giovedì 1 agosto 2024

Andrea G. Pinketts: Il punto di vista del licantropo


Non puoi avere la luna piena e la moglie ubriaca. Specie se sei un licantropo. Eppure quella notte ci sarebbe stata la luna piena ed Isabella era già al quarto martini il che, essendo lei astemia, era chiaro sintomo di un certo nervosismo. Aveva cominciato col mangiarsi le unghie, ma questo lo faceva sempre, poi aveva optato per le olive sul martini ed ora, dopo essersi scolata i martini cocktail, guardava famelica i bicchieri di cristallo pieni solo dei noccioli di quattro ex olive.
Era così una volta al mese, prima del plenilunio, prima che mi trasformassi in un lupo mannaro. Io, una volta al mese, diventavo un lupo e lei, una volta al mese, diventava nervosa, intrattabile, aggressiva anche nei silenzi. Il plenilunio, forse, coincideva con il suo ciclo mestruale. Del resto quando l’avevo conosciuta le avevo detto di essere un licantropo.
Lei aveva sgranato gli occhioni e col silenzio, che era il suo linguaggio abituale, mi aveva incoraggiato a proseguire il mio primo monologo per lei.
«Non è facile essere una minoranza. Che so, un negro, un omosessuale, un licantropo. Hai mai sentito parlare di un licantropo negro omosessuale?
Dev’essere il massimo della discriminazione. Come negro, è discriminato dai licantropi omosessuali razzisti. Come omosessuale è discriminato dai licantropi negri puritani, come licantropo è discriminato dai negri omosessuali vivisezionisti. Pensa che vita. Emarginato dagli emarginati.»
Isabella si era mangiata l’ultima unghia rimasta e aveva accettato il mio secondo appuntamento. Non parlava mai. Ci vedevamo in lunghi assolati pomeriggi ed io le parlavo. Parlavo raccontandole di me cose mai dette a nessun’altra. I miei segreti si aprivano al suo silenzio e fiorivano, sbocciavano, perché il silenzio irradiava comprensione, mentre le parole, i giudizi, sarebbero stati grandine per i miei segreti. Un giorno d’aprile le confessai che ero un licantropo, mentre il vento le scompigliava i capelli e la mia rivelazione, i sentimenti. Parlò per la prima volta. Disse qualcosa tipo:
«Ah…». Poi tacque mentre il vento riempiva i puntini sospensivi. Le dissi tutto. Fu quello che si dice parlare al vento.
«Da piccolo mi sono accorto di essere diverso dagli altri bambini. Nelle favole tenevo al lupo. Mia madre non mi raccontò mai la fine di Cappuccetto Rosso. Solo da adolescente scoprii che il cacciatore uccideva il lupo (e perciò i lupi erano in via d’estinzione) e che toccandoti un involtino di carne che hai tra le gambe in mezzo a due polpettine, be’ non ci crederai, cambia dimensioni, diventa grosso grosso come un arrosto di vitello. Mentre gli altri bambini giocavano a pallone nel cortile della scuola, di primo pomeriggio, io raccoglievo gli esclusi intorno a me: un biondino che si chiamava Cinzia e un ciccione che tutti chiamavano Ciccio. A noi tre il calcio non piaceva. Specialmente a Ciccio che somatizzando s’immedesimava nella palla. Cinzia voleva che gli facessi vedere quello che lui chiamava il pistolino. Per me non c’era nessun problema. Ciccio, quando fu il suo turno, divenne rosso rosso, si sbottonò la patta ed estrasse il suo “pistolino”. Da allora io e Cinzia non lo chiamammo più Ciccio. Lo chiamammo “l’uomo invisibile”. Eravamo un bel trio. Io ero il licantropo,
Ciccio l’Uomo invisibile e Cinzia lo chiamammo la Donna bionica. Io avevo un sacco di peli, Cinzia nessuno e Ciccio solo nel naso. Un grasso naso. La nostra amicizia sembrava eterna. Finì quando Ciccio fece una dieta per diventare “normale” e giocare al calcio con gli altri. Rimanemmo io e Cinzia. Lui mi disse di amarmi, mentre io mi accontentavo di volergli bene. Ci fu un momento di imbarazzo poi uno dei due, non ricordo chi, si unì agli altri che giocavano a pallone.»
Isabella ascoltava paziente, entusiasta, delusa come una madre. Sennonché, ecco, non era mia madre. Era una ragazza diversa senza essere licantropa, grassa e omosessuale. Comunque non giocava a pallone. E non era neanche, nonostante le apparenze, sordomuta.
Le parlavo, pomeriggio dopo pomeriggio, progredendo nell’amore e nell’autobiografismo.
«Se non fosse stato per Cinzia e Ciccio mi sarei sentito diverso. Una volta al mese diventavo un lupo ed ero comunque piuttosto peloso. L’unico periodo in cui mi sentii integrato fu quando entrai nei “Lupetti”. Quello era pane per i miei denti. Ero inimitabile nel fingere di ululare. Solo che non fingevo. I Lupetti divennero Boy scout. Io sempre meno scout e sempre più boy, arrivai al liceo.
E lì sì che fu il mio trionfo. Mia madre mi mandò in una scuola privata, quegli Istituti in cui i ragazzi normali, pagando una certa cifra, si sentono diversi dai ragazzi che frequentano le scuole pubbliche. È questo il punto, Isabella, i normali” pagherebbero per essere diversi. Solo che hanno solo soldi, non abbastanza talento. Lì divenni l’idolo delle ragazze. Mi facevo sbattere fuori dalle lezioni per andare in corridoio a limonare con Cristina, Rina, Nina, Pinta e Santa Maria. La mia diversità unicizzava il rapporto con la ragazza di turno. Si sentivano “diverse” anche loro. Sai perché le democrazie falliscono, Isabella? Perché gli uomini non vogliono sentirsi uguali, vogliono essere diversi. E sai perché falliscono le dittature?
Perché gli uomini, in questo caso, vogliono essere uguali. Al dittatore.
Gli altri si diplomarono, io fui espulso dal liceo. Nel frattempo avevo fatto cose “normali” per non sentirmi diverso: mi ero innamorato, Isabella, di una certa Cristina. Le avevo giurato che sarei stato fedele ma, cosa vuoi, il lupo perde il pelo…»
«Ma non il vizio!» disse Isabella. Dunque parlava, esisteva. Non ascoltava passivamente come un ippopotamo in un documentario del WWF. Isabella capiva il mio sfogo. Era l’essere. L’altro. Quello che sembra muto.
Quello che respira del tuo respiro, tossisce se hai la tosse, vomita se hai la nausea. Così… per non farti sentire solo. Chiesi a Isabella di sposarmi. Lei tacque. Forte del fatto che chi tace acconsente, tradussi il suo mutismo con un sì e la sposai.
Così iniziarono i problemi. Mi aveva sempre visto, mi aveva sempre amato solo di pomeriggio. Vivendo con me scoprì la sera, scoprì la notte, e le notti di luna piena una volta al mese quando diventavo un lupo, quando l’ironia diventava sarcasmo, quando la forza diventa violenza, quando le unghie diventavano artigli ed erano troppo lunghe perché lei le mangiasse tutte.
Dopo gli anni di sbandamento dopo l’espulsione dal liceo, avevo provato ad accettare il fatto di essere un licantropo. Ero anche andato da uno psicanalista che voleva mezzo milione a seduta: un vero vampiro! Poi avevo preso a dipingere, un po’ monocorde, ma con grande talento “Lune piene”. Un critico incompetente scrisse che ero un “macchiaiolo”. Mi offesi e lo morsi. Scrisse che ero un genio ed iniziai a vendere quadri. Scrissi anche un romanzo, la storia di un bambino peloso, di un altro effeminato e di un terzo grasso. Fu un successone. Lo lessero tutti tranne tre: Cinzia, Ciccio ed io. Loro per paura, io perché sapevo già come andava a finire.
Il successo mi allontanava da Isabella più della licantropia. Amare un licantropo è possibile, ma amare un licantropo megalomane… Taceva, ma il suo era un silenzio deluso, tradito. Quando capii che stava per lasciarmi le chiesi di darmi un’ultima opportunità. Le chiesi di trasferirsi con me in campagna, in una cittadina dove non mi conoscessero e dove lei potesse riprendere ad amare in silenzio il lupo che ero e che ero stato.
Tacque. Ma chi tace acconsente. Acconsentì ancora. Così facemmo. Fummo relativamente, silenziosamente felici, finché non iniziarono i delitti.

