lunedì 21 luglio 2025

Joan Richter: Gelide pietre



Quando i poliziotti se ne andarono – i due che erano venuti in macchina da Nairobi e i due africani che erano venuti a piedi dal posto di polizia sull’altra sponda del fiume – Matua chiuse la casa padronale e tornò nella sua casupola dietro i filari di alberi. Aggiunse qualche pezzo di carbone alle braci del fornello che aveva lasciato ardere basso durante la sua assenza, sventolò un poco per fare alzare la fiamma e rimise a cuocere la pentola di carne e fagioli. Poi, sedette sugli scalini di pietra, per pensare.
In alto, il cielo era di un azzurro terso, con qualche candido fiocco di nuvole. Se alzava lo sguardo, poteva a scorgere le cime degli arbusti che crescevano giù al fiume; i fiori scarlatti e le larghe foglie verdi nascondevano le tegole arancioni del posto di polizia locale.
Bianchi o neri, i poliziotti erano tutti uguali, indotti dall’autorità che dava loro l’uniforme a credersi più importanti di quanto non fossero in realtà. Il suo amico Tano non faceva eccezione. Da quando Tano era entrato nella polizia, non c’era più amabilità in lui, non c’era più traccia dell’allegria e della bonarietà di un tempo. Soltanto quando i pesanti stivaloni erano sfilati e messi da parte, e quando una ciotola colma di pombe appena fatto cominciava a gorgogliargli nello stomaco e a scaldargli la vene, ecco che Tano si addolciva in volto, le labbra si aprivano, il riso gli risonava in gola. Ma, ugualmente, non più come un tempo.
Quel giorno, Tano non era venuto come amico. Come gli altri tre, era venuto in veste di poliziotto, calzando tanto di stivaloni. Un calcio di quegli stivali, e un uomo sarebbe finito a terra, in ginocchio. Matua l’aveva visto ripetersi molte volte, un fatto del genere. E, ogni volta, aveva sentito uno strano rimescolio allo stomaco.
La prima volta era stato al villaggio, tanti anni prima, quando lui e Tano erano ragazzi. La polizia era tutta composta di bianchi, allora, che arrivavano con divisa e stivali, facendo roteare le mazze. Quella volta, cercavano un uomo. Matua non ricordava più di quale crimine l’uomo fosse accusato, ma ricordava come lui e Tano avessero assistito, dall’ombra di una delle capanne, al momento in cui l’uomo era stato trovato, percosso, preso a calci e, finalmente, trascinato via.
Matua allontanò da sé quel ricordo e si appoggiò contro la pietra dei gradini, sospirando. Le cose erano cambiate, ma non nel modo che lui aveva sognato. L’indipendenza era venuta e ora gli africani indossavano le uniformi di polizia fianco a fianco Con gli europei. Tano era uno di loro. Matua soffriva ancora di più nel vedere un africano prendere a calci un altro africano.
Tuttavia, quel giorno in Tano aveva notato una timidezza che l’aveva sorpreso. Lo stesso si poteva dire dell’altro che era venuto dal posto di polizia al di là del fiume, ma la mente veloce di Matua non tardò a trovare una spiegazione. I due negri si sentivano a disagio in presenza del grosso e rosso inglese la cui uniforme era più elaborata della loro e che era venuto in macchina da Nairobi, con un poliziotto indiano che gli faceva da autista. La faccia dell’inglese era gonfia e giallastra, con tante striature violacee sulle guance. Sopracciglia color ruggine si aggrottavano al di sopra di due gelidi occhi celesti, folti baffi rossicci tremolavano a ogni parola, nascondendo le labbra umide e rosse. L’indiano, invece del regolamentare berretto, portava un turbante Sikh inamidato e fissava Matua con occhi duri e brillanti; ma si manteneva anche lui silenzioso, all’inizio dell’interrogatorio.
— Quand’è stata l’ultima volta che avete visto il Bwana vivo? — aveva domandato l’inglese.
