta soltanto la settimana scorsa.»
L’uomo che si chiamava Angus vuotò la tazza e guardò la fanciulla con occhi miti e pazienti. La bocca di lei ebbe un leggero tremito di riso mentre riprendeva il racconto: «Suppongo che abbia visto sulle staccionate tutte le informazioni sul “Silenzioso Servizio Smythe”; se no lei è la sola persona che non ne sia informata. Oh, non ne so molto: è una qualche invenzione meccanica per fare a macchina tutti i lavori di casa. Sa, questo genere di roba: “Premete un bottone... un maggiordomo che non beve!... Girate una maniglia... Dieci cameriere che non fanno l’amore!”. Deve aver visto i cartelloni pubblicitari. Bene, comunque sia, questi congegni rendono molto denaro, e lo rendono a quel piccolo folletto che conobbi a Ludbury. Non posso fare a meno di rallegrarmi che quel povero diavolo abbia avuto fortuna; ma il fatto è che vivo nello spavento di vederlo arrivare da un momento all’altro, a dirmi che si è fatto strada nel mondo, com’è vero».
«E l’altro?», ripetè Angus, con una specie di calma ostinazione.
Laura Hope si alzò bruscamente. «Amico mio», disse, «penso che lei sia uno stregone. Sì, ha ragione. Non ho avuto una sola riga dall’altro, e non ho la minima idea di dove sia o che cosa faccia; ma è di lui che ho paura. È lui che si trova sempre sulla mia strada. È lui che mi ha quasi fatta impazzire. Anzi, credo che mi abbia già fatta impazzire: perché ho sentito la sua presenza dove non poteva essere, e ho udito la sua voce quando non poteva aver parlato.»
«Ebbene, mia cara», disse il giovanotto, allegramente, «foss’anche Satana in persona, non può più far nulla, ora che ne ha parlato; non si impazzisce che da soli, ragazza mia. Ma quando è stato che le è parso di sentire il suo strabico amico?»
«Sentii ridere James Welkin così come sento lei parlare», disse la ragazza, con sicurezza. «Non c’era nessuno, perché ero davanti al negozio, sull’angolo, e potevo vedere tutt’e due le strade. Avevo dimenticato il suo modo di ridere, sebbene il suo riso fosse singolare come il suo strabismo. Non pensavo più a lui da quasi un anno. Ma è un fatto certissimo che pochi secondi dopo arrivò la lettera del suo rivale.»
«Lo spettro ha mai parlato o strillato?», chiese Angus interessato.
Laura rabbrividì, e poi disse, con voce ferma: «Sì. Quando avevo appena finito di leggere la seconda lettera di Isidore Smythe, quella in cui lui annunziava i suoi successi, proprio allora sentii Welkin dire: “Non ti avrà, però”. Era chiarissimo, come se si trovasse nella stanza. È terribile: devo proprio essere pazza».
«Se fosse davvero pazza», disse il giovanotto, «non penserebbe di esserlo. Ma certo mi pare che ci sia qualcosa di poco chiaro in questo signore invisibile. Due teste sono meglio di una, per dir solo delle
teste, e davvero, se mi permette di riprendere dalla vetrina, da uomo pratico e deciso, la torta nuziale...»
Mentre parlava, ci fu una specie di stridìo metallico nella strada, quindi una piccola automobile condotta a velocità pazzesca piombò davanti alla porta del negozio e si fermò. Nello stesso istante un ometto con un lucido cappello duro entrò nella bottega.
Angus, che fino a quel momento aveva mantenuto un’aria ilare per motivi d’igiene mentale, rivelò la tensione del suo spirito uscendo improvvisamente a grandi passi dalla stanza ad affrontare il nuovo venuto. Uno sguardo bastò a confermare la sua pronta intuizione di uomo innamorato. Il nuovo venuto, energico ma piccolissimo, con una barbetta a punta insolentemente protesa in avanti, gli occhi intelligenti e inquieti, le mani eleganti e nervosissime, non poteva essere altro che l’uomo che aveva appena sentito descrivere: Isidore Smythe, colui che ricavava milioni da maggiordomi metallici che non bevevano e cameriere che non amoreggiavano. Per un momento, i due, comprendendo ognuno istintivamente l’atteggiamento di possesso dell’altro, si guardarono con quella strana, fredda generosità che è l’anima della rivalità.