* Perché quando siamo giovani speriamo e ci immaginiamo di morire vecchissimi? Eppure tanta gente di ogni età muore ogni giorno intorno a noi. A lato. Di fianco. Dietro di noi. Così fingiamo di non vederli. Se morissero davanti a noi saremmo costretti ad ammettere di averli visti, ma la morte degli altri è sempre di sghimbescio e se la vediamo con la coda, Primo Delitto, dell’occhio, pensiamo che sia solo autosuggestione. La ragazza pensò “è autosuggestione” vedendo qualcosa che si muoveva quasi dietro di lei, qualcosa che camminava quasi dietro a lei, qualcosa che respirava quasi dietro a lei. Non poteva essere la morte. La morte è davanti, tuttalpiù ai bordi, mai dietro. Non poteva tantomeno essere la sua morte. Era ancora così giovane. Non aveva ancora visto tante cose, che so, due struzzi che si riproducono, un organo maschile, le cascate del Niagara. No, non poteva essere la sua morte. Doveva essere autosuggestione. Come quando la notte sentì strani rumori venire, forse, dallo sgabuzzino, dall’anticamera e, nooo… che paura… da sotto il tuo letto.
Ma perché qualcuno per ucciderti dovrebbe decidere di farlo da sotto il tuo letto. Dev’essere talmente scomodo! E poi, dai… morire vergine a 27 anni, pensa che figura con le (poche) amiche. Come spiegare loro, dall’obitorio, che avevi sempre aspettato l’uomo giusto ma che forse, ecco, non esisteva l’uomo giusto se eri alta un metro e novantasette e pesavi 150 chili. E quando sei fatta così non speri in un principe azzurro, ti va bene anche un gelataio purché sia in parte azzurro, purché abbia qualcosa di azzurro. Che so, gli occhi. E un gelataio le faceva la corte.
Non aveva gli occhi azzurri. Era basso, magro magro, con una testa a forma di banana sulla cui punta troneggiava un cespuglietto di capelli, una coroncina di peli. Era bello andare ogni sera in gelateria e sentirsi fare da lui complimenti innocui e non insinceri: “che bel vestito, che bella borsa”. 
Ed era stato terribile scoprire che il gelataio banana ti faceva quei complimenti per ridere alle tue (grosse) spalle, per sghignazzare sui tuoi rossori con gli altri clienti della gelateria, che sapevi già che ridevano di te. Loro. Loro sì. Ma non lui. E allora come allora avevi desiderato morire, fortemente voluto, che la cosa che camminava quasi dietro a te fosse veramente la tua morte. La ragazza si girò e vide la sua morte. Un po’ pelosa. Ma… un vero principe azzurro. *

