venerdì 15 agosto 2025

Robert Grant: Una ragazzina, la notte di Halloween



— Frankenstein?
— Troppo comune.
— Dracula?
— Non ha un aspetto abbastanza mostruoso.
— Il Fantasma dell’Opera?
— Be’...
— Un lupo mannaro?
— Questa sì che è un’idea!
Era deciso, allora. Tommy sarebbe stato un licantropo, una creatura pelosa dalle lunghe zanne che sgusciava silenziosamente nelle tenebre, con gli artigli che brillavano nella luce del plenilunio. Marcie aveva già stabilito di essere una mummia.
Sedevano nel portico sul retro della casa di Marcie, i libri di scuola buttati da una parte, gli occhi inchiodati su una rivista intitolata Mostri famosi di Cinelandia.
— Bene, sono contenta che ti sia deciso, — disse Marcie. — Era ora, direi. Non ci resta molto tempo, ed è semplicemente la cosa più importante di tutte.
Tommy agitò una mano per scacciare dai suoi capelli biondi una mosca che ronzava pigramente. — Hai finito i teschi?
— Certo, salvo le chiazze sgocciolanti di sangue. Possiamo dipingerle insieme.
Mentre parlavano, facendo progetti, la grande, meravigliosa sera di paura sembrava vicinissima, appena ad un soffio da loro. Pochi, brevi giorni che diventavano sempre più corti, incalzandosi e precipitandosi, così che la Sera, incombeva, tanto vicina da non lasciarti lo spazio di un respiro. La celebrazione nera e arancione, la vigilia delle streghe che ballano e dei teschi che gemono, delle cose che ululano o strisciano silenziosamente. La notte in cui la tenebra prende forma e si aggira sulla terra, avvolgendoti: nel suo manto di malinconia e invitandoti alla grande festa dell’eterna mezzanotte.
Tommy e Marcie l’attendevano con impazienza febbrile, più della vigilia di Natale, perché li legava in un modo del tutto particolare. Era un festività diversa: non luci scintillanti e sorrisi radiosi, ma oscura, misteriosa e strana, allegra in un suo modo orrido... e anche loro, Tommy e Marcie, erano diversi. Diversi da tutti gli altri ragazzi, non per scelta, ma in maniera naturale e irrevocabile, nell’essenza dei loro sogni.
L’amicizia tra i due era recente, poiché le cose avvengono al momento opportuno. La famiglia di Marcie si era trasferita in quella piccola città poco più di un anno prima e Tommy, che non si era mai interessato granché alle ragazze, non aveva prestato un’attenzione particolare a quella nuova alunna dai capelli ramati, i cui occhi offrivano amicizia, ma subito fuggivano il tuo sguardo, come un cerbiatto nella foresta.
Poi, a scuola, avevano dovuto fare una relazione orale su un racconto e, quando la scelta di Tommy cadde su La sepolta viva e quella di Marcie su Quel maledetto affare, il legame fu stabilito. Al termine della lezione Tommy si era trovato a domandarle: — Ti piace questo genere di racconti?
Era andata così. Un interesse comune... no, un sentimento, un impellente bisogno del fantastico, del demoniaco, delle ombre che si appiattano nel buio. Senza badare alle beffe dei compagni di classe («Ehi, guardate gli innamorati!»), stavano sempre insieme. Quando un nuovo film dell’orrore arrivava in città, di sabato pomeriggio solevano sedere fianco a fianco nel buio odoroso di zucchero candito, e insieme sognavano fino all’ossessione il mondo fantastico dei giornaletti d’avventura. Ma il loro luogo preferito, il loro regno, era la silenziosa navata della biblioteca, dove si avventurarono, intrepidi, nelle oscure regioni dei libri per adulti. Perché là c’erano Frankenstein, Dracula, Il dottor Jekyll e Mister Hyde, e i loro fratelli.
Quando non disseppellivano i tesori infernali che la cittadina poteva offrire, si rifugiavano nel loro sancta sanctorum, dietro un capanno di legno nel cortile della casa di Tommy. In un angolino nascosto, lontano dagli occhi della gente comune, si godevano il loro macabro tesoro e aprivano la loro anima, riversando entrambi il proprio incantesimo, quella comune meravigliosa stranezza che era soltanto loro, mentre il resto del mondo lanciava palloni, dava calci a barattoli e se ne andava per la sua grigia strada.
