Mia nonna non era affatto il tipo di nonna tutta “torte fatte in casa e lenzuola ricamate”.
Aveva vissuto gran parte della propria vita da vedova, con due figlie, lavorando duramente da professionista in un mondo poco abituato a questo genere di cose. Donna del sud dotata di notevoli mezzi, aveva assunto una domestica per crescere mia madre e mia zia, prendendo le distanze dalle occupazioni quotidiane e dall’allevare i figli. Era formale, distaccata, quasi vittoriana e profondamente poco incline alla vita domestica. Fin dalla mia infanzia l’avevo chiamata “Nonna” in un modo in cui era chiaro che stavo usando la “N” maiuscola.
Certamente non sapeva come trattare una nipotina, una bambina che veniva da Winder, in Georgia, per una visita che si sarebbe protratta per una settimana. La vita di mia nonna si svolgeva tra gli adulti, a partire dai mobili squadrati e ricchi di intarsi e l’intoccabile pianoforte del salotto, alla sua abitudine di vivere in luoghi solitari, mangiando spesso fuori. La presenza di nipotini avrebbe complicato la sua routine.
La colazione era abbastanza semplice: cereali. E si poteva sempre uscire a cena. Ma il pranzo era insidioso e se lei, spesso, lo saltava, questa soluzione non sarebbe stata possibile per un bambino in fase di crescita. Per la breve durata di quelle visite estive, fece il meglio che poteva per superare la sua mancanza di interesse e abilità culinari.
Panini caldi con la mortadella erano la soluzione ideale. A mezzogiorno, mentre lei cucinava, io me ne stavo seduta sul piano smaltato del tavolo bianco accanto ai fornelli. Quella superficie liscia mi rinfrescava le gambe abbronzate, mentre facevo ciondolare i piedi nel vuoto. Il rumore di porte sbattute e gli strilli dei nipotini dei vicini che giocavano nella calura del sole a picco arrivavano fino a me dalla finestra aperta dietro alle mie spalle.
Amavo il rituale di preparazione dei panini almeno quanto il cibo in se stesso. Il mio compito era di rimuovere con grande attenzione la pelle rossa e gommosa da ogni fetta di mortadella. La nonna poi la metteva in una padella di ferro pesante, bollente, e ne cuoceva solo una fetta per volta. La osservavo attentamente fino a che arrivava la parte migliore: quando la mortadella si gonfiava nel centro formando una specie di cuffia da bagno rosa. Con grande forza la nonna cancellava quel rigonfiamento con due colpi professionali assestati con l’estremità di una spatola di metallo che andavano a formare una piccola croce nel centro della fetta. Ben presto, dopo quel particolare accorgimento la fetta di mortadella veniva rivoltata e quando cominciava ad arricciarsi sui bordi per il calore, era pronta. Infilata in pane bianco tostato, generosamente cosparso di maionese, quello era il mio pranzo quotidiano a Winder, in Georgia.
Da quando sono adulta mangio raramente carne, tantomeno un prodotto altamente lavorato e dalle origini e dagli ingredienti così discutibili come la mortadella. I giorni silvani delle calde estati in Georgia sono un tempo molto lontano dalla vita che conduco ora.
La nonna morì lo stesso anno in cui mi sposai. Divorziai presto e mi trovai in gravi difficoltà finanziarie a causa della scelleratezza del mio ex marito ed estraniata dal resto della mia famiglia. Mi adattai a vivere in un piccolo, molto economico appartamento che divisi con una compagna. Dandomi da fare per portare a termine i miei studi al college, con un misero contributo per gli studenti e una borsa di studio molto lenta nell’arrivare, la prospettiva era quella di un Natale povero e in solitudine.
Il contrasto tra lo squallore della mia vita e la gaiezza artificiale di cui la città era ammantata, era deprimente. Le luci natalizie e i festoni argentati pendevano dai lampioni; enormi stelle scintillanti decoravano gli incroci. Nel mio appartamento non c’era alcun addobbo. Non avevo né un albero di Natale, né prosciutto cotto nel miele, né dolci fatti in casa sul tavolo. Gli unici elementi di conforto in quel momento della mia vita erano i miei due cani pechinesi, Sandy e Samantha. Mi amavano incondizionatamente e furono una grande fonte di conforto durante quegli anni così duri.
