martedì 31 dicembre 2024

MONDADORI n.17 - E. Phillips Oppenheim: Il corriere scomparso



La sera del 2 aprile, alle otto e tre quarti, c'era pochissima gente sulla
piattaforma n. 21 della stazione di Liverpool Street, forse perché tale
piattaforma è la più fuori di mano e la meno frequentata di quella stazione
capolinea. Peraltro il primo capostazione era lì presente con un ispettore di
servizio. Un uomo bruno, con un lungo soprabito da viaggio e un cappello
floscio e con una valigetta a mano di pelle marrone, sulla quale spiccava in
lettere nere il nome di John P. Dunster, se ne stava a pochi passi di
distanza, fumando un sigaro e apparentemente assorto nella lettura dei
numerosi avvisi che decoravano la parete sudicia dall'altro lato di
quell'unico binario. Sopra un carrello carico di una sola valigia, stavano
seduti due facchini. Nessun altro viaggiatore era in vista, nessun bagaglio.
Infatti, secondo l'orario, per parecchio tempo nessun treno doveva partire o
arrivare su quella linea. Giù, all'altra estremità della piattaforma, la sbarra
di legno veniva aperta e un altro facchino si avvicinava, trascinando
rumorosamente un carrello su cui erano caricate alcune valigie. Dietro il
carrello veniva un giovanotto alto, vestito di grigio e col cappello di paglia.
L'ispettore lo osservò con curiosità.
— Direi che ha sbagliato strada — disse. Il capostazione assentì.
— Mi pare quel giovanotto che ha perso il treno in coincidenza con la
nave — osservò. — Forse viene qui a chiedere chiarimenti.
Il giovanotto in questione si avvicinava rapidamente. Aveva le mani
sprofondate nelle tasche e la fronte corrugata. Quando fu a pochi passi,
notata la figura del signor John Dunster, fece un cenno al facchino di
attenderlo, e, attraversata la piattaforma, gli si accostò, dicendogli:
— Permette che le dica una parola, signore?
John Dunster si volse a guardare il suo interlocutore. Si volse senza
fretta, anzi con una certa calma che pareva deliberata, e il suo sguardo
improvvisamente brillò di una vivacità penetrante. Era ben vestito, con
l'accuratezza che caratterizza di solito i viaggiatori americani. Di età
apparentemente giovane, completamente sbarbato, con delle larghe spalle,
aveva un aspetto forte e vigoroso, di uomo energico, pieno di vita, pronto a
tutto e disposto a tutto.
— Lei è il signor John Dunster? — chiese il giovanotto.
— C'è qui il mio biglietto da visita, signore — rispose l'altro, facendo
dondolare la valigetta. — Il mio nome è infatti John Dunster.
L'espressione del giovanotto non era molto simpatica. Alla sua aria di
musoneria si aggiungeva ora il nervosismo di chi si accinge a un'impresa
ingrata.
— Se permette, vorrei chiederle un favore — continuò. — Se non può
farmelo, la prego di dirmelo senz'altro e me ne andrò subito. Sono diretto
all'Aja e avrei dovuto prendere il treno in coincidenza con la nave, partita
mezz'ora fa. Avevo già fissato il posto e mi avevano assicurato che il treno
non si sarebbe mosso prima di dieci minuti buoni, dovendo attendere il
carico postale . Scesi sulla piattaforma per comperare dei giornali e mi
fermai a discorrere con un amico. O mi sono fermato più a lungo di quanto
pensassi, o hanno fatto più presto di quanto credessero a caricare la posta,
fatto sta che quando tornai il treno era già in moto. E non mi permisero di
saltare nel vagone come avrei potuto fare benissimo, se quello stupido
ispettore non fosse stato là a trattenermi.
— Sono molto severi in questo paese, lo so — ammise Dunster, senza
mutare espressione. — Continui pure, la prego.
— Ho notato che anche lei è arrivato in ritardo. Mentre stavo
protestando con l'ispettore, ho sentito che lei parlava con il capostazione.
Poi mi sono informato e ho saputo che ha ordinato un treno speciale per
Harwich.
John Dunster non rispose, ma i suoi occhi intelligenti e penetranti
scrutavano quel giovanotto dall'aspetto immusonito ma apparentemente
innocuo.
— Sono entrato nell'ufficio del capostazione — continuò costui —
sperando di persuaderlo a lasciarmi salire col personale del suo treno, ma
mi hanno fatto un mondo di difficoltà; quindi ho pensato che fosse meglio
venire direttamente da lei. Mi permette di salire nel suo scompartimento o
in qualunque altro posto del suo treno, fino ad Harwich?
Dunster lì per lì evitò di rispondere direttamente. Aveva l'aria di chi, con
o senza ragione, trova sgradevole la domanda che gli viene rivolta.
— Le preme molto fare la traversata stanotte? — domandò.
— Moltissimo — ammise il giovane con calore. — Non avrei davvero
dovuto perdere il treno. Devo essere all'Aja domani.
John Dunster si girò lievemente.
— Di quale natura sono gli affari urgenti che la chiamano all'Aja? —
chiese.
Il giovane esitò.
— Temo — disse in tono acre — che lei forse non li troverà di molta
importanza. Devo prendere parte alle gare di golf.
— Gare di golf all'Aja? — ripeté Dunster con tono leggermente mutato.
— Come si chiama lei?
— Gerald Fentolin.
Dunster rimase un momento perplesso. Egli possedeva una straordinaria
memoria e in quel momento si accorse di ricorrere a essa con un certo
sforzo. Fentolin! Quel nome gli rievocava vagamente qualche cosa da cui
doveva guardarsi. Con la fronte aggrottata rimase pensoso senza trovare
risposta. Poi, tutto a un tratto sorrise, e mettendosi sotto la luce di un
fanale, spiegò un giornale che teneva in tasca e lo sfogliò, finché trovò la
cronaca sportiva. Là, in uno dei primi articoli, vide il nome che pochi
istanti prima aveva attirato per caso il suo sguardo.

 

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