— Ragazzi, che idiozia quella scena del vampiro che vien fuori alla luce del giorno!
— Proprio vero!
E: — Però Il richiamo di Cthulhu è più bello, perché devi immaginare proprio com’è il mostro. È più misterioso in questo modo.
— Sì, ma Il bisbiglio nel buio finisce meglio.
E ancora:
— Accidenti, faremo un grosso bottino quest’anno! Lo scorso Halloween il mio sacco traboccava quasi di caramelle, tavolette di cioccolata, gomma da masticare, liquerizia e...
— Puah, la liquerizia! Io la butto sempre via.
— Marcie! Vuoi scherzare? Be’, quest’anno potrai buttarla nel mio sacco.
E così via. I pomeriggi volavano su ali di pipistrello, sospinti dall’ululante vento dell’immaginazione che li trasportava al di sopra della monotona distesa di case bianche, di scuole verdi e di prati piatti e senza fine.
Il loro legame era diventato ora più intenso, più forte via via che si avvicinava la Notte delle Notti. C’erano tante cose da costruire, da cercare e da raccogliere, così che la splendida cerimonia del buio ridente fosse perfetta in ogni particolare.
Con forbici, matite colorate e pennelli, Marcie evocò creature splendide nel loro orrore che ben presto avrebbero brillato alle loro finestre. Tommy raccolse pezzi di legno, stoffa e cartone, trasformandoli in fantasmi, streghe e demoni terrificanti che avrebbero montato la guardia sotto i portici delle loro case.
Insieme tenevano d’occhio l’emporio più a buon mercato, dove cominciavano ad apparire i talismani di rito: maschere dalle espressioni malvagie congelate nella plastica; costumi tagliati nel tessuto stesso della notte; decorazioni tradizionali, come zucche intagliate di plastica e candele a forma di strega.
Ma, soprattutto, mescolavano i loro sogni sulla notte imminente, mettendo insieme le fantasie, pregustando come sarebbe stato: le ombre guizzanti tutt’intorno, mentre andavano in giro, muovendosi in nuove, orribili forme nell’oscurità brulicante di altri come loro emersi da antichi regni. A ogni casa, a ogni loggia, a ogni porta si sarebbero precipitati, esigendo il loro bottino, il sacrificio, l’offerta che sola poteva proteggere dal male gli abitanti della casa.
Parlavano dietro il capanno finché il sole minacciava di spegnersi in un’ultima vampa senza calore, che giocava purpurea tra le foglie secche. Allora Marcie sospirava, alzandosi, e se ne andava.
— Ci vediamo.
— Certo.
Dopo che la sua compagna di fede e di smania era sparita, Tommy non si muoveva, ma guardava il sangue dorato dell’autunno diventare sempre più pallido e freddo, trastullandosi ancora un po’ coi loro sogni comuni prima di rincasare.
Una mattina, Marcie non si incontrò con Tommy davanti alla scuola, come sempre. Non era in classe al momento dell’appello e Tommy si preoccupò per tutto il giorno; Marcie stava bene il pomeriggio prima e quel giorno dovevano andare al negozio a vedere le zucche.
Dopo la scuola, filò diritto a casa dell’amica. Sua madre venne alla porta e disse che Marcie si era sentita male durante la notte. Le spiaceva, aggiunse, ma Tommy non poteva vederla ora. Le spiaceva, ma c’era una tale agitazione in casa che non aveva tempo di dirgli nient’altro. Le spiaceva...
Tornando a casa Tommy notò vagamente, anche se un po’ intontito, che era una bella giornata. L’aria era straordinariamente calda, eco fugace di un’estate che se n’era andata chissà dove. Però si sentiva che la stagione non era più giovane. Di là degli alberi, di là dell’orizzonte, qualcosa di freddo e grigio stava acquattato in attesa.
Trascorse una settimana e, a scuola, il banco di Marcie era sempre vuoto. Tommy non aveva ancora potuto vederla. Tutto ciò che sapeva, tutto ciò che riusciva a carpire dalle conversazioni dei suoi genitori, che riusciva a cogliere, e dai discorsi che gli facevano per confortarlo, così privi di notizie da far impazzire, era che Marcie non stava affatto meglio.