Purtroppo, non solo non avevo l’albero di Natale, il prosciutto e i dolci, non avevo nemmeno cibo per i cani. Niente cibo per i cani e niente soldi sul mio conto corrente. Il prossimo contributo non sarebbe arrivato ancora per un’altra settimana più o meno e, come recita una nenia popolare, la mia dispensa era spoglia. Se fossi stata sola avrei potuto farcela per una settimana senza cibo, capitando casualmente a casa di amici all’ora di cena o ingoiando il mio orgoglio facendo ricorso a una mensa dei poveri per avere un pasto caldo. Ma come avrei potuto nutrire le mie “ragazze”? Studiai attentamente il quaderno in cui annotavo i conti, incapace di trovare un solo dollaro dimenticato in una tasca o un errore nei conteggi, e mi resi conto che l’unico modo per nutrire le mia piccola famiglia era firmare un assegno in un negozio ben sapendo che non sarebbe stato coperto finché non fosse giunto il prossimo contributo studentesco. Essere scesa a quel livello mi faceva orrore e pensare che stavo per mettere in atto un crimine feriva il mio cuore. Ero molto depressa, perché sapevo che non c’era nessuno a cui potessi rivolgermi, nessuno che avrebbe potuto essermi di conforto.
Ridimensionai il mio piano e decisi che avrei “comprato” solo il minimo indispensabile, non volendo approfittare della buona fede del negoziante più di quanto fosse necessario. Niente bistecche o aragosta per me, solo le cose essenziali. Scrissi e riscrissi la lista della spesa, cancellando vari articoli fino ad avere solo poche cose delle quali io e i cani non potevamo fare a meno.
Il viaggio in macchina fino al mercato era piuttosto lungo. Entrai con animo pesante e camminando lentamente nei corridoi per cercare le poche cose che apparivano sulla mia lista. Cibo per cani, pane, latte. Mentre facevo la fila alle casse, avevo la sensazione che tutte le persone attorno a me potessero essere a conoscenza di quello che stavo per fare. Finalmente venne il mio turno alla cassa. Scrissi l’assegno mentre lacrime di vergogna mi offuscavano la vista e lo porsi alla cassiera.
“Grazie e Buon Natale!”, mi augurò. Afferrai la borsa e corsi alla macchina.
Piansi lungo tutta la strada del ritorno fino all’appartamento. Che ne sarebbe stato della mia vita? Sarei mai stata in grado di finire la scuola e di risistemare la mia situazione finanziaria?
Una volta a casa aprii il mio bottino e mentre estraevo dal sacchetto le ultime cose, la mia mano toccò una confezione di plastica che non mi era familiare e che risultava fredda al tatto. La tirai fuori incuriosita. Era una sostanziosa confezione di mortadella di una marca molto pregiata.
Mortadella? Non era nel mio elenco della spesa! Non ne mangiavo da anni, ed ero assolutamente certa di non averla messa nel carrello al negozio; era troppo costosa perché potessi permettermela! Controllai lo scontrino. La mortadella non c’era. E poi compresi. La nonna. Stava cercando di prendersi cura di me. Dall’alto dei cieli aveva sentito la mia fame, la mia paura, la mia disperazione, ed era uscita dall’ombra per confortarmi e starmi accanto nell’unico modo che lei conoscesse: con dei panini imbottiti di mortadella fritta. Qualche ora prima stavo quasi per morire di fame, ora avevo pane e mortadella a sufficienza da mangiare fino all’arrivo del prossimo assegno. Piansi ancora, ma questa volta di gioia. Presi una padella per friggere e mi organizzai per preparare la migliore cena di Natale che avessi mai avuto. Da allora, ogni anno alla vigilia di Natale mi preparo dei panini con la mortadella, colpendo le fette rigonfie con un lato della mia spatola e ricordando una donna straordinaria di Winder, in Georgia.
