sabato 23 novembre 2024

Alberto Odone: La lama e l'inchiostro


Dal diario di Alberto Mendoza,

“Il messaggio che mi raggiunse fra i torpidi pensieri d’un pomeriggio afosissimo era stato redatto con la zelante approssimazione tipica dei rapporti di polizia.
La firma che vi compariva in calce era quella del capitano Medina-Alves, vecchio compagno di liceo che a dispetto della mia condizione, continuava ad onorarmi della sua amicizia. Si trattava peraltro d’un rapporto di corrispondenza già consolidato e che si fondava sulla stima che egli generosamente riponeva nelle mie capacità deduttive, capacità che, non senza un certo sarcasmo, il buon capitano riteneva assai acuite dal particolare tipo di ospitalità che la Stato mi offriva. Anche in questo caso, come nei precedenti, si trattava di un crimine, ed in particolare di un omicidio dalla meccanica piuttosto indecifrabile.
Disdissi la consueta partita a scacchi di mezzo pomeriggio col secondino e mi dedicai a sceverare la lettera di Medina-Alves, forte dell’attenzione per le irrilevanze che una lunga permanenza in spazi angusti finisce per imporre e della capacità immaginativa di cui la pratica della scrittura aveva irreparabilmente corredata la mia forma mentale. Esaminare imparzialmente i fatti mi risultò difficile: la vittima era infatti persona per la quale aveva sempre provato una spontanea e ricambiata simpatia, un vecchio libraio ebreo di nome Shlomo Kaminski con il quale s’era instaurato l’inevitabile rapporto di complicità che lega due indi vidui affetti da bibliofilia acuta, di quelli cioè persuasi, come piacque credere a Mallarmè, che il mondo sia fatto per diventare libro.
A dispetto dell’assiduità delle nostre frequentazioni il rispetto che avevamo l’una dell’altra impedì alla nostra relazione di sfociare nelle indiscrete confidenzialità dell’amicizia. I nostri dialoghi furono parchi, spesso fatti solo di ammicchi, di riferimenti: ci esprimevamo indicandoci libri, compulsando pagine, mostrando righe; il sorriso compiaciuto con cui egli mi illustrava qualche rarità appena giunta, il luccichio ingordo dei miei occhi di fronte ad un ‘in folio’ creduto introvabile sancivano la nostra intimità assai più saldamente di ogni convivio.
Solo all’apprendere della sua morte mi accorsi quanto poco sapessi di lui e pure quanto poco mi era bastato saperne: ciò mi rese ancora più doloroso indagarne la memoria. Sulla base delle affidabili testimonianze di due passanti risulta che Kaminski fosse uscito barcollando dal suo negozio, le mani serrate sul ventre e parzialmente nascoste dal nero barracano che era solita portare; sulle prime era stato creduto preda di un malore ad era stato prontamente soccorso, ma la copiosa scia di sangue che si lasciava dietro aveva presto dissuaso anche gli animi più pietosi: il libraio mosse ancora qualche passo per poi accasciarsi proprio dinanzi alla porta che sta al numero 5 di Avenida Carriega, la porta della mia abitazione. Il poco sollecito intervento delle forze di polizia e del personale sanitario lo trovò già prossimo a spirare: causa del decesso, come recita la prosa anodina e banale del rapporto, una lama di venti centimetri confitta all’imboccatura dello stomaco.
Accanto alle inutili notazioni sull’arma del delitto, un coltello a serramanico assai comune fra i gauchas ed oltretutto priva di qualsiasi marca distintiva, campeggiava una chiosa redatta in lapis, in una scrittura nervosa che riconoscevo propria del Medina-Alves dei momenti peggiori: ‘arma non penetrata in profondità’, morte per dissanguamento colpa di mano inesperte, forse debole una donna?”.
Ben conoscendo l’avventatezza dell’estensore mi guardai bene dal considerarlo elemento risolutivo, tuttavia non potei ignorare che si trattava pur sempre delle considerazioni di un uomo assai esperto di crimini, e che, sopra ogni cosa, non potendo esaminare di persona il cadavere, la vista di Medina-Alves e, purtroppo, anche la capacità di giudizio da essa inseparabile, erano l’unica via d’accesso ai fatti a me consentita.
