Lo stava osservando da alcuni minuti, forse, perché quando Rog alzò gli occhi dalla tavola da disegno e guardò a destra lo vide là, oltre la finestra. Sembrava grigio nella luce che entrava dalla vetrata dello studio. Rog Fillbaker si appoggiò lentamente all’indietro, gli occhi sul grosso cane fermo là all’esterno. Ripulì il pennino con lo straccio appeso all’estremità del tavolo da disegno, chiuse la bottiglia dell’inchiostro. Il grosso danese abbassò la testa e il pelo gli si rizzò sul largo dorso.
Rog scostò lo sgabello e si alzò. — Va’ via, — disse.
Il cagnone abbassò maggiormente la testa, mostrando le zanne. Tirava vento attraverso lo Stretto di Long Island e alcune foglie secche turbinavano sopra la schiena arcuata dell’animale.
Rog batté col pugno sulla vetrata. — Su, vattene. Torna dal tuo padrone.
Il grosso danese ringhiò e cominciò ad abbaiare, con un latrato aspro e rimbombante. Intanto, non smetteva di fissare Rog.
— Questa storia deve finire, — disse Rog. — Sono già in ritardo rispetto al termine di consegna. Vattene, smettila di darmi fastidio! — Attraversò rapidamente il pavimento rivestito da una stuoia e aprì la portafinestra che guardava verso il mare. — Va’ via, capito? Andiamo, qui non è permesso l’ingresso ai cani.
Il vento marino investì Rog, facendolo rabbrividire. Gli alberi stormivano, tra una pioggia di foglie morte. Ora Rog non sentiva più il cane. Guardò le luci di Bridgeport, al di là dello Stretto, ascoltò il suono della risacca un centinaio di metri sotto di lui. Distrattamente, allacciò gli ultimi due bottoni del giaccone di lana verde che indossava per lavorare.
Il cane era scomparso quando Rog fece il giro del cottage di tre stanze che gli serviva da studio. Rog aguzzò la vista, scrutando gli alberi che cominciavano qualche decina di metri più in là e si stendevano per diversi acri. Non riusciva più né a vedere il cane né a sentirlo. Si fermò all’esterno della finestra e guardò dentro la stanza, verso il tavolo da lavoro e il foglio da disegno che vi stava appuntato sopra. Il disegno rappresentava un grosso cane danese.
Il dottor Zansky si rilassò un poco, dietro la sua scrivania, e si versò nel palmo un po’ di lozione per le mani, massaggiandosi poi le lunghe dita screpolate dal vento. — Spesso penso a quanto si debba star meglio in California, — osservò.
— Sì, ma... e i miei problemi? — domandò Rog dalla poltrona di cuoio nero che stava dall’altro lato della scrivania. — Da un certo tempo, finiamo sempre per metterci a parlare dei vostri.
Il dottor Zansky versò ancora un po’ di crema liquida nel palmo della sinistra. — Siete preoccupato, Rog?
— Non lo so. — Rog fissava le veneziane chiuse dietro la testa reclinata dello psichiatra. — Sono tormentato dall’idea di non riuscire a rispettare i termini di consegna.
Finito di massaggiare le palme, il dottor Zansky cominciò a lisciare il dorso.
— Perché, vedete, — continuò Rog, — si tratta di una grossa responsabilità: disegnare il personaggio pubblicitario più riuscito di tutto il paese. Blue appare su seicento giornali. E, nell’ultimo anno, si sono aggiunti una quantità di prodotti derivati.
— Dovreste assumere un assistente.
— No, preferisco che nessun altro tocchi Blue. A certi disegnatori non importa. A me sì. No, non è del troppo lavoro che mi lamento: è la cosa che mi piace di più, disegnare. Abbiamo appena venduto i diritti di Blue alla TV. Ora, a Hollywood, penseranno a preparare i cartoni animati. Io non devo fare altro che impostare i diversi soggetti. No, no, anzi, disegnare mi diverte.
— Siete felice, allora?
— Be’, no. Non lo so. — Si posò la mano destra sul ginocchio. — Probabilmente siete preoccupato per quelle pillole che presi due anni fa, quand’ero veramente depresso per la tensione alla quale mi ero assoggettato. No, non provo più impulsi di quel genere, ormai.
— Bene, — disse il dottor Zansky.