Matua aveva aperto la bocca, ma senza parlare. Tanto tempo prima aveva imparato che non conveniva a un africano povero come lui mostrare di conoscere perfettamente il linguaggio dei bianchi. A fingersi ignoranti si poteva dire di meno e apprendere di più. Il suo silenzio era stato ricompensato. Come lui si aspettava, la domanda era stata ripetuta in swahili.
— Dopo cena, — aveva risposto. — Il Bwana dire che non volere niente altro, così io andato in mia stanza per dormire. Non era più tardi delle nove di sera.
— Hai sentito dei rumori durante la notte?
Aveva sentito qualcosa? Qualche piccolo grido. O magari addirittura un urlo. Ma come esserne certi? Poteva essersi trattato di un gufo, o del lamento di un animale selvatico al quale fosse sfuggita la preda. Forse, quello che aveva udito era stato il rumore del proprio russare... Ma la sua risposta al rosso inglese non aveva tradito niente di quella incertezza. — Io sentito niente! — aveva risposto.
— Niente! — I baffi stopposi si erano agitati, le guance si erano fatte più rosse. — Com’è possibile che non hai sentito almeno qualche rumore? Guarda qui! — Erano nel salotto, in quel momento, dove la lana delle imbottiture giaceva in mucchi sul pavimento e aderiva alla stuoia che Matua aveva spazzolato solo il giorno innanzi. Una polverina bianca copriva il lucido legno dei mobili. Ogni sedia era stata sventrata, ogni cosa capovolta e buttata all’aria. In camera da letto, la stessa cosa: materassi in pezzi, cuscini a brandelli, piume sparse per la stanza come foglie morte.
— Casa mia è dietro alberi. — Matua aveva indicato fuori della finestra. — Essere molto freddo, ieri sera. — Ed era la verità: Matua aveva anzi deplorato di non possedere un’altra coperta. — Mia finestra chiusa. Io sentire niente.
L’indiano si era rivolto all’inglese, movendo rigidamente la testa coperta dal turbante, un’espressione scaltra sul volto olivastro. — Dormono, ed è come se fossero morti. Ma questo, secondo me, mente.
Matua non aveva dato a vedere d’aver compreso le parole mormorate a voce bassa dall’indiano, ma un antico rancore gli si era risvegliato nel petto. Si era un poco placato nel vedere l’occhiata che Tana lanciava all’uomo col turbante. Anche in quello sguardo c’era un odio represso, e ancora una volta Matua si era sentito vicino all’amico, perché entrambi vedevano in quella faccia olivastra l’immagine di tutti gli indiani nelle cui botteghe erano stati insolentiti e imbrogliati.
Tanto tempo prima gli inglesi avevano portato degli operai indiani in Africa Orientale: ne erano arrivati a centinaia, con le loro famiglie, per lavorare a una strada ferrata. Poi, alcuni avevano fatto ritorno al paese natio, ma altri si erano stabiliti lunga la costa dell’Africa Orientale o nell’entroterra. Erano diventati bottegai e commercianti e avevano preso il controllo di tutto il commercio della zona costiera. Nelle piccole città o nei piccoli villaggi, l’unica bottega era in genere gestita da indiani. Nelle comunità più numerose le botteghe erano diverse, tutte in fila, collegate come le pietruzze di una collana da passaggi nascosti: lì, quando appariva un compratore negro, venivano convenuti i prezzi e passata parola su tutto. Se in una bottega il prezzo ti sembrava alto, era inutile entrare in quella accanto. Anzi, a mano a mano che le facevi passare, il prezzo non faceva che crescere, e per tutto: riso, tè, zucchero, stoffa, filo, perfino per un semplice ago. È facile imparare a odiare un uomo che ti dà solo la metà del quantitativo di riso che il tuo denaro potrebbe acquistare, quando quella metà non basta a sfamare la tua famiglia e quando il denaro che hai con te è tutto quello di cui disponi.
Il poliziotto inglese si era accigliato al commento dell’indiano, ma non aveva risposto. Matua aveva scoperto presto che nemmeno tra inglesi e indiani correva buon sangue. Il poliziotto si era rivolto a Matua e aveva ripreso l’interrogatorio.