Ma ciò che incuriosiva realmente il mio “amico” che costituiva il motivo primo se non unico per cui era ricorso ai miei servigi era un particolare in apparenza insensato ma che, a suo parere, ai miei occhi avrebbe dovuto comporsi in leggibile calligramma: prima di esalare l’ultimo respiro – ed egli ci tenne a sottolineare che il fatto era stato taciuto alla stampa – Kaminski aveva vergato una scritta col labile inchiostro del proprio sangue, e per farlo aveva scelto propria la mia porta.
Quale fosse quell’estremo poscritto il poliziotto si riservava di farmelo sapere solo nel caso mi fossi impegnato ad esaminare il caso. In tale evenienza, recitava una nota, avrai ricevuto a mezzo posta e quanta più celermente possibile ogni e qualsiasi informazione avessi ritenuto necessaria, quantunque sigillata dal segreto istruttorio. La mia ripugnanza per il ricatto, se pur di marca puramente intellettuale, e il modo arrogante con cui il mio corrispondente mostrava una volta di più di volersi profittare delle mie debolezze mi spinsero sulle prime a ignorare la lettera – un’importante casa editrice bonaerense mi aveva commissionata un’impegnativa traduzione degli Exercises de style di Queneau, e non era quindi di cimenti intellettuali che mancava – ma il debito che riteneva di avere nei confronti di Kaminski, o l’atavica curiosità che per tale tentavo di spacciare, mi indussero ad accettare.
Il giorno seguente mi fu recapitata una busta gialla in cui era un pezzo di carta che solo la burocratica teatralità di Medina-Alves poteva aver suggerito così lacero ed esiguo. Su di esso campeggiava la frase: “Oh tempo le tue piramidi”. E non è retorico affermare che da allora quella pomposa metafora venne a costituire il centro attorno a cui ruotò ogni mio pensiero.
Aldilà dell’assoluta mancanza di senso compiuto che sulla prime mi parve la sua caratteristica più rimarchevole, la frase possedeva un ritmo ed un’enfasi che facevano avvertire al palato il sapore di un’aulicità sorpassata e vagamente stucchevole. La si sarebbe detta una citazione.
La cosa per altro non avrebbe dovuto indurre a stupore, tenuto conto della spaventosa erudizione dell’assassinato e della sua conclamata passione per i classici. Ma se citazione era dove rintracciarla fra lo sterminato dedalo di letture da cui Kaminski l’aveva espunta?
Mi accorsi quasi subito che sull’abbrivio dell’entusiasmo stava procedendo in modo avventato. Per quanto ci si muovesse ancora in una costellazione di elementi alquanto vaghi, dove discernere il superfluo dall’essenziale era prematuro se non addirittura avventato una cosa però la si poteva dare ragionevolmente per certa: se Kaminski, anziché urlare, chiamare aiuto o più semplicemente abbandonarsi ad un’ultima invocazione a Dio scelse di scrivere significava che aveva qualcosa da dire e che ci teneva disperatamente a dirla. Ogni messaggio presuppone tuttavia un destinatario, e debbo supporre, in stima alla sua capacità di valutare gli uomini, che non potesse trattarsi della Polizia.
Dunque si trattava di un interlocutore privilegiato, sulle cui doti intellettive il povero Kaminski nutriva gran stima e che presumibilmente aveva in comune con lui una notevole parte del proprio sostrato culturale, forse anche la passione per qualche particolare genere letterario.
A quel punto ritenni superfluo smarrirmi in altre congetture: il diramarsi delle ipotesi rischiava di diventare vertiginoso. Preparai una lunga lista di domande per Madina-Alves: in fin dei conti sapevo quasi nulla di Kaminski e non era improbabile che il particolare in grado di svelare il senso del suo enigma giacesse in qualche latebra del suo passato. Nello spazio di una settimana, durante la quale mi diedi ad una frenetica compulsazione di un gran numero di classici (dapprima i miei sospetti si puntarono su Eraclito, i cui oscuri aforismi ben si addicevano alla struttura della frase, poi passai a caso a Saffo, a Lucrezio, a Luciano di Samosata e a decine d’altri ancora), ebbi le risposte che cercavo assieme al sardonico invito di Madina-Alves a desistere dal caso, stante la totale inutilità della mia collaborazione.
Le notizie ottenute dall’Interpol, da tempo sulle tracce del libraio, lo svelarono infatti in possesso di trascorsi ambigui e insospettabili che inducevano a credere il caso prossimo alla soluzione.
