sabato 30 settembre 2023

Massimo Bernardi: I fantasmi della fabbrica alta


QUEL RAMO DEL LAGO
(Appunti provvisori per un eventuale pubblico)

Sono sempre stato attratto dai luoghi abbandonati, che fossero vecchi ruderi del passato o edifici nuovi ancora in costruzione. Da ragazzino mi avventuravo con la bici da cross nelle zone proibite dei cantieri, agli estremi confini della periferia di Bologna, dove stavano sorgendo come avamposti urbani in mezzo ai campi le nuove palazzine del piano PEEP. Erano terre di nessuno, dove finiva la città. Ma finiva davvero, diversamente da oggi che i villini bifamiliari, i condomini, i nuovi svincoli, le nuove rotonde, gli impianti sportivi, le stazioni ecologiche, i distributori di benzina, i capannoni, gli ipermercati, le palestre, le concessionarie penetrano nel territorio circostante senza soluzione di continuità, tanto che non è mai chiaro dove finisca la città e dove comincia la campagna. Mi davo delle belle sbucciate sui gomiti e sulle ginocchia con quella scassatissima bici di seconda mano, eredità di mio fratello; altro che le MTB superaccessoriate di oggi. Tornavo a casa con la pelle graffiata e sanguinante, e mia madre puntualmente si metteva a snocciolare il suo rosario di santi e madonne. Di giri in bici ne ho fatti tanti, con gli amici di allora: esplorazioni e avventure di ogni genere, mentre lentamente - quasi non ce ne rendevamo conto - crescevano quei tristi palazzi a cinque, sette o undici piani. E poi in un batter d’occhio, appena fuori dalla pista da cross, apparve il primo tronco della tangenziale; apparvero le prime rotonde al posto dei semafori; e via di questo passo. La città si trasformava sotto i nostri occhi mentre a noi, da un giorno all’altro, ci spuntavano i peli sulle gambe e ci cambiava la voce. Tutto ciò per dire di come li annusassi fin da piccolo, gli spazi urbani. Avevo questo interesse, o predilezione, o per meglio dire attrazione fatale per tutto quello che era edile, che era forma architettonica o infrastruttura inserita nella città. Sia che fosse un bilocale con giardino sia che fosse un palazzo popolare, una piscina comunale, una scuola, un cinema, un tempio monumentale o una stazione dei treni. Ma anche binari, tralicci dell’alta tensione, pali della luce, semafori, segnali stradali, cartelloni pubblicitari, parcheggi, piazzole di sosta, monumenti ai caduti, chioschi di edicole. Insomma, tutto. 

E, in modo particolare, le fabbriche.
 
Quelle nuove, certamente, che spuntavano come funghi nelle zone periferiche. Ma ancora di più, anzi, molto di più quelle antiche, quelle che cadevano a pezzi e magari già allora erano sepolte, nascoste sotto metri di erbacce e di piante infestanti, cresciute nel frattempo come una giungla urbana dopo decenni di abbandono.

Avevo questa insolita attrazione per le cose morte, finite, dismesse, e ce l’ho tuttora. Fabbriche, mulini, magazzini, frantoi, segherie, filatoi, setifici, lanifici, caseifici, capannoni a shed, ciminiere e quant’altro. Oggi, che non sono più un ragazzino che si sbuccia le ginocchia in MTB, mi documento sui libri e sul web; e vado a cercare questi siti anche lontano da casa, mi sposto in macchina e faccio i miei sopralluoghi. Oltrepasso cancelli arrugginiti, entro nei corpi di fabbrica abbandonati, salgo le scale di cemento, cammino tra le sterpaglie, prendo appunti su un taccuino, scatto immagini che poi posterò su Instagram e su Facebook come altrettanti reportage fotografici. Ma, in fondo, sono solo uno dei tanti. Il popolo degli appassionati di ferraglia arrugginita - i cosiddetti urban explorers, o più semplicemente urbexer - è in vertiginoso aumento in tutto il mondo, a giudicare dai like che ricevo e dai numerosi hashtag sul tema, che mi rimandano a centinaia di migliaia di altre foto. 

Se tornassi indietro ai miei vent’anni, non avrei dubbi: sceglierei di imboccare quel ramo. Non quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti eccetera eccetera, ma quello che porta dritto all’archeologia industriale. Partendo magari dalla Facoltà di Lettere o Architettura, con specializzazione in Beni Culturali e tutti gli annessi e connessi. Così da dare un senso e un valore a quella vocazione nata per strada, ai tempi in cui vagabondavo nei cantieri in bici da cross con la banda degli amici, e mi sbucciavo le ginocchia.

Ma, visto che indietro non si torna, non mi resta che inventare un personaggio in cui incarnarmi, e con lui una storia che per me sia in qualche modo catartica. Mettiamo che costui viva a Casalecchio di Reno, e che abbia suppergiù venticinque anni. Mettiamo che sia un cazzone fuori corso con il pallino della fotografia, che più che studiare preferisce divertirsi e perdere tempo sui social. Mancano solo quattro mesi al giorno della sua laurea in Beni Culturali, ma la tesi giace ancora incompiuta sul tavolo della sua camera, a centottanta chilometri dal posto dove si svolge questa storia. Si è arenato su certi cavilli tecnici, perdendo il senso complessivo di quello che stava scrivendo. I capitoli che ha stampato sono tanti fogli A4, ammucchiati in disordine su un tavolaccio di legno ereditato dal nonno falegname. Sudore e fatica del nonno non trovano corrispondenza in quello sfaticato di suo nipote che, anziché dedicarsi anima e corpo ai suoi studi, si trastulla in mille inutili distrazioni. Il massimo del suo impegno accademico è stato partire per una “gita culturale” sul luogo della sua tesi; per vedere di rimediare qualche spunto, se non proprio la fatidica ispirazione. 

E allora eccolo qua, lo studente cazzone fuori corso, in missione speciale nella città di Schio. La “Manchester d’Italia”, come era stata ribattezzata nell’Ottocento per la sua operosità e le sue tante ciminiere fumanti, innalzate verso il cielo. Gli appare dimesso e decadente, quello che fu un tempo il più grande polo di produzione laniera d’Italia, se non dell’intera Europa. È arrivato qui da Casalecchio per trovare risposte alle sue domande irrisolte, soluzioni ai cavilli tecnici che ostacolano la sua tesi. E soprattutto per vederla dal vivo quella grandiosa astronave dell’industria: l’opificio di proporzioni mastodontiche che ai tempi d’oro, nei visitatori, suscitava fascino e ammirazione. E che oggi giace tristemente silenzioso e vuoto, nel più totale abbandono. 

La Fabbrica Alta dell’ex Lanificio Rossi, a Schio, è il tema centrale della sua ricerca. Era quindi doveroso che venisse fin qui. Perché un conto è informarsi e cercare documenti sul web restando in casa propria, o tutt’al più in biblioteca, un altro conto è toccare con mano la realtà.

Dall’archeologia industriale al turismo delle fabbriche. Il caso di Schio: è questo il titolo della sua tesi in alto mare, da concludere entro quattro mesi. Riuscirà il nostro eroe nella difficile impresa?

Questo, naturalmente, è solo il punto di partenza.

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