Il punto di vista del licantropo.
La cittadina ci accolse bene. La mia licantropia passò di bocca in bocca come la lingua di una prostituta noleggiata a una festa di liceo. Ma non turbò. Anzi, la mia notorietà pittorica dipingeva d’eccentricità la mia licantropia. Venivo invitato a cena dalle famiglie facoltose e quindi con più posti a tavola…, i bambini mi volevano toccare e le madri li sgridavano, imbarazzate. Isabella taceva, come suo costume, a un altro capo di ogni tavola, infastidita, incicalita nel suo tenero, pensoso mutismo, dalle commensali che, rese più ardite dai beveraggi, si informavano con lei sulle mie prestazioni sessuali. L’atteggiamento nei miei confronti si trasformava, senza che ci fosse bisogno della luna piena, da cortese diffidenza in curiosità morbosamente solidale, sino in amicizia. Ero popolare e aristocratico a un tempo. Popolare come lo sono le leggende per il popolo, aristocratico perché solo gli aristocratici credono alle leggende del popolo.
Isabella non diceva mai niente. Me la dimenticavo lì, all’altro capo della tavola, con l’egoismo dell’emarginato di successo che ormai può, a suo piacere, stabilire nuovi margini e nuove, desuete, emarginazioni.
Quando mi ricordavo di averla dimenticata, assalito dai rimorsi mi dedicavo un secondo a lei, al suo silenzio offeso poi tornavo, lupus in fabula, l’attrazione della serata. Per me, un secondo era un secondo. Per lei l’eternità. Tra i commensali c’erano un medico calvo, un pubblicitario capellone e un gelataio con strani, pochi, capelli sul cocuzzolo di una testa a forma di banana. Parlai soprattutto con loro una certa sera perché furono gli unici ad estraniarsi da un argomento ghiotto e morboso come la morte di una ragazzona con molti problemi, avvenuta la notte prima. Forse anche Isabella si estraniò, ma lei lo faceva sempre arricchendo dei suoi pensieri una stanza piena di fumo.

