Quell’anno, 1925, l’estate non finiva più e il settembre, col suo tepore, invitava a godere i piaceri della campagna, che erano fatti di cose semplici ma saporite. Le uve dolci, pigiate dalle giovani contadine, che con spavalderia avevano nell’occasione sfoggiato nudità molto attraenti, generalmente tenute coperte, bollivano già nei tini attirando nugoli di moscerini e sciami di api. Nell’aria si sentiva il profumo del mosto, un profumo appiccicoso che diventava più intenso nelle vicinanze delle cantine. La “corina”, che non tirava da tempo, nella seconda quindicina del mese cominciò a farsi sentire e a portare folate bollenti sature di un odore inconfondibile proveniente dai maceri, dove veniva lavata la canapa. Gli abitanti di Elioppido erano orgogliosi della loro campagna che si estendeva fra due fiumi, ai quali andava il merito di averla resa particolarmente fertile. Elioppido aveva alle spalle una storia dalle origini lontanissime preromaniche; nel Rinascimento il suo “Castello” era stato un centro verso il quale avevano gravitato fiorenti interessi e personaggi famosi come Caterina Sforza e Leonardo da Vinci. Circondato da un fossato profondo, munito di ponte levatoio, dotato di una Rocca dalla mole maestosa sovrastata da un’alta torre, costituiva un vero capolavoro di architettura e un piacevole luogo di soggiorno. La Rocca era stata rifatta, secondo un disegno di Battista Covo, nel 1532 per volontà di Isabella d’Este, moglie di Francesco Gonzaga, la marchesa mantovana che al Rinascimento italiano aveva dato eccezionale impulso e che al suo feudo di Elioppido, per due anni sua stabile residenza, aveva fatto conoscere un periodo di particolare splendore. Per trovare una spiegazione al nome di “Elioppido” (castello del sole) occorre por mente che nel suo territorio vi era, prima che arrivassero i Romani, un Sacellum Solare e cioè un tempietto dedicato al dio Sole. Nel V secolo prima di Cristo gli Etruschi costruirono molti oppida (campi fortificati) uno di questi potrebbe essere il nostro Elioppido; non a caso è costruito con il caratteristico sistema di questo popolo, vale a dire all’incrocio fra due strade. Ad Elioppido esiste un canale detto Canale dei Molini che fu costruito alcuni secoli or sono per far funzionare le macine di alcuni mulini, per alimentare maceri e
consentire l’irrigazione dei campi. Esso nasce da una chiusa sul fiume e fiancheggiando la strada del vecchio cardine romano, attraversa il borgo del Castello e prosegue verso nord scaricando le sue acque nel Reno. La nostra storia ebbe come scenario questo canale. Il corso d’acqua, prima di giungere all’abitato, forma due gomiti ad angolo retto, nel secondo dei quali sorge la casa del podere “Savoia” ove nel 1925 abitava un certo Menico, il protagonista del racconto. Faceva il contadino insieme ai genitori, a zii e cugini, tutti uniti, come usava a quei tempi, in una famiglia patriarcale governata dal reggitore, dedita al duro lavoro dei campi, che conosceva poche ore di sonno e tante di pesanti fatiche. Allo scoppiare del conflitto mondiale Menico contava sì e no diciotto anni. Si affacciava alla vita quando la vita appariva sempre più attaccata a un filo. Sperò di sfuggire alla chiamata e comunque di riuscire a trovare uno stratagemma per evitare l’arruolamento. Ad Elioppido, dove la guerra non era sentita, molti giovani erano stati riformati, altri assegnati ai servizi sedentari. Avevano fatto ricorso a infermità non facilmente accertabili come gravi disturbi al sistema nervoso o squilibri mentali. Ma quando, col passare dei mesi e degli anni, al fronte le cose cominciarono a mettersi male, i sotterfugi per scansare la chiamata diventarono sempre più difficili e impraticabili, Menico non poté sottrarsi al suo destino.