Aveva vissuto gran parte della propria vita da vedova, con due figlie, lavorando duramente da professionista in un mondo poco abituato a questo genere di cose. Donna del sud dotata di notevoli mezzi, aveva assunto una domestica per crescere mia madre e mia zia, prendendo le distanze dalle occupazioni quotidiane e dall’allevare i figli. Era formale, distaccata, quasi vittoriana e profondamente poco incline alla vita domestica. Fin dalla mia infanzia l’avevo chiamata “Nonna” in un modo in cui era chiaro che stavo usando la “N” maiuscola.
Certamente non sapeva come trattare una nipotina, una bambina che veniva da Winder, in Georgia, per una visita che si sarebbe protratta per una settimana. La vita di mia nonna si svolgeva tra gli adulti, a partire dai mobili squadrati e ricchi di intarsi e l’intoccabile pianoforte del salotto, alla sua abitudine di vivere in luoghi solitari, mangiando spesso fuori. La presenza di nipotini avrebbe complicato la sua routine.
La colazione era abbastanza semplice: cereali. E si poteva sempre uscire a cena. Ma il pranzo era insidioso e se lei, spesso, lo saltava, questa soluzione non sarebbe stata possibile per un bambino in fase di crescita. Per la breve durata di quelle visite estive, fece il meglio che poteva per superare la sua mancanza di interesse e abilità culinari.
Panini caldi con la mortadella erano la soluzione ideale. A mezzogiorno, mentre lei cucinava, io me ne stavo seduta sul piano smaltato del tavolo bianco accanto ai fornelli. Quella superficie liscia mi rinfrescava le gambe abbronzate, mentre facevo ciondolare i piedi nel vuoto. Il rumore di porte sbattute e gli strilli dei nipotini dei vicini che giocavano nella calura del sole a picco arrivavano fino a me dalla finestra aperta dietro alle mie spalle.
Amavo il rituale di preparazione dei panini almeno quanto il cibo in se stesso. Il mio compito era di rimuovere con grande attenzione la pelle rossa e gommosa da ogni fetta di mortadella. La nonna poi la metteva in una padella di ferro pesante, bollente, e ne cuoceva solo una fetta per volta. La osservavo attentamente fino a che arrivava la parte migliore: quando la mortadella si gonfiava nel centro formando una specie di cuffia da bagno rosa. Con grande forza la nonna cancellava quel rigonfiamento con due colpi professionali assestati con l’estremità di una spatola di metallo che andavano a formare una piccola croce nel centro della fetta. Ben presto, dopo quel particolare accorgimento la fetta di mortadella veniva rivoltata e quando cominciava ad arricciarsi sui bordi per il calore, era pronta. Infilata in pane bianco tostato, generosamente cosparso di maionese, quello era il mio pranzo quotidiano a Winder, in Georgia.
Da quando sono adulta mangio raramente carne, tantomeno un prodotto altamente lavorato e dalle origini e dagli ingredienti così discutibili come la mortadella. I giorni silvani delle calde estati in Georgia sono un tempo molto lontano dalla vita che conduco ora.
La nonna morì lo stesso anno in cui mi sposai. Divorziai presto e mi trovai in gravi difficoltà finanziarie a causa della scelleratezza del mio ex marito ed estraniata dal resto della mia famiglia. Mi adattai a vivere in un piccolo, molto economico appartamento che divisi con una compagna. Dandomi da fare per portare a termine i miei studi al college, con un misero contributo per gli studenti e una borsa di studio molto lenta nell’arrivare, la prospettiva era quella di un Natale povero e in solitudine.
Il contrasto tra lo squallore della mia vita e la gaiezza artificiale di cui la città era ammantata, era deprimente. Le luci natalizie e i festoni argentati pendevano dai lampioni; enormi stelle scintillanti decoravano gli incroci. Nel mio appartamento non c’era alcun addobbo. Non avevo né un albero di Natale, né prosciutto cotto nel miele, né dolci fatti in casa sul tavolo. Gli unici elementi di conforto in quel momento della mia vita erano i miei due cani pechinesi, Sandy e Samantha. Mi amavano incondizionatamente e furono una grande fonte di conforto durante quegli anni così duri.
