Medicina non è solo un sostantivo. E’ anche il nome di un paese della Bassa, in provincia di Bologna, dove c’è una farmacia, che vende medicine. Medicine normali, come quelle di Budrio, a undici chilometri.
Ma durante la seconda guerra mondiale le specialità scarseggiavano, e si facevano tanti galenici, farmaci creati nel retrobottega della farmacia.
Per confezionarli ci voleva un farmacista esperto, che a Medicina, a Budrio, e non solo, mancava. La patria aveva bisogno di lui altrove.
La mia mamma si chiamava Isa e aveva una bicicletta. Era nata nel ’15, e viveva nel centro di Bologna, non lontano dalla stazione più bombardata d’Italia, perché era il nodo ferroviario che collegava il nord con il resto del Paese.
E lei, quasi ogni giorno, attraversava proprio la zona della stazione pedalando verso Medicina, dove tanta povera gente l’aspettava, per curarsi e curare le proprie famiglie. Così Isa Cioffi cercava, si arrovellava per sostituire gli elementi che non si trovavano e suppliva alla carenza di medici, oltre che di farmacisti, ascoltando, interpretando e fornendo giocoforza anche diagnosi, prognosi e terapie.
Mio nonno era medico, professore universitario, e aveva sperato che i suoi quattro figli seguissero la sua strada. Due divennero avvocati, uno rimase anni prigioniero degli inglesi e degli australiani, e, quando la guerra finì, tornò devastato da questa esperienza e non riprese gli studi di medicina che aveva intrapreso anni prima. Rimaneva Isa, che aveva iniziato medicina forse consigliata dal padre, ma poi non se la sentì di continuare, passò a farmacia e si laureò. In facoltà, a Bologna, due sole donne e centotrenta maschi.
Ecco perché , dopo aver usato spatole, mortaio e pestello a Medicina per ore e ore, saliva in bicicletta e, sperando di non essere mitragliata o bombardata da aerei nemici, pedalava verso Budrio, dove ricominciava lo stesso servizio.
In certi periodi rimaneva qualche giorno nella Bassa, in altri doveva tornare a Bologna, dove lavorava in altre due farmacie.
Io vado fiero di mio padre, integerrimo funzionario dello Stato e genitore altruista e affettuoso. Ma quando ascolto le lotte delle donne per una parità di diritti reale e non di facciata ricordo di essere cresciuto con l’immagine di lei mentre sostituiva quattro uomini che difendevano la patria, e questo voleva, vuol dire che una donna è uomo quando serve, mentre raramente avviene il contrario, in una società che urla diritti, ma non fa abbastanza per applicarli.
La mamma aveva anche studiato pianoforte, e, quando avevo quattro anni, iniziò a insegnarmi a suonare. Ma poi cercò un’insegnante che continuasse fino, chissà, forse al diploma. E conobbe Angiolina Berselli, come lei bolognese, come lei trapiantata a Modena, come lei nostalgica della sua pur vicina città.
Io avevo cinque anni, lei cinque fratelli e sorelle. I due maschi erano medici, una femmina aveva sposato un benestante, una era casalinga per sé e gli altri tre, fra i quali, appunto, Angiolina.
Tutti insieme pesavano quanto una media cilindrata, e già questo non depone a favore di un look da concertista.
Il fatto è che la signorina Berselli si era diplomata in pianoforte non avendo né talento, né orecchio musicale. Ma ai suoi tempi tante famiglie borghesi facevano studiare i figli maschi scegliendo l’indirizzo con attenzione, mentre le femmine erano destinate a discipline spesso inutili, avulse da ipotesi di sbocchi lavorativi e, soprattutto, senza che le loro inclinazioni fossero sondate: francese valeva ricamo, arpa o pittura.
Angiolina sapeva che il jazz è il nemico e che quel rivolto si fa con le dita tre e cinque, non due e quattro.
Non capii mai come le sue dita enormi potessero premere tasti singoli senza coinvolgere quelli prossimi. Ma lei ci riusciva. Quando necessario mi mostrava passaggi del Piccolo Montanaro o , più avanti, di un’Invenzione a due voci di Bach.
Mai una nota sbagliata, ma la musica che usciva dalle sue mani arrivava solo alle orecchie, dove trovava sbarrate le strade per il cuore e per l’anima.
La signorina Berselli era sensibile, ma faceva quello che le avevano insegnato quando non era nemmeno in discussione l’idea di contrastare qualunque decisione dei genitori. Compresa quella di imporre la musica a chi non ha il minimo talento.
Tanti anni sono passati da quei tempi, ma mi chiedo quante donne, ancora oggi, siano sacrificate alle logiche familiari e quante reggano il mondo come faceva Atlante , ricevendo elogi e rassicurazioni solo in quell’otto marzo che l’ipocrisia sociale ha trasformato nel giorno più odiato dalla maggior parte di loro.
Per le infinite eroine quotidiane sogno silenzioso e vero rispetto invece di vacue celebrazioni.
E vorrei infine che l’aria non vibrasse più per l’oscillazione di una corda, ma solo per le palpitazioni di un’artista.
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