Il signor Smythe, comunque, non fece nessuna allusione alla fondamentale ragione del loro antagonismo, ma disse con esplosiva semplicità: «La signorina Hope ha visto quella cosa sulla vetrina?».
«Sulla vetrina?», ripetè Angus stupito.
«Non c’è tempo di spiegare altro», disse brevemente il piccolo milionario. «Qui c’è qualche scherzo di cattivo genere sul quale bisogna indagare.»
E con la sua lucida mazza da passeggio indicò la vetrina, sguarnita dai preparativi nuziali di Angus; e questi rimase attonito nel vedere, incollata sul vetro esterno, una lunga striscia di carta, che certamente non c’era quando aveva guardato attraverso il vetro poco prima. Seguendo l’energico Smythe, fuori del negozio, constatò che era stata accuratamente applicata al vetro esterno una striscia di carta da francobolli lunga circa un metro e mezzo, su cui era scritto a caratteri irregolari: «Se sposi Smythe, egli morrà».
«Laura», disse Angus, introducendo la grossa testa rossa nel negozio, «lei non è pazza.»
«E la scrittura di quel Welkin», disse Smythe, arcigno. «Non lo vedo da anni, ma mi dà noia continuamente. Per ben cinque volte durante gli ultimi quindici giorni mi ha minacciato per mezzo di lettere lasciate a casa mia, e non so neanche chi le porti, tanto meno poi se sia lui in persona a farlo. Il portinaio giura di non aver mai visto persone sospette. Ed ecco qui che ha attaccato una specie di cartellone sulla vetrina di un locale pubblico, mentre la gente nel negozio...»
«Proprio così», disse Angus modestamente, «mentre la gente nel negozio prendeva il tè. Ebbene, signore, le assicuro che apprezzo il suo buon senso nel trattare così decisamente la cosa. Parleremo del resto in seguito. L’individuo non può essere ancora lontano, perché giuro che non c’era nessuna scritta quando sono venuto accanto alla vetrina, dieci o quindici minuti fa. D’altra parte, è troppo lontano per poterlo inseguire, e non sappiamo neppure in quale direzione. Se
vuol seguire il mio consiglio, signor Smythe, metta subito la cosa in mano a un abile investigatore, preferibilmente privato. Conosco un tipo molto in gamba, che ha l’ufficio a cinque minuti da qui. Si chiama Flambeau e, sebbene abbia avuto una giovinezza un po’ burrascosa, adesso è un uomo onestissimo e ha un cervello che vale molto. Sta in Lucknow Mansions, a Hampstead.»
«È strano», disse l’ometto inarcando le sopracciglia. «Sto anch’io lì vicino, in Himalaya Mansions lei potrebbe venire con me; io andrò a casa a cercare quegli strani documenti di Welkin, e intanto lei va a chiamare il suo amico agente.»
«Molto volentieri», disse Angus, cortesemente. «Certo, più presto facciamo meglio è.»
Con una strana, improvvisa lealtà, si congedarono entrambi in modo formale dalla ragazza, e salirono nella piccola e svelta automobile. Mentre Smythe, seduto al volante, girava l’angolo, Angus fu divertito nel vedere un gigantesco cartello del “Servizio Silenzioso Smythe” con la figura di un’enorme bambola acefala e metallica, che portava un vassoio, con la scritta: “Una cuoca che non è mai nervosa”.
«Me ne servo a casa mia», disse l’ometto dalla barba nera, «un po’ per pubblicità, e un po’ per reale comodità. Davvero, con assoluta franchezza, le assicuro che queste grosse bambole meccaniche portano il carbone, o il vino, o un orario, più in fretta di qualunque persona di servizio vivente ch’io abbia mai conosciuta, se si sa che bottone premere; ma riconosco, sia detto fra noi, che questi servitori hanno anche i loro svantaggi.»
«Davvero?», disse Angus. «C’è qualcosa che non sanno fare?»
«Sì», rispose Smythe, «non sanno dirmi chi ha portato le lettere minatorie.»