— A che ora sei ritornato nella casa grande?
— Stamattina, verso sei e trenta.
— È quella l’ora solita?
— Sì.
— Ma hai telefonato al posto di polizia solo alle sette e un quarto. Esatto?
— Esatto.
— Perché non hai telefonato subito? Che cos’hai fatto dalle sei e mezzo alle sette e un quarto?
— Io facevo ciambelle.
I baffi avevano tremolato, le parole erano uscite dalle labbra umide punteggiate di saliva. — Ma di che stai parlando? Ciambelle! Il tuo padrone era stato assassinato.
— Io non sapevo che Bwana era morto. Io non andato subito in camera da letto.
— Perché no? Non avevi capito, da tutta questa confusione, che qualcosa non andava?
Matua aveva scosso la testa.
L’indiano aveva mosso un passo avanti. — Non scuotere la testa! Parla! — L’ordine in swahili era stato una zaffata di alito che sapeva d’aglio sulla faccia di Matua. — Tu vuoi prendere tempo per inventare delle bugie!
Matua deglutì ma guardò fisso negli occhi neri dell’indiano. — Non so che cosa intendi per bugie. Sono io che ho chiamato la polizia. — Matua aveva guardato Tano per vedere se questi lo appoggiava; ma Tano stava fissando davanti a sé. L’inglese aveva parlato, rabbiosamente: — Voglio sapere quando hai scoperto che il Bwana era morto!
— Erano sei e mezzo quando io entrato in casa, da porta di cucina. Sempre io vado in salotto per aprire tende, ma questa mattina con ciambelle da fare io non andato. Io poi andare dopo, quando ciambelle nel forno, pensavo; dopo che avere portato a Bwana sua tazza di tè.
— Erano le sette quando ho preso vassoio con tè e andato in corridoio fino a stanza da letto. La porta era chiusa. Io bussato ed entrato. Era sicuro, così io posato vassoio su tavolino vicino porta e andato ad aprire tende. Così, inciampato in qualcosa che era su pavimento. «Bwana», io chiamare, ma non avere risposta. Allora tornato indietro e acceso luce. Il Bwana era a terra, morto.
— Come hai capito che era morto? L’hai toccato?
Matua aveva aggrottato la fronte. — Non c’era bisogno che io toccare lui, per capire. C’erano molte ferite e molto sangue. Era morto.
— Quando hai chiamato la polizia?
— Allora, subito. — Quella risposta era quasi la verità. Non era il caso di dire che come prima reazione era scappato dalla casa, che era corso nella sua stanza, che si era seduto sull’orlo del letto, tremando da capo a piedi di terrore, a domandarsi che cosa doveva fare, e che aveva perfino pensato di fuggire, al primo momento.
Ma perché avrebbe dovuto fuggire? Non aveva fatto niente. Dove sarebbe andato? Il suo villaggio era molto lontano e lui non aveva il denaro per il biglietto dell’autobus. E poi, come fare per il vassoio del tè rimasto nella camera del Bwana? E per le ciambelle nel forno? Non poteva andarsene senza prima pulire la cucina, altrimenti, quando i poliziotti sarebbero arrivati – e lui sapeva che sarebbero venuti, prima o poi – avrebbero capito che lui era entrato in casa e che poi era scappato. Avrebbero pensato che fosse stato lui a uccidere il Bwana, e sarebbero venuti a cercarlo al villaggio. E l’avrebbero stanato, dandogli la caccia come se fosse stato un animale feroce.
Matua si era nascosto il volto con le mani, aveva cercato di allontanare le immagini che si formavano nella sua mente: immagini di bambini aggrappati l’uno all’altro nell’interno delle rispettive capanne, di sua moglie ferma in mezzo alle altre donne, a guardare mentre lui veniva battuto e trascinato via. Non era stata l’immagine del Bwana morto a riempirlo di terrore, ma la vista del panga, che giaceva a terra accanto al morto, la larga lama sporca di terra rappresa e ora imbrattata di sangue.