* “Un gigante non può avere paura” pensò nano, come fa, dall’alto, controllando la situazione e ridimensionando col suo punto di vista ogni forma, ogni velleità, ogni esibizionismo, ad avere paura degli altri?
L’unica paura che può avere è che ci sia qualcuno più grande e più alto di lui. E senza qualcuno più alto di te, ti rimangono tutti i dubbi tuoi e le responsabilità nei confronti di quelli più bassi. Lui non aveva questo problema. Era più che basso, era un nano. Il mondo, Secondo Delitto, era più in alto coi suoi collassi, coi suoi tumori, lui, lì come un topo in una cartone animato, avrebbe sempre potuto nascondersi alle responsabilità. Sennonché, ecco, aveva incontrato una nana, con altri parenti nani, né più né meno figli di buona donna quelli più alti. Anzi, i suoi parenti acquisiti lo accusavano di essere un fallito. Di non provvedere a sufficienza nei confronti di sua moglie, di essere freddo, egoista, di non avere passioni. Lui aveva una passione: il basket. La vi ta è spesso ingiusta e alta come la figura che si era materializzata dietro di lui. Si girò e vide che la sua morte era alta. *

Il punto di vista del licantropo.
Dopo il secondo delitto la posizione nei miei confronti era percettibilmente mutata. Le madri non sgridavano più i bambini quando mi toccavano, semplicemente perché le madri non permettevano più che i bambini mi toccassero. Ero nella cittadina da solo due mesi e avevo già dei rim pianti. Nostalgia come se un mese e mezzo prima fossero stati i miei anni ruggenti. Il successo mi aveva illuso di essermi sbarazzato della “mia diversità” strumentalizzandola. In un primo tempo, due mesi prima, nessuno aveva raccontato barzellette sui licantropi in mia presenza. Un po’ perché non le sapevano, un po’ perché forse non ce n’erano. Ero arrivato, sempre sino a due mesi prima, a inventarmele io le barzellette sui licantropi, a giocare con la luna piena come fosse una palla sgonfia e illuminata.
I miei ospiti ridevano come quando gli omosessuali raccontano barzellette sugli omosessuali, e i carabinieri quelle sui carabinieri, tanto per far sapere, licantropi, omosessuali e carabinieri, che non sono loro i licantropi, gli omosessuali e i carabinieri di cui parlano nelle barzellette che raccontano. La gente mormorava come nei luoghi comuni sui paesi piccoli.
Erano brusii cattivi, tronfi di equazioni del tipo: licantropo = assassino, che le bocche passavano alle orecchie come saliva di maldicenza.
Per sciacquare il cerume della noia con una novità, un sospetto, una condanna a morte. Isabella leggeva negli occhi dei commensali gli sguardi feroci, posso dirlo, come lupi mannari. Ero nuovamente condannato, emarginato, perché se muore un agnello e tu sei l’unico lupo nei dintorni, la colpa la danno per forza a te. Gli unici a non condannarmi con gli sguardi erano il medico calvo, il pubblicitario capellone, il gelataio con la testa a forma di banana. Erano forse i miei unici amici, o erano forse gli unici altri a sapere cosa fosse un lupo. Giurai a Isa bella che ce ne saremmo andati. Più tardi. Ma per me, più tardi era più tardi. Per lei l’eternità.

*Di cosa ti devi preoccupare quando sono morti una gigantessa e un nano, tu che sei di statura media? E di intelligenza media, di ambizioni medie.
Come fai a temere l’imprevisto quando hai previsto che esiste solo il prevedibile. E allora cammini, certo della tua certezza, forte della tua non forza, sicuro della tua sicurezza che quando si parla di un altro non sei mai tu. Ma la paura non sai come ragioni. È un’altra. Non sei tu. Lei non è medio, normale, “insignificante”, come ti ha detto quella bionda al liceo. E se la morte si fosse accorta che hai un molare cariato?
Impossibile. La morte non è un dentista e poi i molari cariati non sono qualcosa di particolare che possa attirare la morte. Pensi disperatamente a qualcun altro coi molari cariati che conosci. Ma non ti viene in mente nessuno. Dio, che paura farseli otturare. Ma avere paura del dentista è normale, no? Una reazione che rientra nella media. Chi non ha paura del dentista, a parte un dentista? Invece morire deve essere eccezionale, non controllabile, fuori da ogni schema e previsione. Un eccesso certo. L’uomo si girò chiedendosi come sarebbe stata la sua morte. Fu una cosa media.*