L’automobile era piccola e svelta come il suo proprietario; e invero, come i suoi servitori, era di sua invenzione. Se era un ciarlatano, era però un ciarlatano che credeva nei propri prodotti. Il senso di piccolezza e di rapidità si accentuò mentre volavano lungo bianche curve nella declinante ma viva luce del crepuscolo. Presto le curve si fecero più brusche e vertiginose: si trovavano su una spirale ascendente, come si dice nelle religioni moderne. Infatti si arrampicavano su per un angolo di Londra che è quasi altrettanto scosceso di Edimburgo se non altrettanto pittoresco. Una terrazza si levava sull’altra, e la torre di appartamenti verso cui si dirigevano sorgeva al di sopra di tutte le altre, a un’altezza quasi piramidale, dorata dal sole al tramonto. Il cambiamento, quando girarono l’angolo ed entrarono nel caseggiato noto come Himalaya Mansions, fu improvviso, come se si fosse aperta una finestra: infatti ai loro occhi si offrì un gruppo di case che galleggiavano al di sopra di Londra come su un mare d’ardesia. Di fronte alle case, dall’altra parte della strada ghiaiosa, c’era un recinto pieno di cespugli, piuttosto una sterpaglia o ripa erbosa che non un giardino, e un po’ più in basso scorreva un rio artificiale, una specie di canale, quasi il fossato di una fortezza celata dalla verzura. Mentre l’automobile percorreva rapidamente la via, passò accanto alla carretta di un venditore di caldarroste; e dall’altra parte della strada Angus scorse, incertamente delineata, la sagoma di un poliziotto che cam
minava lentamente. Queste erano le sole figure umane in quell’alta solitudine suburbana; ma il giovane ebbe l’irrazionale impressione ch’esse esprimessero l’ineffabile poesia di Londra. Gli parve che fossero personaggi di un racconto.
La piccola automobile arrivò come un proiettile dinanzi alla casa e sparò fuori il suo proprietario, come una bomba. Questi andò subito a informarsi da un alto portiere splendente di galloni, e da un ometto in maniche di camicia, se qualcuno o qualcosa fosse arrivato per lui. Gli fu assicurato che nulla e nessuno aveva oltrepassato quella soglia dall’ultima volta che si era informato, dopodiché si precipitò con Angus nell’ascensore, che come un razzo li portò all’ultimo piano.
«Entri un momento», disse l’affannato Smythe. «Voglio mostrarle quelle lettere di Welkin; poi può andare a cercare il suo amico.» Premette un bottone nascosto nel muro e la porta si aprì.
Si aprì su una lunga e spaziosa entrata, in cui i soli oggetti che colpissero, parlando da un punto di vista normale, erano le alte figure meccaniche semi umane, allineate da entrambi i lati, simili ai manichini dei sarti. Come i manichini, erano senza testa, avevano una notevole gibbosità sulle spalle e il petto protuberante; ma, a parte questo, non somigliavano a figure umane più di quanto non vi somigli un qualunque distributore automatico alto pressappoco come un uomo. Avevano due grossi uncini, a guisa di braccia, per portare i vassoi, ed erano verniciati in verde pisello, o rosso vermiglio, o nero, per evitare confusioni. Sotto ogni altro aspetto non erano che meccanismi come gli altri, e nessuno li avrebbe guardati due volte.
In questa circostanza, comunque, nessuno li guardò. Tra le due file di manichini domestici, c’era infatti qualcosa di più interessante di tutte le macchine del mondo. Era un pezzo di carta bianca strappata, scarabocchiato con inchiostro rosso; e il nostro agile amico inventore
lo afferrò appena fu entrato. Lo passò ad Angus senza una parola. L’inchiostro rosso non era ancora secco, e il messaggio era il seguente: «Se oggi sei stato da lei, ti ucciderò».
Ci fu un breve silenzio, poi Isidore Smythe disse tranquillamente: «Vuole un po’ di whisky? A me credo che non dispiacerebbe».
«Grazie; vorrei un po’ di Flambeau», disse Angus, alquanto cupo. «Mi sembra che questa faccenda si stia facendo piuttosto seria. Vado subito a chiamarlo.»
«Benissimo», disse l’altro, con ammirevole gaiezza. «Lo porti qui più presto che può.»
