venerdì 25 ottobre 2024

URANIA n.9 - William F. Temple: ll Triangolo Quadrilatero



L’idea era troppo colossale perché la mente potesse, al primo tentativo,
afferrarne tutte le implicazioni. Ma quando l’afferravi e lasciavi che la
fantasia divagasse inseguendo tutte le possibilità...!
C’erano al mondo sei sole firme autentiche di William Shakespeare.
Adesso potrebbero essere sedici, sessantasei, seimila e sei.
C’era una sola Monna Lisa. Una sola Venere di Milo. Però adesso il
sorriso della Gioconda correva il pericolo di perdere l’unicità. «Unico» era
una parola che in quegli ultimi cinque minuti era stata privata all’improvviso
del suo significato essenziale.
Potevano esserci cinquanta Monne Lise, cento Veneri... anzi, non c’era
nessun limite alla molteplicità di quelle due femmine così interessanti... e
ciascuna Monna Lisa e ciascuna Venere potevano rivendicare di essere
genuine quanto quella che aveva sentito il pennello di Leonardo o lo scalpello
d’un ignoto greco. La stessissima tela e il colore, il marmo identico,
esattamente come le seimila e sei firme potevano rivendicare di essere fatte
con l’inchiostro fluito dalla penna d’oca del poeta.
Voltai le spalle dal risultato solido del miracolo che avevo visto operarsi
davanti ai miei occhi e dissi, con la voce turbata dallo sbalordimento e
dall’incertezza:
«Suppongo... suppongo che sarebbe addirittura possibile far esistere
un’altra Cappella Sistina, in questo modo?»
«Completa fino all’ultimo pelo dell’ultima barba dell’ultimo profeta, se ci
mettessimo al lavoro su scala abbastanza enorme», disse Rob, con un sorriso
dal quale si sforzava di escludere l’indulgenza.
«Io, non essendo più studente di anatomia e non credendo alle Porte del
Paradiso, preferisco le decorazioni del supercinema locale», osservò Bill.
«Ma se ci tieni ad avere qualcosa di simile come regalo di compleanno,
vedremo che cosa possiamo fare.»
Oh, quell’inguaribile abitudine inglese, fingere di trattare come uno
scherzo le idee e i fatti strani e nuovi; e più importante l’argomento, più
leggero il tono! Senza dubbio una risata è meglio di un urlo di rabbia e di
paura, d’una profezia di calamità e di rovina, ma non è un’accoglienza più
utile, e solo il Signore sa quante ispirazioni genuine sono intristite e morte
sotto la garbata ma tremenda ilarità anglosassone. C’è solo una cosa
perdonabile: spesso è di un’autodepressione disarmante, anche se non è molto
ragionevole. E in questo caso gli individui derisi erano gli stessi che avevano
prodotto quel miracolo con l’ingegno e la fatica, gli stessi che possedevano la
capacità di eguagliare Michelangelo e di creare una nuova Cappella Sistina.
Per collocare il miracolo al posto giusto nella strana storia del triangolo
quadrilatero è necessario tornare indietro d’una dozzina d’anni, a quel
piovoso pomeriggio, quando uno scolaretto dai capelli rossi s’era presentato
al mio ambulatorio chirurgico, stringendo tranquillamente il polso sinistro
fratturato con la mano destra.
Portava un jersey verde spaventosamente liso e rammendato, i calzini gli
ricadevano intorno alle caviglie, i calzoni erano stati malamente ricavati da
un paio più grande e di seconda mano, e la violenza del colore dei capelli era
eguagliato soltanto dalla violenza del loro disordine. Ancora a ventisei anni,
quando incominciò a compiere miracoli, i suoi capelli erano un empio intrico,
perché aveva l’abitudine di passarci in mezzo le dita, in tutte le direzioni,
quando pensava... cioè quasi sempre.
Allora, in quel pomeriggio umido, pensai che sua madre fosse una donna
trascurata, o non avesse una madre. E poi, individuando nel ragazzetto il
figlio del poco simpatico Fred Leggett che abitava nella zona più povera del
paesotto, ricordai che Mrs. Leggett era una paziente che, circa dieci anni
prima, si era spenta rapidamente nonostante le mie cure. Già era una donnina
pallida, e un’inspiegabile anemia l’aveva svuotata come se sanguisughe
invisibili si fossero attaccate al suo corpo, e prima che si potesse pensare alla
cura più indicata, il suo pallore era diventato il pallore della morte.
Il ragazzetto aveva la stessa faccia bianca, sebbene giudicassi, dalle sue
condizioni e da una certa conoscenza del carattere di suo padre, che quel
pallore fosse dovuto assai più alla denutrizione che all’anemia. Eppure, come
avrei scoperto, non mancava certo di vitalità.
«Ehilà, ragazzo mio», dissi. «Che cosa hai fatto a quel polso?»
«Stavo facendo un esperimento, dottore.»
«Un esperimento?» ripetei, esaminando il polso. «Un doppio salto
mortale o che altro?»
«No, dottore. Provavo la tensione necessaria per rompere una fune.
L’avevo attaccata a un albero e vi avevo caricato più pesi di quelli che
avrebbero dovuto spezzarla, secondo le somme che avevo fatto io.
Meccanica, sa? Ma non si rompeva e allora mi sono arrabbiato e sono andato
ad aggrapparmi e a dondolare. Così si è rotta.
E si è rotto anche il mio polso.»
«Non credo che sia rotto, ragazzo. Forse è solo una lussazione.»
«No, una lussazione si sarebbe gonfiata di più. Credo che sia una frattura
semplice.
Probabilmente una frattura di Colles. Non credo che occorrerà neppure
ridurla.»
A questo punto lo guardai attento. Non era il tipo di discorso che c’era da
aspettarsi da un quattordicenne delle elementari. La faccia pallida era tutta
seria, senza l’orgoglio della precocità. Pensai che doveva aver leggiucchiato i
manuali del pronto soccorso.
«È va bene», dissi. «Ti porterò al Cottage Hospital e vedremo che cosa
dicono i raggi X.»
Lui era incantato dall’idea di farsi radiografare. Durante il percorso in
macchina scoprii che quello non era solo un ragazzino che leggiucchiava i
manuali di pronto soccorso. Perché ero un dottore, un vecchio dottore con i
capelli grigi, il ragazzetto pensava che dovevo sapere tutto dei raggi X, la
loro storia e la loro natura, e cercava di farsi dare informazioni da me.
 

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