— Ho telefonato al posto di polizia dove mio amico Tano lavora. Tano non era là, ma altri sono venuti. Loro portato via corpo e detto me di non pulire stanza. Ora voi siete qui. — Non aveva bisogno di confessare che per poco non era scappato. C’erano cose che un uomo non era tenuto a rivelare ad altri.
— E il panga? Dov’è?
— Loro portato via Bwana e preso anche panga. — Matua aveva pensato di nuovo al coltellaccio che giaceva accanto al cadavere. Ogni africano possedeva un panga, a volte due. Rappresentava un’arma di protezione nella foresta, una zappa nel campo, un’ascia per tagliare canne o per spaccare legna da ardere, un coltello per tagliare un frutto a metà e tirar via i semi. Ed erano tutti uguali, con la lama larga e il solido manico di legno: si potevano acquistare per quindici scellini in qualsiasi bottega indiana. L’uno era difficilmente distinguibile dall’altro. Ma un uomo conosceva il proprio panga, così come conosceva la propria donna.
— Il panga era mio, — aveva detto Matua, e aveva visto l’inglese rialzare la testa a fissarlo. Anche l’indiano l’aveva guardato, e così Tano e l’altro poliziotto negro. —
Avevo lavorato in mio shamba, ieri, a zappare per fagioli. Quando io finito io lasciato mio panga appoggiato fuori di porta di mia stanza, ancora con terra sopra. Era là quando io andato dormire, ieri sera, ma stamattina io non trovato là fuori. Io vorrei riavere mio panga, quando polizia avere finito di usare.
— Ma senti che faccia tosta! — aveva esclamato l’indiano. — Vorrebbe riaverlo indietro, il suo panga!
Il poliziotto negro che stava accanto a Tano si era fatto avanti e, per la prima volta, aveva parlato. Matua non ne conosceva il nome, ma una volta l’aveva visto con Tano, in città. — Un panga costa quindici scellini. È diritto di Matua riavere il suo panga.
—È l’arma del delitto, idiota! — aveva urlato l’indiano.
— Che cosa ne faranno, quando indagine è finita? — aveva domandato Tano, tranquillamente.
— Come posso saperlo, — aveva risposto l’indiano.
— Tu sai. — La voce di Tano era più forte, ora. — Tu lo prenderai! E poi lo venderai a qualcuno per più di quindici scellini. Il panga è di Matua, sarà restituito a lui.
L’odio che ardeva negli occhi di Tano aveva dato a Matua un senso di calore. Ancora una volta, tornavano ragazzi insieme.
— Basta così, — aveva ordinato l’inglese, riportando poi l’attenzione su Matua. — Non hai sentito nessuno avvicinarsi alla tua casa, durante la notte?
— Io sentito niente.
— Che cosa cercava, l’assassino?
Matua aveva aggrottato la fronte, non proprio sicuro di avere capito bene. — Io non so che cosa volere sapere.
— L’assassino cercava qualcosa. Perché, altrimenti, avrebbe fatto tutto questo? — L’inglese indicava la mobilia in rovina.
— Non so. Forse era denaro.
— Ma il Bwana non teneva il denaro nella cassaforte, in camera da letto?
— Sì, ma io non credo che là c’era molto denaro. È fine di mese, ora, e Bwana sempre andava a banca il primo di mese.
— Qualsiasi cosa fosse, è scomparsa, — aveva detto l’inglese.
— Il Bwana diceva che cassaforte non tanto buona. Ecco perché lui non tenere molto denaro, mai.
— Che cosa teneva, in casa?
Di nuovo Matua aveva aggrottato la fronte. — Io non capire.
— L’assassino voleva qualcosa di più di quello che ha trovato in cassaforte. Ha fatto tutto a pezzi, per trovare quello che cercava. Ma che cos’era? Che cosa poteva cercare?
Matua aveva scosso la testa. — Io non so.