— Vedete, Dorothy Ann non è una persona con la quale io possa parlare molto del disegno. Di Blue, voglio dire. L’annoia parlarne, — spiegò Rog. — Che strano! La maggior parte dei colleghi della CAA – sarebbe l’associazione dei disegnatori pubblicitari d’America, gliene ho già parlato, mi pare – bene, dicevo, la maggior parte di loro preferisce non parlare mai di lavoro a casa, con la moglie. Loro sì andrebbero d’accordo, con Dorothy Ann.
— Voi no, invece?
— Oh, sì, come no. È una cara ragazza, intelligente. Ed ha solo ventisette anni... otto meno di me. Solo che, a lei non importa niente di Blue. — Rog sorrise. — Il denaro che Blue rende quello sì le piace, però. La casa che abbiamo a Still Harbor, per esempio: dieci acri della migliore zona costiera di Long Island, spiaggia privata, finestre sull’oceano... è Blue che ci ha permesso di acquistare tutto questo. E ci permetterà di acquistare tante altre belle cose, ancora. Abbiamo appena concesso la licenza per i giocattoli di pezza. Vi rendete conto che quelli solo ci renderanno 50.000 dollari all’anno? E alludo alla mia parte, dopo che il sindacato si sarà preso la sua fetta e il mio amministratore si sarà preso il suo venti per cento. La bellezza di 50.000 dollari solo per i giocattoli di pezza Blue. Figuratevi un po’!
— Dovrei sgranare tanto d’occhi? — domandò il dottor Zansky, rimettendo il coperchio al tubetto della crema.
— No, — disse Rog. — Cioè... sì. Penso, almeno. — Tacque, mordendosi le labbra. — Vedete, dottore, io non sono tipo da avere...
Il dottor Zansky aspettò, poi domandò: — Da avere cosa?
— Stavo pensando a ieri sera, — spiegò Rog. — Ero nel mio studio. Sapete, ho un cottage di tre stanze, costruito proprio in cima alla scogliera. Molto tranquillo e con una splendida vista dello Stretto.
— Ebbene che cos’è accaduto?
— Be’, niente, in fondo, — disse Rog. — È una cosa di cui abbiamo già parlato. Un po’ curiosa, ecco. Io disegno queste vignette pubblicitarie che hanno tanto successo e che s’imperniano tutte su un cane, quando a me i cani non piacciono, in fondo. Per lo meno, non mi va di averli d’attorno. Sporcano, e poi abbaiano e pretendono che ci si occupi di loro nei momenti più impensati. — Sorrise. — Bene, guardate le mie vignette e scoprirete tutto sui guai che può procurarvi un cane. — Tornò a lisciarsi il ginocchio. — Lì, per lì, l’altra sera, non ci feci caso. Ma oggi in macchina, mentre venivo da voi, ho continuato a pensarci. L’altra sera c’era un cane, che mi osservava.
— In che senso?
— Be’, avevo lavorato fino a tardi. Dovevo disegnare dei Blue per i cestini della colazione, quelli che i bambini si portano all’asilo, sapete?, e stavo buttando giù degli schizzi quando guardo fuori della finestra e là fuori c’era Blue; sì, dico, c’era un grosso danese dall’aria molto feroce.
— E avete pensato, che fosse il cane che stavate disegnando?
— No, questo no — disse Rog. — Tuttavia, oggi m’è venuto in mente che la cosa è strana. Scusate, io disegno un grosso danese dall’aria particolarmente feroce. Ed ecco che, mentre lo disegno, ne vedo uno là, che mi fissa. Una bella coincidenza.
— È il cane di un vicino?
— No, non credo. C’è solo un’altra casa, lassù, in fondo alla strada. E i padroni sono amici dei gatti. — Sorrise. — Voglio dire che hanno tre orribili gatti d’angora.
— Era un cane randagio, allora?
— Penso di sì.
— Però, siete preoccupato — osservò il dottor Zansky. — Pensate, in realtà, che là fuori non ci fosse proprio niente.
— Io l’ho visto, vi dico — assicurò Rog. Posò entrambe le mani sulle ginocchia. — L’ossessione di Blue e dei suoi successi, dottore, è piuttosto pesante. Be’, ecco, non mi sento di guardarvi negli occhi e asserire d’essere sicuro al cento per cento che quel maledetto cane fosse davvero là fuori.
— Non è sempre detto che si debba essere sicuri di qualcosa al cento per cento, Rog — osservò lo psichiatra. Fece tacere la soneria della sveglietta che aveva davanti a sé, sul tavolo. — Be’, venerdì ne riparleremo, se vorrete. Per oggi, l’ora è finita.