Ma, mentre Angus chiudeva la porta dietro di sé, vide Smythe premere un bottone, e una delle figure meccaniche scivolare dal suo posto e, procedendo lungo una scanalatura nel pavimento, portare un vassoio con una caraffa; gli parve un po’ raccapricciante lasciare l’ometto solo tra quei morti servitori, che si stavano animando mentr’egli richiudeva la porta.
Pochi scalini più giù del pianerottolo di Smythe, l’uomo in maniche di camicia stava trafficando con un secchio. Angus si fermò e si fece promettere, dietro la prospettiva di una mancia, che sarebbe rimasto sul posto fino a che lui non fosse ritornato con l’agente, e che avrebbe fatto attenzione ad ogni estraneo che avesse salito quelle scale. Preci
pitatosi giù, fece le stesse raccomandazioni al portiere, da cui apprese che non c’era nessun altro ingresso, il che semplificava le cose. Non ancora contento, fermò il poliziotto per la strada, e lo persuase a restare davanti alla porta e ad osservarla; infine comperò due soldi di ca stagne, e chiese quanto tempo il venditore sarebbe rimasto nei pressi.
Quello, rialzando il bavero per il freddo, gli disse che se ne sarebbe andato da lì a poco, perché pensava che stesse per nevicare. La sera si era fatta invero grigia e fredda; ma Angus, con tutta la sua eloquenza, riuscì a inchiodare l’uomo al suo posto.
«Si scaldi con le sue caldarroste», gli disse. «Le mangi tutte. La ricompenserò: le darò mezza sterlina se aspetterà qui fino al mio ritorno, e mi dirà se un uomo, una donna o un bambino è entrato in quella casa davanti a cui c’è il portiere.»
Poi se ne andò di buon passo, con un ultimo sguardo alla torre assediata.
«Ho messo un cerchio di protezione intorno a quella stanza, ad ogni modo», si disse. «Non possono essere tutti e quattro complici di Welkin.»
L’edificio chiamato Lucknow Mansions era, per così dire, su una piattaforma più bassa di quel colle di case di cui l’Himalaya Mansions costituiva la vetta. L’alloggio, quasi ufficio, di Flambeau, era al pianterreno, e presentava sotto ogni aspetto un netto contrasto con i meccanismi e il freddo lusso alberghiero dell’alloggio dal «Servizio Silenzioso». Flambeau, che era amico di Angus, lo ricevette in un bizzarro covo artistico dietro al suo studio, ornato di sciabole, archibugi, curiosità orientali, fiaschi di vino italiano, pentole di selvaggi, un vaporoso gatto persiano, e un piccolo prete cattolico dall’aspetto impolverato, che appariva particolarmente stonato.
«Questo è il mio amico Padre Brown», disse Flambeau. «Desideravo da tempo che vi incontraste. Splendida giornata, eh? sebbene un po’ fredda per un meridionale come me.»
«Sì, credo che si manterrà sereno», disse Angus, sedendosi su un’ottomana orientale a righe viola.
«No», disse il prete tranquillamente, «ha incominciato a nevicare.» E infatti, mentre parlava, i primi radi fiocchi, previsti dal venditore di castagne, cominciarono a scendere oltre il vetro che si oscurava.
«Bene», disse Angus con un sospiro, «mi spiace, ma sono venuto per un affare, e un affare poco chiaro, per di più. Il fatto è, Flambeau, che a un tiro di pietra da casa tua c’è un tipo che ha molto bisogno del tuo aiuto; è sempre perseguitato e minacciato da un nemico invisibile, un farabutto che non si è mai visto.» Mentre Angus procedeva a raccontare tutta la storia di Smythe e Welkin, incominciando con la parte di Laura, e continuando con la propria - la risata soprannaturale all’angolo di due strade deserte, le strane parole pronunciate distintamente in una stanza vuota - Flambeau dimostrava un interesse sempre più vivo, e il piccolo prete pareva stesse in disparte, come se fosse un mobile. Quando si arrivò alla striscia di carta da francobolli scritta e attaccata alla vetrina, Flambeau si alzò, e parve riempire la stanza con la sua enorme persona.
«Se non ti spiace», disse, «credo che sarà meglio che mi racconti il resto mentre percorriamo la via più breve che va alla casa di quest’uomo. Ho l’impressione che non ci sia tempo da perdere.»