L’interrogatorio era continuato per un pezzo e, all’improvviso, era terminato. Matua ne era stato contento, perché non c’era più niente da dire. L’inglese gli aveva detto di pulire la casa. Il proprietario era stato informato della morte dell’inquilino e aveva già persone interessate ad affittarla. Le avrebbe accompagnate lì l’indomani, da Nairobi.
Matua si scosse, si alzò dagli scalini e andò a dare un’occhiata al suo tegame. Gli arrivava l’odorino della carne e dei legumi che cuocevano insieme, e si rendeva conto d’essere affamato. Stava pensando a come sarebbe stato bello avere qualcuno con cui dividere il pasto, quando udì un passo lungo il sentiero, al di là del filare di alberi. Non poteva giurare che fosse vero, forse era solo uno scherzo della fantasia. Poi, all’improvviso, si sentì mancare il respiro. Fino a quell’istante non si era reso conto che, se l’assassino non aveva trovato quello che cercava, poteva anche tornare.
— Jambo. — Il saluto arrivò attraverso gli alberi.
— Jambo, — rispose Matua, con il cuore che gli batteva nel petto come un uccello impazzito.
— Come va?
Matua sentì il suo cuore calmarsi. Aveva riconosciuto la voce. — Ah, Tano. Hai sentito l’odore dei miei fagioli e della mia carne perfino dall’altra sponda del fiume. — Ora Matua parlava fluentemente, nella lingua natia.
Sedettero sugli scalini e mangiarono con le dita, intingendo focacce di grano nel sugo. Da principio parlarono di cose senza importanza, poi Matua domandò: — Che cosa ne pensa la polizia dell’uccisione del Bwana? Sanno chi è stato?
— Un ladro.
— Un ladro? Ma chi?
— Come possono saperlo. Non ha lasciato il suo nome.
Matua si accigliò. Non gli piaceva il tono dell’amico. — Ma quelli della polizia sono abili. Hanno tanti mezzi per scoprire le cose.
— Quali cose? Che cosa possono scoprire nella casa? Tu hai scoperto qualcosa?
Matua scosse la testa. — Non ho scoperto niente. Solo, mi sembra strano che il Bwana sia stato ucciso con il mio panga, mentre per fare il resto è stato usato un altro coltello.
— E tu come lo sai?
— Se il mio panga fosse stato usato per aprire i materassi e per stracciare i cuscini, il sangue sarebbe andato via dalla lama, e anche la terra che c’era rimasta attaccata, dopo che l’avevo usato nell’orto.
Tano lo fissava stranamente, stringendo le palpebre. — E, secondo te, questo cosa significa?
Matua scosse la testa. — Non lo so. Forse l’assassino è qualcuno che non sa maneggiare un panga molto a lungo. Quello che è stato fatto ai mobili deve avere richiesto molto tempo.
Tano ascoltava, accigliato. — È un’idea intelligente, Matua. Sono certo che al poliziotto inglese venuto da Nairobi non è venuta in mente. Spiegami, però, perché gli hai detto che il panga era tuo? Non ti mancavano i quindici scellini per ricomprarlo, o almeno non fino a questo punto.
Matua alzò gli occhi dalla ciotola. — Perché avrei dovuto lasciare che se lo prendesse l’indiano?
Tano alzò le spalle. — Ma non è per questo che ne hai parlato.
— Molto meglio dire io stesso alla polizia che quello era il mio panga, piuttosto che lasciare che lo scoprissero loro. Allora sì sarei stato nei guai.
— Come potevano scoprirlo? Un panga è uguale all’altro.
— Ci sono delle differenze. E quelli della polizia sono abili. — Matua tacque, pensando che aveva parlato della polizia come se Tano non ne facesse parte anche lui. — E poi, è più semplice dire la verità che mentire. Una bugia si può dimenticare. La verità, mai.
Tano rise, succhiandosi il sugo dalle dita. — Perché, allora, non hai detto la verità su quello che l’assassino cercava?
Matua rialzò la testa, sorpreso. — Che cosa vuoi dire?
— È più facile dire la verità che mentire, l’hai detto tu. Perché allora menti con me, un tuo vecchio amico?