Il sedicente Shlomo Kaminski, al secolo Martin Heinemann, era stato un alto ufficiale delle SS distintosi nella persecuzione degli ebrei sin dalla “notte dei cristalli”. Decine i crimini che gli si attribuivano, spietate ed immaginose le esecuzioni di cui s’era macchiato. Sazio di tanta morte e forse presago dell’infausto epilogo cui la ferocia nazista avrebbe condotto, Heinemann ideò un’astuta e melodrammatica fuga: profittando della rimarchevole somiglianza con uno dei suoi prigionieri, lo fece evadere, poi lo uccise sparandogli in faccia e ne assunse l’identità.
Quella atroce mascherata gli servì, a mescolarsi senza destare sospetti agli esuli ebrei rifugiatisi in Svizzera ed a scampare alla caccia spietata di chi non avrebbe tollerato il suo tradimento.
Prima dell’inizio del ’44 egli aveva già raggiunto via Portogallo, l’Argentina. Del cospicuo tesoro che si vociferava avesse estorto alle sue vittime buona parte finì tra le predaci mani di chi collaborò al suo espatrio, il resto fu investito nell’acquisto di una libreria. La sua esistenza fu sommessa il giusto, quanto lo debba essere cioè quella di un fuggiasco celato sotto un’identità apocrifa.
I cacciatori di criminali di guerra o forse gli stessi nazisti che aveva tradito dovevano averlo rintracciato. Ipotesi peraltro confermata dalla sua governante che negli ultimi tempi aveva ravvisato nel libraio un’angosciata e quasi paranoica inquietudine. Le colpe antiche cui quell’uomo mai avrebbe potuto sottrarsi avevano assunto la forma di una lama e di una mano guantata, per quanto un poco irresoluta, ed i colpevoli erano probabilmente già in viaggio verso Israele o l’Europa, ergo – concludeva Medina-Alves – gettarsi sulle loro tracce era vano. Non erano d’altronde il genere di colpevoli della cui fuga ci si debba angustiare: la loro era stata più un’esecuzione che un crimine, la Storia l’alta corte che aveva dettato la sentenza.
Il plot era piuttosto banale ma tuttavia non privo di una sua grossolana verosimiglianza: ciò che però mi faceva suonare la costruzione tutta paralogistica e fittizia erano la totale obliterazione del particolare della frase scritta col sangue e la semplicità, invero piuttosto ingenua ed arbitraria, con cui il poliziotto aveva identificato Kaminski con Heinemann, senza darsi minimamente la pena di verificare quanto i tratti psicologici ed i costumi di quest’ultimo si adattassero a quelli del primo.
Avevo frequentato il libraio per più di un decennio, e, se pur nulla seppi né volli sapere della sua vita privata o dei suoi trascorsi, di una cosa ero e sono certo: nutriva per i libri e per la scrittura in genere una rigorosa venerazione che poteva essere solo sefardita. Conosceva a menadito Spinoza, anche nelle sue opere marginali, si muoveva agevolmente fra i mi steri del Sepher Yetzirah, era persuaso del segreto potere delle parole sulle cose come solo un cabalista può esserlo. Che un gerarca nazista, soffocato dai propri sensi di colpa, possa escogitare il contrappasso d’imprigionare se stesso in un archetipo tanto letterario di ebreo è concepibile, che ci riesca ad un tale livello di finzione è inverosimile.
Non fu facile persuadere Medina-Alves a procrastinare il proprio trionfo: solo spacciandogli per prossima una soluzione ancora più eclatante e foriera di glorie riuscii ad ottenere quel minimo di aiuto che mi occorreva a proseguire la mia indagine personale.
Innanzi tutto pretesi di vedere gli originali dei documenti su cui si basavano le sue conclusioni. Le notizie fornite dalla polizia tedesca erano quasi essenzialmente tratte da due vecchi e mutili rapporti redatti dalle autorità del terzo Reich, il primo facente riferimento all’improvvisa e contemporanea scomparsa di un ufficiale delle SS, tale Martin Heinemann, e di un prigioniero ebreo dal campo di Dachau, il secondo relativo al ritrovamento sulla riva tedesca del lago di Costanza (cioè presso il confine svizzero) di un corpo sfigurato abbigliato in un’uniforme da ufficiale delle SS e recante i documenti di Heinemann medesimo. Altri documenti riguardanti il nazista ed i suoi crimini efferati risalgono invece al ’45 e risultano essere il prodotto di una indagine compiuta dalle truppe di occupazione sovietiche: non mi è difficile liquidarle come semplice materiale propagandistico con notevole tendenza al macabro ed al Grandguignol, così come non mi è arduo credere che sia proprio su questi ultimi dati che
Medina-Alves ha costruito la sua “personalissima” versione dei fatti.