Purtroppo, non solo non avevo l’albero di Natale, il prosciutto e i dolci, non avevo nemmeno cibo per i cani. Niente cibo per i cani e niente soldi sul mio conto corrente. Il prossimo contributo non sarebbe arrivato ancora per un’altra settimana più o meno e, come recita una nenia popolare, la mia dispensa era spoglia. Se fossi stata sola avrei potuto farcela per una settimana senza cibo, capitando casualmente a casa di amici all’ora di cena o ingoiando il mio orgoglio facendo ricorso a una mensa dei poveri per avere un pasto caldo. Ma come avrei potuto nutrire le mie “ragazze”? Studiai attentamente il quaderno in cui annotavo i conti, incapace di trovare un solo dollaro dimenticato in una tasca o un errore nei conteggi, e mi resi conto che l’unico modo per nutrire le mia piccola famiglia era firmare un assegno in un negozio ben sapendo che non sarebbe stato coperto finché non fosse giunto il prossimo contributo studentesco. Essere scesa a quel livello mi faceva orrore e pensare che stavo per mettere in atto un crimine feriva il mio cuore. Ero molto depressa, perché sapevo che non c’era nessuno a cui potessi rivolgermi, nessuno che avrebbe potuto essermi di conforto.
Ridimensionai il mio piano e decisi che avrei “comprato” solo il minimo indispensabile, non volendo approfittare della buona fede del negoziante più di quanto fosse necessario. Niente bistecche o aragosta per me, solo le cose essenziali. Scrissi e riscrissi la lista della spesa, cancellando vari articoli fino ad avere solo poche cose delle quali io e i cani non potevamo fare a meno.
Il viaggio in macchina fino al mercato era piuttosto lungo. Entrai con animo pesante e camminando lentamente nei corridoi per cercare le poche cose che apparivano sulla mia lista. Cibo per cani, pane, latte. Mentre facevo la fila alle casse, avevo la sensazione che tutte le persone attorno a me potessero essere a conoscenza di quello che stavo per fare. Finalmente venne il mio turno alla cassa. Scrissi l’assegno mentre lacrime di vergogna mi offuscavano la vista e lo porsi alla cassiera.
“Grazie e Buon Natale!”, mi augurò. Afferrai la borsa e corsi alla macchina.
Piansi lungo tutta la strada del ritorno fino all’appartamento. Che ne sarebbe stato della mia vita? Sarei mai stata in grado di finire la scuola e di risistemare la mia situazione finanziaria?
Una volta a casa aprii il mio bottino e mentre estraevo dal sacchetto le ultime cose, la mia mano toccò una confezione di plastica che non mi era familiare e che risultava fredda al tatto. La tirai fuori incuriosita. Era una sostanziosa confezione di mortadella di una marca molto pregiata.
Mortadella? Non era nel mio elenco della spesa! Non ne mangiavo da anni, ed ero assolutamente certa di non averla messa nel carrello al negozio; era troppo costosa perché potessi permettermela! Controllai lo scontrino. La mortadella non c’era. E poi compresi. La nonna. Stava cercando di prendersi cura di me. Dall’alto dei cieli aveva sentito la mia fame, la mia paura, la mia disperazione, ed era uscita dall’ombra per confortarmi e starmi accanto nell’unico modo che lei conoscesse: con dei panini imbottiti di mortadella fritta. Qualche ora prima stavo quasi per morire di fame, ora avevo pane e mortadella a sufficienza da mangiare fino all’arrivo del prossimo assegno. Piansi ancora, ma questa volta di gioia. Presi una padella per friggere e mi organizzai per preparare la migliore cena di Natale che avessi mai avuto. Da allora, ogni anno alla vigilia di Natale mi preparo dei panini con la mortadella, colpendo le fette rigonfie con un lato della mia spatola e ricordando una donna straordinaria di Winder, in Georgia.
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