«Con piacere», disse Angus, alzandosi, «sebbene sia abbastanza al sicuro per il momento, dato che ho messo quattro uomini a custodire l’unico foro della sua tana.»
Uscirono nella via, con il piccolo prete che li seguiva, con la docilità di un cagnolino. Egli disse soltanto, per conversare: «Come fa in fretta la neve ad ammonticchiarsi per terra».
Mentre camminavano per le ripide strade già spolverate d’argento, Angus terminò il suo racconto; e, quando giunsero alla curva della strada dove sorgevano le casetorri, potè dedicare tutta la sua attenzione alle quattro sentinelle. Il venditore di caldarroste, tanto prima che dopo aver ricevuto la sua mezza sterlina, giurò ripetutamente di aver sorvegliato la porta e di non avervi visto entrare nessuno. Il poliziotto fu anche più deciso: disse che aveva una certa esperienza in fatto di furfanti d’ogni genere, col cappello duro o vestiti di stracci, e non era così novellino da aspettarsi che i tipi sospetti avessero un’apparenza sospetta; aveva fatto attenzione a tutti e nessuno era passato. E quando i tre circondarono il portiere gallonato d’oro, che se ne stava ancora sorridente sotto il portone, il verdetto fu ancora più definitivo.
«Ho il diritto di chiedere a chiunque, duca o spazzino, che cosa vuole qui dentro», disse il bravo gigante dorato, «e garantisco che non c’è stato nessuno, da quando questo signore è uscito.»
Padre Brown, che se ne stava indietro senza che nessuno gli badasse, con gli occhi volti modestamente al suolo, a questo punto osservò timidamente: «Nessuno ha salito e sceso le scale, allora, da quando la neve ha incominciato a cadere? Ha incominciato quando eravamo tutti da Flambeau».
«Nessuno è stato qui, signore, le assicuro», disse il portiere, raggiante d’autorità.
«Allora mi domando che cosa sono queste...», disse il prete, fissando il suolo con l’espressione spenta di un pesce.
Anche gli altri guardarono a terra; e Flambeau se ne uscì in una violenta esclamazione, con un gran gesto da francese. Infatti era fuor di dubbio che in mezzo all’androne custodito dall’uomo gallonato, anzi proprio tra le gambe arrogantemente divaricate di quel colosso, passava una traccia di grigie impronte nettamente visibili sulla candida neve.
«Dio mio!», gridò Angus, d’impulso. «L’uomo invisibile!»
Senza aggiungere parola, si voltò e si precipitò su per le scale, seguito da Flambeau; ma Padre Brown rimase a guardarsi intorno nella strada coperta di neve, come se avesse perso interesse alla cosa.
Flambeau aveva evidentemente l’intenzione di abbattere la porta con le sue spalle pesanti; ma lo scozzese, più ragionevolmente, se pur con meno intuizione, cercò lungo la cornice della porta finché trovò il bottone invisibile, e la porta si aprì lentamente.
Apparve in sostanza la stessa scena di prima: il vestibolo un po’ soffocato, che si era fatto più scuro, pur essendo ancora illuminato
qua e là dagli ultimi dardi del tramonto, e uno o due degli automi acefali, che erano stati spostati per un motivo o per un altro, e stavano sparsi nella luce del crepuscolo. I loro colori rossi e verdi erano confusi dalla penombra, e la loro somiglianza con degli esseri umani era leggermente accresciuta da quell’imprecisione. Ma in mezzo a loro, proprio nel punto dove prima c’era la lettera scritta con l’inchiostro rosso, c’era qualcosa che sembrava molto simile a dell’inchiostro rosso versato dalla bottiglia. Ma non era inchiostro rosso.
Con una mescolanza veramente francese di logica e di violenza, Flambeau disse soltanto: «Assassinio!» e, penetrato nell’appartamento, ne esplorò ogni angolo e ogni armadio in cinque minuti. Ma, se credeva di trovare un cadavere, rimase deluso. Isidore Smythe non c’era, né vivo né morto. Dopo le ricerche più esaurienti, i due uomini s’incontrarono nel vestibolo, coi volti madidi e gli occhi sbarrati. «Amico mio», disse Flambeau, parlando francese nell’eccitazione, «non soltanto questo tuo assassino è invisibile, ma rende invisibile anche l’assassinato.»