— Oggi è mercoledì — disse Rog. — Penso di farcela ad arrivare a venerdì senza che un cane, vero o falso che sia, mi tolga la pace.
Grattò contro la porta dello stanzino della doccia, poi abbaiò. Rog allungò una mano verso la maniglia, di scatto, ma scivolò sulla piastrella viscida e cadde, battendo un ginocchio e un gomito. L’acqua calda gli scrosciava ora sulla testa, finendogli negli occhi. Rog sbuffò, si rialzò pian pianino e aprì la porta di vetro smerigliato.
Nessuna traccia del cane.
Senza nemmeno asciugarsi, Rog afferrò un accappatoio di spugna gialla e, a piedi nudi, attraversò il resto della stanza da bagno del cottage.
Era il crepuscolo, ormai, e l’aria sembrava perfettamente immobile. Fuori, tutto era molto limpido, immerso in un’atmosfera frizzante. Rog si affrettò lungo il vialetto di ghiaia. Una decina di metri più in là, cominciava lo strapiombo. Giù in basso c’erano gli scogli, scuri, e la piccola striscia di sabbia, bionda e maculata da qualche sasso.
Rabbrividendo, Rog si fermò sul vialetto e tese l’orecchio. Udì il cane che si allontanava. Più in là, dalla parte del bosco, si udiva uno scricchiolio di foglie e di rami secchi. Rog corse in direzione di quei rumori. La luce diminuiva e già l’oscurità aveva invaso il bosco, annerendo lo spazio tra gli alberi. Rog corse per diversi minuti, poi si fermò. Non udiva più nulla, ormai, e così tornò indietro.
Tirò fuori degli indumenti puliti e, per vestirsi, si fermò davanti al piccolo caminetto. Lì allo studio non teneva altro che birra. Andò nel cucinino e, aperto il frigorifero, ne tirò fuori un barattolo. Poi, seduto sul divano di cuoio nero, lo aprì, prese un sorso e rimase a fissare le ultime scintille delle fascine mentre, nel caminetto, i due grossi ceppi cominciavano ad ardere.
Poi, prese il telefono e formò un numero.
— Pronto — rispose una voce di donna, dopo cinque squilli.
— Ciao, Bobbi.
— Oh, Rog. Ciao.
— Sei in casa stasera?
— Sì, ma credevo tu avessi una consegna urgentissima.
— Ce l’ho sempre. Ma al momento avrei voglia di vederti.
— Lo vorrei anch’io, ma... e lei?
— Lei non c’è, è fuori. Non è nemmeno di là, in casa. Dev’essere andata a un concerto a Stony Brook, mi pare che abbia detto. Tra un quarto d’ora sono da te.
— Sì, benissimo. Rog, sbaglio o sei un po’ giù?
— Sono ossessionato, come sempre, ma a parte questo mi sento in perfetta forma. — E Rog riagganciò.
Il dottor Zansky aveva ancora guanti e sciarpa. Un vento aspro faceva sbattere le imposte. — California, dove sei? — mormorò, mentre si toglieva la sciarpa a righe rosse.
— Visto? — Rog si lasciò sprofondare nella poltrona,. — Non fate che parlare dei vostri problemi.
Lo psichiatra si sfilò uno dei guanti foderati di pelo. — E i vostri, come vanno?
— Perché vi siete stabilito a Long Island, se patite tanto il freddo?
— Sono nato qui.
— Bene, io continuo a vedere il cane.
— Blue?
— Penso si possa chiamarlo coli. È grosso e ha un’aria abbastanza ottusa.
Con la mano ancora guantata, il dottor Lansky si fregò le guance arrossate dal vento. — Quando l’avete visto?
— Ieri sera è tornato — disse Rog. — È addirittura entrato nel cottage e ha cercato di aggredirmi.
— In che modo, di aggredirvi?
— Be’, forse esagero. Mentre facevo la doccia, è venuto a grattare contro la mezza porta a vetri. Il vetro, sapete, è smerigliato, quindi non si vede molto bene che cosa c’è al di là. Tutto quello che so è che, all’improvviso, c’era Blue che raspava il vetro. Sì, ho intravisto la sua mole grigia, un po’ indistinta.
— E avete il sospetto che volesse aggredirvi?
— Sì. Non mi piacciono i cani e so che per me non hanno simpatia. — Rog sorrise. — Pensare che guadagno... come dice Moe?..., a momenti un milione di dollari all’anno, tutto in grazia di Blue... e non mi piacciono i cani.