I radi elementi a disposizione potevano certo anche comporsi nel quadro tratteggiato dal mio buon capitano, ma al tempo stesso potevano divenire materiale per infinite altre variazioni sul tema: forse Kaminski aveva convinto Heinemann della follia della causa per cui si batteva, aveva suscitato in lui l’orrore per l’insensata persecuzione di cui si ren deva complice e lo aveva quindi indotto a farlo fuggire ed a fuggire con lui, salvo poi ucciderlo – per vendetta o per paura – una volta nei pressi del confine svizzero, mescolando la sua agli altri milioni di vite spezzate durante il conflitto. Una storia plausibile quanto quella del mio amico poliziotto, ma di epilogo opposto. Tutto ciò a dimostrarmi come gli elementi davvero indubitabili in nostro possesso erano assai meno di quelli che supponeva la Polizia.
Kaminski era ebreo; Kaminski era fuggito dall’Europa nel bel mezzo della guerra; qualcuno lo aveva ucciso, per un movente a noi incognito ma di cui
è ragionevole ritenere egli non fosse all’oscuro, così come non era inconsapevole di star correndo un grave pericolo. Di altro non disponevamo.
Occorreva tornare alla frase, a quella che a mio parere era la chiave di tutto. Lasciai che mi scorresse ancora a lungo e vanamente lungo i corridoi della memoria, col cupo rombo d’una bilia d’acciaio: era priva di senso, ovunque la si ruotasse, ma sarebbe rimasta ancora tale se avessi cessato di esaminarla a sé stante e l’avessi riconnessa al tutto cui apparteneva?
Iniziai a considerarla un frammento, una scheggia di un insieme più vasto, composto questa volta non da un testo, ma da tutte le azioni che l’avevano preceduta. Ritornai a Kaminski, cercai di immaginare come avrei agito se mi fossi trovato al suo posto: per lui, come per me, il mondo e la Storia sono scrittura ed il demiurgo null’altro che un instancabile narratore.
La enigmatica invocazione dell’ebreo non solo era parte di un testo più vasto nel senso comune del termine, ma di un appello composto da ciascuna delle azioni che lo avevano preceduto: la lama blandamente confitta nel ventre, il passo ciondolante, la riga del suo sangue sull’asfalto, la porta di casa mia scelta come lavagna erano lettere, parole, segni il cui destinatario si faceva via via più evidente.
Ero stato sciocco a presumere che tutto si fosse svolto casualmente: la scelta dei modi e dei tempi della sua morte rispondeva alla più rigorosa della grammatiche e non ammetteva i solecismi dell’imprevisto. Era di capitale importanza per lui che potesse accedere al mistero solo chi ne fosse degno: il segreto che egli custodiva lo imponeva, l’enigma che egli aveva scelto era ad un tempo indicazione e ardua prova iniziatica.
Cercai di immaginare quale oggetto a conoscenza potesse mai valere quel prezzo, e, scartando per pregiudiziale disgusto le soluzioni più trivialmente spionistiche, spinsi la mia immaginazione verso le speculazioni più vertiginose. Se avessi dovuto immaginare Kaminski membro di un’accolita segreta l’avrei di certo pensato cabalista, non certo agente del Mossad o di altri organismi affini: le sue inclinazioni culturali e la sua mitezza me lo imponevano.