Angus girò lo sguardo per l’oscura stanza piena di manichini, e in qualche angolo celtico della sua anima scozzese corse un brivido. Uno dei fantocci di statura umana stava proprio sopra la macchia di sangue, chiamato, forse, dall’ucciso, poco prima che cadesse. Uno degli uncini che servivano da braccia alla macchina era un po’ sollevato, e Angus ebbe improvvisamente l’orrenda idea che fosse stato lo stesso figlio d’acciaio del povero Smythe a colpirlo. La materia si era ribellata, e quelle macchine avevano ucciso il loro padrone. Ma, anche se era così, che cosa ne avevano poi fatto?
«Mangiato?», sussurrò l’incubo al suo orecchio, ed egli si sentì male per un momento, all’idea di resti umani succhiati e pressati in quegli acefali macchinari.
Ritrovò con uno sforzo il suo equilibrio mentale, e disse a Flambeau: «Ebbene, ecco qui. Il poveretto è evaporato come una nuvola lasciando una macchia rossa sul pavimento. Non è una storia di questo mondo».
«C’è una sola cosa da fare», disse Flambeau. «Sia che la storia appartenga a questo mondo o all’altro, devo scendere a parlare al mio amico.»
Scesero, passando accanto all’uomo con il secchio, che assicurò di nuovo di non aver lasciato passare intrusi, e andarono dal portiere e dal venditore di caldarroste, che riconfermarono rigorosamente di aver custodito la porta. Ma quando Angus cercò il quarto testimonio, non lo vide, e chiese un po’ nervosamente: «Dov’è il poliziotto?».
«Chiedo scusa», disse Padre Brown, «ma è colpa mia. L’ho mandato ora a informarsi di una cosa... una cosa che mi pareva valesse la pena di investigare.»
«Bene, speriamo che torni presto», disse Angus bruscamente, «perché il poveretto di sopra non solo è stato assassinato, ma l’hanno anche fatto sparire.»
«In che modo?», chiese il prete.
«Padre», disse Flambeau dopo una pausa, «sull’anima mia, credo che sia cosa più di vostra che di mia competenza. Né amici né nemici
sono entrati nella casa, ma Smythe è scomparso come se l’avessero rapito le fate. Se non è una cosa soprannaturale...»
Mentre parlava, furono tutti colpiti da una vista insolita; il grosso poliziotto comparve all’angolo della strada correndo, si diresse verso Brown, e disse ansando:
«Aveva ragione, signore; hanno appena trovato il corpo del povero signor Smythe nel canale laggiù».
Angus si portò una mano al capo, esterrefatto. «È corso giù e si è annegato?», chiese.
«Non è mai sceso, lo giuro», disse il poliziotto, «e poi non si è annegato, perché è morto di una pugnalata al cuore.»
«Eppure non si è visto entrare nessuno!», fece Flambeau, con voce grave.
«Facciamo due passi», disse il prete.
Quando ebbero percorso un tratto di strada, egli esclamò improvvisamente: «Oh che sciocco! Ho dimenticato di chiedere una cosa al poliziotto. Vorrei sapere se hanno trovato un sacco color sabbia».
«Perché un sacco color sabbia?», chiese Angus stupito.
«Perché, se fosse di un altro colore, saremmo al punto di prima», disse Padre Brown, «ma se era un sacco color sabbia, ebbene, la faccenda è chiarita.»
«Mi fa piacere apprenderlo», disse Angus con spontanea ironia. «Per quel che mi riguarda è ancora nella più fonda oscurità.»
«Deve dirci tutto, Padre», disse Flambeau, con una strana, grave semplicità, come un bambino.
Senza rendersene conto, avevano affrettato il passo, e Padre Brown camminava in testa, silenzioso. Alla fine disse con tono incerto, quasi commovente: «Bene, temo che sembrerà prosaico. Cominciamo sempre dalle cose astratte, e questa storia non può cominciare altrimenti.