— Moe è il vostro amministratore?
— Sì, Moe Albers. Vi ho parlato di lui. Un bell’uomo, alto. Credo che abbia un debole per Dorothy Ann.
— Vostra moglie?
— Oggi non ricordate proprio niente, vero? E perché non vi sfilate l’altro guanto?
Il dottor Zansky si guardò la mano guantata, poi si sfilò il guanto lentamente. — Che cos’avete fatto?
— A proposito di Albers che ha una cotta per mia moglie? Ho smesso di invitarlo, quando diamo un cocktail. Non che ne diamo molti, ormai. Ho troppo lavoro, io. — Rog si fregò il ginocchio.
— Che cos’avete fatto quando quel cane vi è entrato in casa, dicevo.
— Non in casa. Nello studio, al cottage — corresse Rog. — Dorothy Ann era uscita, mi pare che fosse andata a un concerto, e io ero nello studio. Ultimamente abbiamo firmato un contratto per una serie di tovagliolini da cocktail con Blue, e dovevo buttar giù gli schizzi. Nello studio ho il mio bagno e la mia doccia personali. Naturalmente, non sono riuscito a terminare gli schizzi per quei dannati tovaglioli.
— Perché?
— Prima, ho dato la caccia al cane, quell’orribile danese enorme. Ma nel bosco ho perso le sue tracce — spiegò Rog. — Così, siccome non me la sentivo più di riprendere il lavoro, ho telefonato a Bobbi.
— Bobbi Peregrin, la ragazza che era impiegata in quell’ufficio stampa di New York?
— Quella ve la ricordate, eh? Sì, è Bobbi. Ora sta seguendo un corso allo Stony Brook College. E così, sono andato a trovarla. — Tacque, si fregò il ginocchio. — Se non sbaglio l’ultima volta che vi ho parlato di Bobbi, vi ho detto anche che avevo deciso di non vederla più. Ma vedete, il fatto è che, con Bobbi, riesco a rilassare i nervi. È intelligente ma non è un’esperta di disegno pubblicitario. Con lei posso distrarmi e dimenticare i termini di consegna.
— Non è come Dorothy Ann?
— E va bene, mi sono lamentato perché a mia moglie il mio lavoro non interessa. Ma per una moglie è diverso. A lei, la carriera del marito dovrebbe interessare. Un’amica è tutt’altro paio di maniche.
— Che cosa ne pensate del cane? — domandò il dottor Zansky. — Esiste, in carne e ossa?
Rog assenti. — Esiste, sì, ne sono certo.
Rog si appisolò e il cane ricomparve. Di nuovo oltre i vetri della finestra. Raspava con le grosse zampe e, all’improvviso, abbaiò. Rog, allungato sul divano dello studio, si svegliò di soprassalto. Corse alla finestra. Il rabbioso danese gli ringhiò contro, poi ricominciò ad abbaiare. Infine, si voltò e scappò di corsa.
Rog era completamente vestito. Brandì la lampadina tascabile e si precipitò fuori. La notte era limpida. Dovevano essere circa le tre del mattino. Rog fece il giro del cottage, proiettando davanti a sé il raggio della lampada.
Il cane era scomparso ma, nella terra molle sotto la finestra, Rog vide un’impronta: l’impronta di una zampa, nitida e profonda. Si affrettò a rientrare nello studio, strappò un pezzo di carta da disegno e se ne servì per coprire l’impronta della zampa. Fermò il foglio ai quattro angoli, posandovi quattro sassi.
Il cane non lo disturbò più per quella notte e Rog riuscì a farsi quasi quattro ore di sonno. Ormai, passava la maggior parte del tempo nello studio. Lui e Dorothy Ann non facevano che litigare quand’erano insieme e Rog aveva deciso di starsene alla larga il più possibile. Sapeva che, se fosse riuscito a mettersi al corrente con tutte le scadenze e i termini di consegna, sarebbe riuscito anche a distendere di nuovo i nervi.
Quando, al mattino, uscì per esaminare alla luce l’impronta della zampa, non la trovò più. Il foglio di carta era ancora al suo posto, con i quattro sassi come pesi; ma, sotto, c’era soltanto la terra dell’aiuola.
Il venerdì della settimana dopo, Rog sorrideva, quando arrivò dal dottor Zansky. Fuori, il vento soffiava a cinquanta all’ora e il termometro era sui cinque gradi. Il dottor Zansky portava il passamontagna.