— Non so di che cosa stai parlando, Tano.
— Tanto tempo fa, quando cominciasti a lavorare per il Bwana, quando la Memsab era ancora viva, mi dicesti che ti avevano mostrato dei diamanti: diamanti portati dal Congo che, se fossero stati trovati, avrebbero mandato il Bwana in prigione. Ecco perché dovevano essere tenuti in casa, nascosti con cura. Ma dove, Matua? Dove il Bwana teneva nascosti i diamanti?
Diamanti. Matua udì Tano ripetere la parola e disse a se stesso quanto era stato sciocco ad essersene dimenticato. Troppo tardi si avvide che Tano gli aveva letto negli occhi l’improvviso ricordo.
— Ora ti torna in mente, vedo!
— Per anni non ci avevo pensato più.
— Bene, pensaci adesso. Dove sono?
Matua si accigliò: soltanto un vecchio o uno sciocco potrebbero dimenticare qualcosa che un tempo sapevano. Perché, allora, lui non riusciva a ricordare? La Memsab gliene aveva parlato, una volta e così il Bwana. Dicevano che, se un giorno il raccolto del caffè fosse andato male, ci sarebbero stati i diamanti. Ma non era il genere di cose che un europeo confidava a un domestico di colore. Perché, allora, si domandava Matua, io dovevo saperlo? E perché fui tanto idiota da vantarmene con Tano? Ma questo avveniva tanto tempo fa, prima che Tano indossasse l’uniforme del poliziotto.
— Andiamo, Matua. Siamo vecchi amici. Dimmi dove sono i diamanti.
— Non lo so dove sono. — Matua parlò con impazienza, fissando Tano dritto negli occhi. Poi, allungò la mano verso la scodella vuota e la portò fino al rubinetto esterno, per lavarla. — Ora devo tornare nella casa. C’è molto da fare, con la gente nuova che verrà domani a vederla.
Tano si alzò. — Ti aiuterò io. Forse, mentre pulisci, ti tornerà in mente. Forse insieme riusciremo a trovarli. Prestami una delle tue camicie, Matua. Non posso ritornare alla polizia con la divisa sporca.
Matua guardò l’uniforme inamidata, gli stivali neri e lucidi e il nuovo orologio d’oro che brillava al polso di Tano. Non credeva che il mestiere di poliziotto rendesse tanto bene, in verità. Senza una parola, entrò nella sua stanza per procurare a Tano la camicia che aveva chiesto. Avrebbe voluto che Tano se ne andasse, che lo lasciasse alle sue pulizie, ma non osava dirlo perché Tano avrebbe pensato che lui volesse rimanere solo, per poter cercare i diamanti. E, in un certo senso, era così, ma non per le ragioni che Tano immaginava. Proprio come gli abiti erano nell’armadio, la carne nel frigorifero e il denaro nella cassaforte, anche i diamanti avevano un loro posto.
Ma non erano suoi, e così lui non se n’era ricordato. Che cosa ne avrebbe fatto, del resto, di una manciata di diamanti. Che vantaggio avevano portato al Bwana?
Mentre Matua spazzava, spolverava e portava in giardino le imbottiture uscite dalle sedie per gettarle nella spazzatura, Tano esaminava i mobili, rovistando negli angoli con un lucido coltello che aveva estratto dalla tasca dei calzoni.
A un certo punto, Matua lo chiamò. — Vieni a darmi una mano per trasportare questo tappeto. Non posso pulirlo qui. Devo appenderlo fuori, sulla corda, per batterlo.
Con un guizzo del polso, Tano aveva mandato il lucente coltello a impiantarsi nel bracciolo di legno di una poltrona, dov’era rimasto, ritto e vibrante. Matua finse di non accorgersene. Da quando Tano era diventato poliziotto, un panga non era più adatto per lui. Ma a che cosa serviva, un coltellino del genere? Non certo a zappettare, né a tagliare una canna di bambù. Matua si chinò per rialzare il tappeto arrotolato, mentre Tano afferrava l’altra estremità.