Avete mai notato questo: che la gente non risponde mai a quello che dite? Risponde a quello che pensate... o a quello che crede che pensiate. Supponete che una signora chieda a un’altra, in campagna: “C’è nessuno da voi?”, la signora non risponde “Sì, c’è il maggiordomo, tre servitori, la cameriera, e così via”, anche se la cameriera è nella stanza,
o il maggiordomo dietro la sedia. Essa dice: “No, non c’è nessuno”, intendendo: nessuno, nel senso che intende l’altra. Ma immaginate che un dottore durante un’epidemia, chieda: “Chi avete in casa?” allora la signora si ricorderà del maggiordomo, della cameriera e degli altri. Tutte le parole sono adoperate così: non si ottiene mai una risposta letterale, anche quando si ottiene una risposta veritiera. Quando quelle quattro oneste persone hanno detto che nessuno era entrato, non intendevano realmente dire che nessuno era entrato, ma volevano dire nessuno che potessero sospettare d’essere l’uomo che cercavate. Un uomo entrò nella casa, e ne uscì, ma essi non lo notarono».
«Un uomo invisibile?», chiese Angus, inarcando le rosse sopracciglia.
«Un uomo mentalmente invisibile», disse Padre Brown.
Passò un minuto o due prima che riprendesse a parlare, con voce pacata, come uno che segua il suo pensiero. «Naturalmente non si pensa a un uomo così, finché non viene in mente di pensarci. Qui sta
la sua abilità. Ma io ci ho pensato, per via di due o tre cosette nel racconto del signor Angus. Prima di tutto, c’era il fatto di Welkin che faceva lunghe camminate. Poi tutta quella carta da francobolli sulla vetrina. E poi, soprattutto, due cose che disse la signorina, e che non possono essere vere. Non si arrabbi», aggiunse in fretta, notando un brusco movimento dello scozzese, «essa era convinta che fossero vere, ma non potevano esserlo. Una persona non può essere completamente sola in una strada un attimo prima di ricevere una lettera. Non può essere completamente sola in una strada quando incomincia a leggere una lettera che ha appena ricevuta. Ci dev’essere qualcuno vicino a lei: qualcuno mentalmente invisibile.»
«Perché deve esserci qualcuno?», chiese Angus.
«Perché», disse Padre Brown, «a meno che sia un piccione viaggiatore, qualcuno deve aver portato la lettera.»
«Vuol dire davvero», chiese Flambeau con energia, «che Welkin portava le lettere del rivale alla sua innamorata?»
«Sì», disse il prete, «Welkin portava le lettere del rivale alla sua innamorata. Vede: non poteva farne a meno.»
«Oh, non ne posso più di questo mistero», esplose Flambeau. «Chi è quest’uomo? Che aspetto ha? Qual è l’aspetto di un uomo mentalmente invisibile?».
«È vestito di un bell’abito rosso, azzurro e dorato», rispose il prete con prontezza e precisione, «e in quest’abito notevole, anzi vistoso, è entrato in quella casa sotto gli occhi di quattro persone, ha ucciso Smythe a sangue freddo, e poi è sceso di nuovo in strada col cadavere fra le braccia...»
«Reverendo», esclamò Angus, fermandosi, «lei è pazzo, o lo sono io?»
«Non è pazzo, ma è poco osservatore. Non ha osservato un uomo come questo, per esempio.»
E, fatti tre rapidi passi innanzi, pose la mano sulla spalla di un comunissimo postino che era passato accanto a loro senza che l’avessero notato, all’ombra degli alberi.
«Nessuno nota mai i postini, non si sa perché», disse pensosamente. «Eppure essi son soggetti alle passioni come gli altri uomini, e portano anche dei grossi sacchi dove un piccolo cadavere può esser nascosto facilmente.»
Il postino, invece di voltarsi con naturalezza, si era piegato in avanti abbandonandosi contro la cancellata di un giardino. Era un uomo magro con una barba bionda, di aspetto comunissimo, ma quando volse verso di loro il viso spaventato, tutti e tre furono trafitti da uno sguardo diabolicamente strabico.
Flambeau tornò alle sue sciabole, ai suoi tappeti purpurei e al suo gatto persiano, poiché aveva molte cose da fare. John Turnbull Angus tornò dalla signorina del negozio, con la quale l’impulsivo giovanotto si trova ora assai bene. Ma Padre Brown camminò per quelle colline ricoperte di neve, sotto le stelle, per molte ore, con un assassino, e quello che si dissero non sarà mai conosciuto.
Nessun commento:
Posta un commento