— Scopritevi quelle orecchie e ascoltatemi, dottore — disse Rog. — Ho alcune cose da dirvi.
Il dottor Zansky si strofinava forte le mani, per scaldarsele. Poi, si tolse il passamontagna e replicò — Bene, anch’io ho qualcosa da dire a voi.
— Dopo, dopo — tagliò corto Rog, prendendo posto nella solita poltrona. — Credo d’aver capito tutto.
Il dottor Zansky posò il passamontagna sulla scrivania e assentì.
— Allora — cominciò a dire Rog. — Devo prima di tutto ammettere che quel cane ha continuato a darmi fastidio. Più che fastidio, anzi, dato che non sono riuscito a chiudere occhio, o quasi. Ultimamente, ho anche rivisto Bobbi. E ho anche bevuto un po’ più del solito, ma soprattutto birra. Sapete, prima, quando bevevo un po’, chiamavo sempre la gente per telefono. Devo confessare che ho fatto anche questo, un po’. Ho telefonato. Ad amici, sapete, o a colleghi di lavoro e così via. Mi sono lamentato con loro a proposito di quel dannato cane che mi ossessiona. Tutto questo lo riconosco.
— Eppure, oggi sembrate contento.
— Sì, perché penso d’avere trovato il bandolo — disse Rog. — Non che sia una notizia tanto straordinaria, quella che ho da darvi, però è bello sapere che, alla fin fine, non soffro di allucinazioni, o di fissazioni o che so io.
— Davvero?
— Ho parlato con un disegnatore che conosco e lui mi ha domandato se stavo cercando un aiutante. Sapete, qualcuno che mi aiutasse per Blue. Naturalmente, come già vi ho spiegato, io debbo fare tutto da me. Ma il punto è questo: quel tale dice d’aver sentito che Moe Albers, zitto zitto, si è dato da fare per trovare qualcuno che potesse lavorare con il mio stesso stile.
— Non gliel’avete chiesto voi di cercarlo?
— No, naturalmente — disse Rog. — Secondo me, Moe sta studiando il modo di cavare più del suo venti per cento da Blue.
— Quanto, esattamente?
— Aspettate. Un altro amico mio insegna allo Stony Brook College — spiegò Rog. — Ha seguito tutta la serie di concerti alla quale Dorothy Ann afferma d’essere andata regolarmente. Ho accennato la cosa al mio amico, e lui assicura di non averla mai vista.
— Non si saranno incontrati, tra tanta folla.
— Quale folla? Ci vanno al massimo cinquanta persone, non di più. È musica barocca o qualcosa di simile.
— Così, sospettate che Moe Albers e vostra moglie si vedano di nascosto?
— Be’, sì. Questo spiegherebbe molte cose.
— Ah, sì? E come?
— Ecco qua — disse Rog, protendendo il busto in avanti. — Voi conoscete la mia storia. Un tentativo di suicidio tre anni fa, un paio di esaurimenti nervosi. Il problema del bere, sia pure in forma non grave, e così via. Poi, ho cominciato a telefonare a Tizio e a Caio per raccontare che sono ossessionato da un cane. Non da un cane qualsiasi, intendiamoci, ma da quello stesso cane che disegno nelle mie vignette. Cominciate a capire?
— No ma... vi ascolto.
— Bene, Dorothy Ann e Moe Albers potrebbero ricavare un milione di dollari all’anno da Blue, indipendentemente dal fatto che sia io o un altro a disegnarlo. Vedete, i diritti mi appartengono, e in esclusiva. Quando firmai il contratto, ero in una botte di ferro e così potei ottenere, anzi potemmo ottenerlo Moe ed io, che tutti i diritti fossero esclusivamente miei. Perciò, se anche io venissi rinchiuso da qualche parte, diciamo in una casa di cura per malattie mentali, Dorothy Ann rimarrebbe la padrona di Blue. A dividersi tutti i profitti, i dividendi e i diritti d’autore ci sarebbero solo lei, Moe Albers e il sindacato.
— È una cosa di cui vi siete preoccupato altre volte, Rog.
— D’accordo — ammise lui, — ed è proprio da questo che, probabilmente, hanno preso l’idea.
— Non è facile rinchiudere qualcuno in un asilo.
— Loro potrebbero farlo — assicurò Rog. — Voglio dire che io per il primo ho collaborato. Ho detto alla gente che Blue si è materializzato e che mi ossessiona, che non mi lascia vivere. Sì, io credo proprio che potrebbero farlo. Gettarmi in una cella foderata di gomma, da qualche parte, e spassarsela con quel milione all’anno.