Tommy passava svogliatamente da un giorno all’altro, cercando di non immaginare. Sedeva stordito in classe; tornava per abitudine nei luoghi familiari, senza pensare granché a dove si trovava. Per lo più stava dietro il capanno. Non sapeva bene da cosa si nascondesse, ma era qualcosa al di là del suo controllo, qualcosa di terribile, però più triste che cattivo, forse.
Cercava di non immaginare.
Nove giorni dopo la prima assenza di Marcie, quando Tommy tornò a casa da scuola i suoi genitori gli chiesero con calma di andare nel soggiorno e di sedersi.
Tommy entrò nella stanza per primo, mentre uno strano, immenso vuoto si apriva in lui, un vuoto che era necessario perché se lasciavi entrare qualcosa, se pensavi o sentivi, correvi un grande pericolo. Avresti aperto la strada alla coscienza di un fatto preciso, tanto terribile quanto definitivo.
Ma alle parole dei suoi genitori, anche se scelte con cura per attenuare il colpo, era impossibile negare l’accesso. Quindi esse entrarono, dicendogli quello che il suo cuore sapeva già, e con esse si diffuse una fredda, vorticosa, crescente tenebra che era troppo grande e pervasiva. La sua inesorabile pienezza faceva male e premeva, premeva, finché traboccò in profondi singhiozzi laceranti attraverso i quali lo trafisse un pensiero: non ho potuto neanche vederla.
Dopo il primo accesso di dolore, Tommy alleviò l’ansia dei genitori con la sua compostezza, la sua apparente rassegnazione. Nei giorni che seguirono fu insolitamente quieto, ma non cupo, non depresso. Andava a scuola, tornava a casa, faceva i suoi compiti, passeggiava, leggeva e guardava la televisione. Quando un amico lo invitava a casa sua, o i genitori gli proponevano di andare da qualche parte, appariva disinteressato, ma non si trattava d’un morboso ritrarsi nella propria infelicità privata. Tommy non era mai stato un ragazzo socievole ed estroverso.
Dunque, quando arrivò Halloween, tutti coloro che l’avevano osservato ansiosamente, cercando i segni di un lutto prolungato, si erano convinti che Tommy aveva preso bene la cosa, adattandovisi in un tempo brevissimo.
Tommy non considerò nemmeno per un attimo l’idea di restare in casa quella sera. Se mai, era ancora più deciso ad uscire; per lui era una specie di dovere, una commemorazione, addirittura un tributo. Non si aspettava di divertirsi. La gioia, l’esaltazione tanto attesa, non ci sarebbe stata. Inutile cercarla nel rituale, perché era stata frantumata e spazzata via, in qualche luogo oscuro e irraggiungibile. Ma doveva andare.
Da solo. I suoi genitori gli suggerirono di accompagnarsi ad alcuni amici, ma Tommy respinse gentilmente il consiglio. Bisognava che fosse solo, come un gigantesco gatto nero, nella notte che egli e Marcie avrebbero dovuto condividere. Questa gioia gli era stata negata, ma trovarsi in mezzo alle risate di ragazzi estranei, fingendo di essere uno di loro, sarebbe stato peggio.
Così se ne andò nella notte, un lupo mannaro dal muso di plastica che portava un sacchetto vuoto.
Ed eccolo nello scuro labirinto autunnale di strade tetre, di prati ricoperti di foglie, portici flebilmente illuminati, dove la porta si apriva e qualcuno faceva un garbato commento sul tuo costume, allungando poi una mano dalla quale oggetti indistinti cadevano nel sacchetto. Una casa dopo l’altra, una strada spettrale dopo l’altra, coi lampioni agli angoli che aggiungevano cerchi di luna in cielo. E tutt’intorno rumori: risate poco più avanti, passi precipitosi dall’altra parte della strada, voci soffocate che andavano e venivano, voci elusive come la luce delle lucciole.
Non c’era spazio sotto la maschera; il respiro gli tornava sul volto, la sua fronte era umida. Tommy procedeva a passo regolare, metodicamente. Senza correre, senza bruciare la notte, il rituale nero e arancione di casa in casa, una lenta figura solitaria: bussava alle porte quasi con reticenza, pronunciava gentilmente la formula di tre parole e con altrettanto garbo ringraziava quegli alti estranei, prima di tornare nel buio col suo sacco sempre più pesante.