Il punto di vista del licantropo.
La cittadina era ormai contro di me. Mi erano rimasti solo tre presenze di solidarietà, una calva, una coi capelli lunghi e una con la testa a banana.
E poi Isa.
Isabella che non chiedeva mai niente, ma che si aspettava mille risposte.
Isabella che come un cucciolo orfano sperava, era certa, che io fossi sua madre, suo padre, quello che gli altri chiamavano amore.
Nessuno ci invitava più a cena, neanche per l’aperitivo. E, Terzo Delitto, io regredivo. Tacevo ai suoi sguardi. Non c’era più dialogo. Non c’era mai stato. Ora non c’era neanche più monologo. Il mio. C’eravamo solo io e lei.
E altri tre con acconciature differenti che ci ruotavano malinconicamente attorno come cavalli di legno in una giostra.
Quella sera ci sarebbe stata la quarta luna piena. La cittadina, prima di linciarmi, attendeva la mia quarta vittima. Forse Isabella aveva finito il suo quarto martini quando vennero a bussare alla porta. Ci attendevamo qualcuno come il calvo, o il capellone, o banana. Ma non erano loro. Era una folla esultante, capeggiata da un omone che mi abbracciò.
«Siamo contenti di averla con noi e ci scusiamo per gli isterismi, per le fobie di cui si sarà accorto. Abbiamo sempre considerato un privilegio averla con noi in questa piccola ma florida comunità.»
Doveva essere un uomo politico.
«I “periti” hanno accertato, ehm, ehm… la sua totale estraneità al caso.
Nessuna vittima è stata uccisa durante i giorni di luna piena. Qualcuno in effetti ce lo aveva già fatto notare, ma sa, cosa vuole, sono bastate le chiacchiere di pochi ignoranti per screditare e lei, e il nostro comportamento nei suoi confronti. Noi amiamo i licantropi. I licantropi, e lei specialmente, se me lo consente, sono nostri amici. Da sempre.» Lo guardai fintamente truce e si corresse.
«Be’… se non proprio da sempre, almeno da oggi.»
«E come mai siete così allegri se c’è un assassino in giro?»
«Perché ormai sappiamo chi è stato. O almeno quasi. Abbiamo dei sospetti sul dottore, sa, quello calvo, e sul pubblicitario, uno scansafatiche, ha presente quello coi capelli lunghi? E sul gelataio, sa, quel mingherlino con la testa che assomiglia a una fragola…»
«Banana» corressi.
«Ah già, banana. Be’ Banana, voglio dire il gelataio, aveva avuto una relazione con la prima vittima. Nessuno dei tre aveva un alibi durante le notti degli omicidi. E tutti e tre sono irreperibili stanotte.»
«Non mi sembra molto…» obiettai.
«Ma è abbastanza per noi. Chi si contenta gode.»
«E il lupo perde il pelo ma non il vizio.»
«Sì… ma i cocci sono suoi» ribadì strizzandomi l’occhio. Entrarono tutti.
Lui e il paese rimasero finché la luna piena non si eclissò, come tutti i liquori del mio mobile bar. Li buttai fuori che era rimasta solo una goccia di gin e di martini con cui Isabella, che era astemia, si preparò il suo quinto martini cocktail.
Mi guardò e un suo lacrimone colò sul martini a sostituire l’oliva, visto che le olive se le erano sbafate tutti i nostri ospiti. Non l’avevo mai amata come in quel momento.
«Sai tutto, eh, Isabella. Hai capito che l’assassino non è un licantropo, visto che non uccide quando c’è la luna piena. Hai capito che l’assassino non è un licantropo. L’assassino è un uomo. Da lupo sono innocuo. È quando mi trasformo in uomo che divento un… uomo. Un uomo. Un essere che tocca, sugli autobus, i sederi delle ragazze e poi scrive lettere indignate, di protesta, ai giornali perché ci sono in giro ragazze con la minigonna.
Che è contro la morale.
Un uomo, un essere che crede che al mondo, tutti al mondo, facciano tutto solo per denaro, che tutte le donne siano puttane a parte sua madre e sua sorella.
Un uomo, quello che insidia la cognata dodicenne, e poi invoca la pena di morte per chi ha insidiato una cognata dodicenne.
Un uomo, un essere che confonde per un minuto il fanatismo con il coraggio e, solo col coraggio di altri diventa eroe in un secondo. Un uomo, uno che crede di essere solo quando siamo in cinque miliardi, uno che fa i concorsi a premi, che spedisce le cartoline che trova nei detersivi, uno che guarda la televisione tutte le sere e dipinge solo la domenica. Per fortuna.
Ecco Isa. Io, quando divento un uomo uccido. Ho ucciso tre persone.»
Tacqui io. Per la prima volta. Isabella scolò il martini, trangugiò l’oliva inesistente e per la prima volta da quando l’avevo conosciuta, parlò. Parlò per ore.

Nessun commento:

Posta un commento