— La cassaforte in camera da letto... — cominciò a dire Tano, mentre appendevano il pesante tappeto alla corda tesa fuori della porta di cucina. — ... Perché il Bwana non li teneva là, quei diamanti?
— Non era una cassaforte sicura. — Matua strinse le palpebre contro il sole che penetrava attraverso il fogliame e guardò Tano al di sopra della barriera che il tappeto metteva tra loro due. Come faceva, Tano, ad essere così sicuro che l’assassino non avesse trovato, alla fine, quello che cercava?
Rientrarono in casa e, ora che il tappeto era stato tolto di mezzo, era più facile ripulire il salotto. Tano lo aiutò a trasportare alcuni dei mobili rotti in veranda e ad ammucchiarli in un angolo. Portarono i materassi sul mucchio delle cose da gettar via. Poi, Matua calzò le apposite pelli di pecora e cominciò a pattinare sul pavimento di legno, per far penetrare l’olio di noce di cocco che rendeva splendenti le larghe tavole dell’impiantito.
— M’è venuta sete, dopo tutto questo lavoro, — disse Tano, avvicinandosi al mobile dove il Bwana teneva il suo whisky. — Beviamo qualcosa.
Matua scosse la testa. A lui piaceva il pombe, la birra africana del suo villaggio, ma non provava alcun gusto a bere il whisky dell’uomo bianco.
— Questo cos’è? — Tano mostrava una bottiglietta verde. — Non ho mai visto del whisky di questo tipo.
Attraverso la stanza, Matua guardò la bottiglia che Tano stava esaminando. — Non è whisky. È una cosa che si chiama ginger ale, da mescolare col whisky. Quando era viva la Memsab, era questo che bevevano lei e il Bwana, con un po’ di ghiaccio. Ma, in seguito, il Bwana voleva solo whisky.
— Preparami una bibita, Matua. Una come quella che beveva un tempo il Bwana. Fai finta che io sia il Bwana della casa, ora, e tu il mio servo.
Matua lo guardò. — Ti preparerò una bibita, e dopo te ne andrai. Mi impedisci di fare il mio lavoro. C’è molto da pulire, se domani deve arrivare quella gente nuova. Forse, se la casa farà bella figura, mi chiederanno di restare e di lavorare per loro. — Prese dalle mani di Tano la bottiglia di whisky e quella di ginger ale e si diresse verso la cucina.
Tono gli gridò dietro: — Io berrò la mia bibita e resterò qui mentre tu pulisci il resto della casa. Non sono convinto che tu non sappia dove sono quelle pietre.
Matua si girò. — Ti ho detto che non lo so. La Memsab e il Bwana ne parlarono una volta sola, tanto tempo fa. E da quella volta mai più. Ma poi, a che cosa ti servirebbero, ormai?
— I diamanti valgono molto denaro, Matua.
— Chi ti darebbe denaro per quelle pietre?
— I mercanti del bazaar.
— Indiani.
Tano alzò le spalle. — Se ho delle pietre preziose e voglio ricavarne denaro, devo andare da chi le vuole e da chi ha denaro. Gli indiani, sì.
Matua scuoteva la testa. — Ti imbroglierebbero e poi ti denuncerebbero alla polizia.
Tano gettò indietro la testa e rise. — Tu dimentichi, Matua, che la polizia sono io.
Matua sorrise con tristezza. — Sì, qualche volta me lo dimentico. — Poi si voltò, andò in cucina e prese due bicchieri alti e affusolati da un credenzino. Fu un gesto automatico: whisky e ginger ale andavano serviti in due bicchieri così, uno peer la Memsab e uno per il Bwana... Ma quella era una cosa di tanto tempo fa. Matua rimise uno dei bicchieri nello scaffale e andò verso il frigorifero, per prendere del ghiaccio.
Allungò la mano verso il vassoietto piccolo, a destra. Anche quello fu un gesto automatico. Sempre il vassoio di destra. Perché l’altro mai? Rimase per un attimo a fissare nella profondità gelida del frigorifero e sentì un lieve sorriso guizzare sulle labbra. Allungò la mano anche verso il vassoio di sinistra, e li portò entrambi nell’acquaio, posandoli sullo scolapiatti. Anche il frigorifero aveva bisogno di essere rimesso in ordine.