Il suo cammino deviò dalle strade familiari, che ora gli apparivano strane, in zone nuove per lui. Case anonime abitate da persone senza nome, con facce e voci indistinguibili, ognuna delle quali aumentava il bottino di Tommy. Era la sua città quella? Nella grande notte senza tempo avrebbe potuto essere dovunque, aggirarsi sperduto fra strade d’incubo e vicoli che non conducevano da nessuna parte. Ma Tommy, nel suo caldo bozzolo da mostro, non se ne curava, non pensava, continuava semplicemente ad andare perché... perché doveva.
A un certo punto si rese conto d’essersi fermato. Non c’erano più case intorno a lui. Era davanti a un muro che svaniva nel buio da entrambi i lati. L’unico suono era un fruscio lieve, come di fronde smosse dal vento.
Nel muro c’era un alto cancello di ferro e, prima di rendersi conto del perché lo faceva, Tommy aveva insinuato il suo corpo sottile tra due sbarre e adesso era solo, spaventosamente solo, al limite d’una distesa erbosa apparentemente sconfinata. Qua e là si profilavano forme d’ombra, alberi, cespugli ben potati, e c’erano lapidi, molte lapidi d’ogni forma e dimensione.
Sapendo dove si trovava e che a portarvelo era stato qualcosa di più forte e profondo della volontà cosciente, Tommy camminò tra le file di tombe, sopra un intrico di ombre e livida luce lunare.
E all’improvviso ecco la piccola lapide sconsolata e fedele, attenderlo nel silenzio perlaceo.
Tommy si sedette per terra, col suo sacco pieno in grembo, e si tolse la maschera.
— Sono uscito, — disse. — Sapevo che tu avresti voluto così. Sono un lupo mannaro, come avevamo deciso.
Deglutì, giocherellando con l’elastico della maschera. — È stato bello, credo. C’erano un sacco di ragazzi fuori, ma non ho visto nessuno di nostra conoscenza. Certo, è difficile dirlo, quando sono in maschera.
Si adagiò su un fianco, posando il sacco accanto a sé. Da qualche parte, in lontananza, la brezza e il fogliame producevano un fruscio secco.
— Ho raccolto moltissima roba, però non ho ancora guardato. La signora Edwards mi ha dato del pop-corn, come sempre.
Le ombre che lo attorniavano parevano respirare dolcemente, senza rumore, nel vuoto soprastante. Tommy cercò altre parole, ma in lui c’era soltanto un immenso struggimento. Il senso di vuoto, di incompletezza, che aveva represso così a lungo e disperatamente, lo attirò nel suo abisso.
— Marcie, non è stato bello. È stato orribile. Non mi sono divertito, non ho provato niente perché tu non eri con me, tu eri qui con... con...
Come una candela in una zucca intagliata, qualcosa si accese dentro di lui, qualcosa che somigliava ad una rivelazione. Tommy credeva d’essere uscito nella sera di Halloween per Marcie, d’essersi lanciato per lei nella folle danza delle streghe e d’aver raccolto la terrificante messe dell’ottobre perché la sua amica non poteva farlo.
Ma ora sapeva che era stata Marcie ad avventurarsi nella notte per lui. Marcie l’aveva preceduto nel cuore segreto dei dodici rintocchi. Ella ne faceva parte adesso, ella era Halloween in un modo ancora negato a Tommy, con la sua maschera di plastica comperata all’emporio.
E finalmente vennero le lacrime. Non lacrime di lutto, lacrime d’ottobre che cadevano con la stessa naturalezza e necessità delle foglie. Gocce calde che uno strano vento asciugò mentre Tommy deponeva il suo sacco accanto alla piccola lapide.
— Grazie, Marcie, — mormorò. Poi si voltò e se ne andò per dove era venuto, attraverso il cancello e verso la città, la sua casa, il suo letto.
Il mattino dopo Tommy si svegliò a un tentativo di sole di una mattina d’autunno e ad uno strano profumo. In realtà, erano due odori: uno malinconico, di terra umida, un altro allegro, invitante, che gli ricordava qualcosa di scuro e di dolce.
Quando i suoi occhi si liberarono completamente dal sonno, notò, con un accenno di sorriso, i tre bastoncini neri disposti con cura accanto al suo guanciale.
— Me n’ero dimenticato, — mormorò. — Mi ero dimenticato che non ti piaceva la liquerizia.

 

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