Il dottor Zansky osservò: — Voi, Rog, siete assillato dal pensiero di non meritare tutto quel denaro. Vero che è così? Vivete nel timore che arrivi qualcuno a portarvelo via.
— Sì, be’, può anche darsi che sia così — ammise Rog. — Ma vedete, dottore, Moe Albers, ha ogni genere di contatti professionali. Alla televisione, nel mondo dello spettacolo in genere, in campo editoriale. Sarebbe stato facilissimo, per lui, procurarsi un cane ammaestrato e servirsene per cercare di farmi uscire di senno. Quel cane non mi capita d’attorno così, come gli salta in mente. Qualcuno gli ordina di venire, qualcuno fa sparire le sue tracce dopo che il cane se n’è andato. — Rog ricadde contro lo schienale. — Non so che dire. Forse io mi preoccupo troppo. Ovviamente, voi non permetterete che qualcuno mi faccia rinchiudere. Perché voi, i fatti, li conoscete.
— Ho anch’io qualcosa da dirvi, Rog. Ho tentato di parlarvene, poco fa. Temo che questa sarà la nostra ultima seduta.
— E come mai?
— Mi hanno chiamato a tenere un corso in California — disse lo psichiatra. — Dove fa caldo tutto l’anno.
— Mi fa piacere per voi — disse Rog. — Solo che... io non me l’aspettavo, ecco.
— Già, è stato necessario decidere così, sui due piedi — disse il dottor Zanskv. — Sono certo che qualcuno, forse il mio collega dottor Estling, sarà ben contento di occuparsi di voi. Gliene ho già parlato, dice che ha un’ora libera.
— Bene, d’accordo — concluse Rog. — E di quanto vi ho detto su quel cane e sul piano architettato da quei due per farmi credere matto, che cosa ve ne sembra?
— Mi sembra tutto molto campato in aria — disse il dottor Zansky.
Mordicchiandosi il pollice, Rog si alzò e si allontanò dal tavolo da disegno. Niente di quello che aveva schizzato nell’ultima ora gli sembrava divertente. Era già in ritardo di tre giorni sulle consegne settimanali. Si lisciò un poco il mento col pollice; poi, afferrato un impermeabile dal divano, lasciò lo studio e s’incamminò verso il bosco.
La notte era meno fredda del solito e c’era soltanto una lieve brezza che arrivava dal mare. Rog lasciò gli alberi e prese a costeggiare l’orlo del precipizio. Al di là dello Stretto, il Connecticut non era altro che una distesa di piccole luci ammiccanti.
— Forse il dottor Zansky aveva ragione — disse Rog, a mezzo voce. — Sono io che mi creo dei problemi inesistenti.
Affondò le mani nelle tasche dei calzoni da lavoro e smise di passeggiare. — Sì, probabilmente sarebbe difficile per loro farmi rinchiudere da qualche parte. Dovrebbero affrontare chissà quante procedure legali, quante inchieste e via discorrendo. Perfino ora che il dottor Zansky se n’è andato, ci sarebbe qualcuno a prendere le mie parti. E i miei legali si batterebbero per me, per non farmi interdire.
Rog tornò a mordicchiarsi il pollice. — Ma io so di avere ragione. So che dietro tutto questo ci sono Moe e Dorothy Ann. Stanno facendo il possibile per disorientarmi. Stanno facendo di tutto perché sembri che io sia in preda a un altro collasso nervoso.
Infilò di nuovo la mano in tasca. La risacca giù in basso rumoreggiava, schiumando, bianca, sopra la sabbia.
— Se il loro obiettivo non è quello di farmi rinchiudere, quale altro potrebbe essere? In quale altro modo, potrebbero impadronirsi di quel milione di dollari all’anno?
Batté le palpebre, prese un profondo respiro. — Lo sanno tutti che ho tentato di uccidermi in passato. Non devono fare altro che uccidermi loro, e farlo sembrare un suicidio. Sì, così sarebbe molto più semplice. Be’, ma ormai non ci riusciranno, questo è certo.
Estrasse le mani di tasca e le strofinò l’una contro l’altra. Poi, mentre lui mandava un sospiro di sollievo e sorrideva all’oceano buio, Blue sbucò a tutta corsa dai boschi e, con un rapido balzo, spinse Rog oltre l’orlo del precipizio.
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