Tano se ne stava sulla soglia, lisciando la lama del suo lucido coltello e osservando Matua con aria pensosa. — Quello che hai detto dei mercanti indiani è verissimo. Se tu andassi da uno di loro con quei brillanti, lui ti denuncerebbe alla polizia, ma non direbbe che gliene hai portati molti: direbbe che sono uno o due. Ma uno o due sarebbero sufficienti a farti andare in prigione per molto tempo. E l’indiano si terrebbe il resto delle pietre.
— Perché lo dici a me?
— Perché voglio tu sappia che, senza il mio aiuto, quelle pietre non ti serviranno a niente.
— E cosa ti fa pensare che, col tuo aiuto, mi servirebbero a qualcosa? Forse sono servite al Bwana? Non ho bisogno del tuo consiglio, Tano.
— Come sarebbe a dire?
— Sarebbe a dire che, se anche sapessi dove sono quelle pietre, non le toccherei. E se per caso mi venissero tra le mani, me ne sbarazzerei.
— O sei uno sciocco, o sei un bugiardo!
— Forse uno sciocco, Tano, ma io non mento. E adesso bevi la tua bibita. — Due cubetti di ghiaccio tintinnarono dentro il bicchiere, mentre Matua serviva l’amico.
Tano prese il bicchiere con la sinistra, ma la sua destra si spinse in avanti, puntando il coltello. — Se un giorno scoprirò che mi hai mentito, Matua, che quelle pietre sono già tue...
Matua fissò negli occhi l’uomo che da ragazzo era stato suo amico, poi guardò deliberatamente la lucida lama del coltello che l’altro gli puntava contro. Non aveva paura. Tano non gli avrebbe fatto del male. Due omicidi nella stessa casa avrebbero indotto il poliziotto inglese dai baffi rossicci a mettersi in sospetto. Forse, era già in sospetto. Matua aveva ammesso che il panga usato per uccidere il Bwana apparteneva a lui, ma restava l’altro coltello, quello che era stato usato per sventrare i cuscini e le imbottiture. A chi apparteneva, quello? L’inglese non poteva essere tanto stupido quanto Tano pensava che fosse.
I loro sguardi si incontrarono al di sopra della lama e Matua si domandò se la colpa di tutto potesse essere attribuita all’uniforme. Non credeva che al Bwana fosse dispiaciuto morire. Giovane non lo era più, il Bwana: era invecchiato rapidamente, dopo la morte della Memsab. Che Tano l’avesse ucciso, era un grave misfatto; ma che avesse usato il panga di un vecchio amico, era un misfatto ancora più grave.
Tano si portò il bicchiere alle labbra e ingoiò un lungo sorso. — È buono. Perché non ne bevi uno anche tu?
Matua scosse la testa. — Ho da lavorare, io, — disse e si girò verso l’acquaio. Vuotò nella vaschetta i due vassoi del ghiaccio e lasciò scorrere l’acqua sui cubetti. Via via che quelli rimpicciolivano, lui, con le mani, li spazzava giù per lo scarico. Lasciò scorrere l’acqua, mentre sciacquava i vassoi e li metteva da parte, ad asciugare. Più tardi, una volta lavato il frigorifero, li avrebbe riempiti di acqua fresca e rimessi al loro posto. Per un po’, gli sarebbe venuto istintivo allungare la mano verso il vassoio di destra, senza mai toccare quello di sinistra: ma sapeva benissimo che la cosa, ormai, non aveva più importanza.
Accanto a lui, Tano scolò rumorosamente quello che restava della bibita, poi gettò i cubetti di ghiaccio nell’acquaio.
Matua voltò la testa dall’altro lato mentre allungava la mano verso il rubinetto per lavar via gli ultimi due cubetti. Sorrideva tra sé. Era stato un buon nascondiglio.

 

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