Due sono i segreti di cui la leggenda vuole depositari i cabalisti, almeno secondo la scarna bibliografia cui mi riusciva di accedere: il primo consiste nella sacra formula che permise a rabbi Loew di mutare un inane ammasso di argilla nell’esiziale Golem, il secondo nel liber librorum, il libro che è tutti i libri possibili, che contiene tutto ciò che è conosciuto e che si conoscerà e che si narra fosse in possesso di Abramelin, il mago. Se non esistevano altri e più segreti tesori mi pareva chiaro che il mestiere e le attitudini e le estranee azioni di Kaminski alludessero assai più al secondo oggetto che al primo. Avevo sempre ritenuto queste leggende nulla più che trasfigurazioni simboliche di concetti filosofici, allegorie immaginose, ma il rigore intellettuale di cui sapevo capace Kaminski e la tragicità di cui s’ammantava la sua estrema asserzione mi imponeva di proseguire nella mia investigazione postulando ogni cosa come reale.
A questo punto anche la frase sulla mia porta avrebbe dovuto assumere un senso, trovare una collocazione, e sperabilmente anche costituire una conferma per il cumulo di precarie ipotesi che andava producendo. Sulle prime mi venne da pensare a scrittori che facessero dell’esoterismo ebraico il leit-motiv delle loro opere, pensai a Meyrink, a Leo Perutz, ma subito mi redensi da quello sbaglio: se mai autore aveva trattato il tema del libro infinito, dell’universo come biblioteca questi era il mio amico Borges. Afferrai da uno scaffale una vecchia copia di Ficciones e, seguendo a tentoni la pista della memoria lo frugai in cerca di un certo passa del racconto La biblioteca di Babele. Quando i miei occhi lo incontrarono ebbi la sensazione di vedere il parco ma compiaciuto sorriso di Kaminski aprirsi in filigrana tra l’ordinato brulichìo delle lettere. Esso recitava così: “… Questa constatazione permise, or sono tre secoli, di formulare una teoria generale della biblioteca e di risolvere soddisfacentemente il problema che nessuna congettura aveva permesso di decifrare: la natura informe e caotica di quasi tutti i libri. Uno di questi… constatava delle lettere M C V, perversamente ripetute dalla prima all’ultima riga. Un altro è un mero labirinto di lettere, ma l’ultima pagina dice OH TEMPO LE TUE PIRAMIDI…”.
La frase era stata ritrovata, l’indicazione che essa conteneva era chiara e duplice: essa rappresentava il commiato d’un bibliofilo diretto ad un suo pari, un epitaffio privato, un’amara e rassegnata allusione alla convulsa insensatezza del mondo ed all’assurdità della sua sintassi, ma al tempo stesso essa era un preciso rimando a Babele, all’esaustivo cosmo di libri che si componeva di tutti gli accadimenti attuati, di quelli da attuare così come degli inattuabili.
Nella geniale immaginazione di Borges tuttavia l’infinita biblioteca, cui lo spazio e la fisica imponevano di essere mera creazione letteraria, si rispecchiava in scala in un oggetto che io sapevo – o credevo – esistere, il Liber Librorum di Abramelin, il libro infinito, il LIBRO DI SABBIA le cui pagine sono incalcolabili come i granelli della rena.
Mano a mano che il segreto di Kaminski si dischiudeva nella sua terribile chiarezza, mi appariva più evidente il coraggio immenso di chi l’aveva custodito, e che si era sacrificato per conservarlo. Per questo era fuggito in questo paese remoto, per questo temeva di continuo che i membri di qualche segreta confraternita rivale lo raggiungessero. E dovevano alfine averlo trovato perché egli arrivasse a quel gesto estremo: sì, perché la mano che gli tolse la vita non fu altra che la propria.
Kaminski mi doveva considerare – chissà se a ragione – l’unica persona intellettualmente ed eticamente degna di ereditare il suo segreto; il suo problema era quello di raggiungermi in carcere: il mio status di prigioniero politico prevede che la corrispondenza che ricevo sia sottoposta a censura, quand’anche essa consista di un libro, e questo gli era ben noto, così come era universalmente nato l’assiduità con cui la polizia si valeva dei miei servigi nei casi di più ardua soluzione. La particolarità della situazione e l’importanza della posta in palio la forzò alla più drastica delle scelte: l’unico modo di farmi pervenire il messaggio era di divenire egli stesso il più emblematico ed insolubile dei casi polizieschi. Che nemici poteva vantare un innocuo e benvoluto libraio?
Quale debole mano poteva avere inflitto un colpo tanto fiacco ed impreciso? Che poteva significare la frase insensata che egli in punto di morte aveva vergato sul legno di un uscio (non a caso il mio)?
La scommessa di Kaminski era stata azzardata, la posta altissima, ma se le mie ipotesi non erano vani arzigogoli la vincita da riscuotere, poco importa se postuma, sarebbe stata incommensurabile.
Feci chiamare Medina-Alves – oh, non vi stupisca la semplicità con cui potei uscire, in queste carceri nulla è impossibile a chi detiene bastevole autorità – gli spiegai che avevo finalmente decifrato il messaggio di Kaminski, che esso celava un fondamentale segreto, l’indicazione del luogo in cui si trovava un’agenda con l’elenco di tutti i criminali nazisti celati sotto falso nome a Buonos Aires. Poteva essere abbastanza per allettarlo.
Quando salii sull’auto di Medina-Alves, pressato in malo modo fra due sgherri in borghese, gli spigoli dell’antica edizione della Bibbia che aveva nascosto sotto alla cinta mi ferirono l’inguine. Ricordavo di aver letto di un’asta benefica di libri antichi tenutasi una quindicina di giorni prima a casa Borges: puntai tutto su quel particolare e sul nitido ricordo che possedevo del racconto “LIBRO DI SABBIA”, cui supponeva
Kaminski si fosse riferito. Dissi ai poliziotti che avevo ragione di credere che l’ebreo avesse celato il suo segreto a casa Borges, in attesa che altri complici lo andassero a prelevare e che era stato tanto macchinosamente circospetto perché aveva l’ossessione d’essere sorvegliato.
Alle perplessità che anche una mente ottusa come quella di Medina-Alves non poteva non manifestare opposi l’autorevolezza che mi veniva dai passati successi.
Entrammo in casa Borges in virtù della blanda amicizia che mi legava alla sua vedova e d’una profusione di scuse e ringraziamenti. Medina-Alves sapeva bene che un eventuale fallimento avrebbe potuto costargli caro, che la stampa non avrebbe valutato benevolmente una ingiustificata intrusione della polizia in una casa tanto onesta di gloria. Chiesi e ottenni di poter guidare la perquisizione. Le parole del racconto mi guidarono: Borges narrava di aver barattato il “Libro di sabbia” con un’edizione della Bibbia di Wiclif e d’averlo sistemato, in un primo tempo, al posto occupato da quest’ultima. Giocai sulla buona memoria di Kaminski, scommisi sulla sua rigorosa aderenza al testo. Quando afferrai, al riparo dai rapaci occhi dei miei guardiani, il libro dalla rilegatura smangiata che portava incisa sul frontespizio la scritta apocrifa “The Holy Bible” fui invaso da un’inesorabile vertigine: lo aprii a caso, il numero della pagina che mi stava dinanzi era 25 elevato alla sedicesima potenza. Non c’era il tempo di indugiare in verifiche. Sostituii la bibbia che tenevo nascosta a quel libro spaventevole, poi proseguii nelle ricerche con fare affettatamente assorto. Ci vollero più di due ore prima che si manifestassero i primi segni di impazienza, ed altre quattro prima che io dichiarassi apertamente il mio fallimento. A nulla mi valse appellarmi alla difficoltà della decretazione, alle occorrenze imprevedibili del caso, alle inopinate minuzie che dissolvevano la Storia dal suo corso: la punizione che mi fu inflitta fu severissima.
Fui trasferito a Cordoba, in un penitenziario di massima sicurezza; mi fu proibito di ricevere visite ed imposto l’isolamento perpetuo, ma sopra ogni cosa – Medina-Alves sapeva bene come colpirmi – fui privato di tutti i miei libri, ad eccezione di uno, la Bibbia, conforto dell’anima che nemmeno il più spietato degli aguzzini può negare. Inutile dire che, fra le molte edizioni che possedevo, scelsi quella di Wiclif.
Da non molto la surrettizia benevolenza di un carceriere mi permette di scrivere, ne approfitto per fissare qualche brandello della più claustrofoba delle biografie. Volli cominciare con questo caso curioso, volli rendere omaggio al genio di Borges che seppe, inconsapevolmente, anticipare la realtà. Il regime in cui si estinguerà la mia vita è innegabilmente duro, simile ad un incubo per certi versi, ma quel poco o molto di libertà in più che possedevo valeva bene il baratto: mi basta sedermi sulla branda, scostare la lisa copertina di una Bibbia ed il più inesauribile degli universi mi appare.

 

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