Mai come nei giorni che precedettero la partenza la campagna gli parve così bella e piena di attrattive: di notte, non riuscendo a prender sonno, indugiava nell’ascolto di tutti i rumori e in particolare di quello prodotto dall’acqua del canale su cui prospicieva la sua finestra. Talora scendeva dal letto e, affacciandosi alla medesima, fissava lo sguardo sulla corrente cercando di scorgere, nel riflesso dei raggi lunari, i suoi abitanti: rane, ratti, bisce, che talora venivano ghermiti da qualche puzzola o gatto a caccia di preda. Li invidiava tutti: vittime e assassini, più fortunati di lui che avrebbe preferito affrontare la morte nel suo canale che incontrarla in trincea, là in una terra lontana e sconosciuta.
Poi il turbine lo travolse e si trovò più volte a pochi passi dalla fine.
Una volta fu seppellito da una granata e svenne. Ebbe nel rinvenire la sensazione di essere in procinto di morire annegato nel canale di casa sua: invece erano i soldati austriaci che gli gettavano acqua addosso per farlo riprendere. Restò loro prigioniero, ma quando, a guerra finita, tornò a Elioppido, trovò nella famiglia un vuoto grande e inaspettato: la scomparsa dei genitori. Il padre era rimasto vittima di un incidente mortale non molto tempo prima del suo ritorno. Percorrendo la via del Canale nel tratto verso mezzogiorno a bordo di un barroccio trainato da un cavallo, inavvertitamente era finito con la ruota di destra contro l’argine e si era rovesciato rimanendo schiacciato sotto il peso del mezzo. La madre non aveva retto al dolore. Menico si sentì addosso il peso anche degli anni che non aveva e una mentalità di adulto. Era orfano e già con un cumulo di tristi esperienze alle spalle che lo avevano collaudato e fatto uomo prima del tempo. Fu anche per questo e per le capacità dimostrate in molti campi che la famiglia, d’accordo col concedente, il signor Checco Frontali, decise di sceglierlo come suo reggitore. La vita non era facile, il dopo guerra era travagliato da profondi contrasti sociali, del tutto nuovi per un paese agricolo come il nostro nel quale si stavano inserendo le fabbriche e con le fabbriche i problemi dell’industria e dei suoi lavoratori. Frequentava i mercati e quindi doveva stare aggiornato sull’andamento dei prezzi e imparare tutte le malizie degli uomini d’affari. Politicamente stava alla finestra, ma, si sa, i contadini sono conservatori e attaccati alla chiesa. Non era da escludere che facesse parte di qualche confraternita religiosa, essendo stato notato sotto la stanga della portantina durante le processioni religiose. La voce che lui era bravo si era sparsa in giro e aveva fatto presa nell’opinione pubblica e anche nel mondo femminile. Menico aveva messo a frutto la sua intelligenza curando altresì l’immagine che, specie per il gentil sesso, assume non poca rilevanza. Vestiva in modo appropriato, seguendo la moda del tempo: gilet con la catena dell’orologio in bella vista, cravatta annodata a mo’ dei mazziniani, cappello Borsalino, bastone e sigaro in bocca quando occorreva far colpo su qualcuno o su qualcuna. Aveva capito di piacere alle donne, che a lui erano sempre piaciute. Il fisico lo aiutava molto, gli occhi avevano una luce pungente e parlavano anche se la bocca restava spesso chiusa, disegnata da due baffetti scuri che davano risalto a un viso scarno e pensoso. Le distanze negli anni venti contavano molto e per chi, come Menico, misurava il tempo libero col contagocce, svaghi e pasture andavano cercati nel raggio di pochi chilometri e, se possibile, nelle vicinanze di casa. La strada del Canale, andando verso sud ovest, dopo il primo dei due gomiti già indicati e alcune centinaia di metri di rettilineo, incontra una via di campagna (l’antica via delle praterie dove si cacciavano le panterane) con la quale forma un crocevia su cui sorge un ponte con parapetto in muratura alto non più di mezzo metro.
Questo crocevia segnò il destino di Menico. A un tiro di fucile dal ponte c’era una casa (tuttora esistente) dove abitava Giannina Lancioni. Quasi dirimpettaia a questa, sempre in via Carraie, sorgeva un secondo fabbricato abitato da una famiglia numerosa. La madre Karin era una donna piaciuta e ancor più piaciuta era una figlia: Ginetta, che aveva trovato facilmente marito in una persona venuta ad Elioppido nel922 insieme ad altro suo compaesano. Li chiamavano Sacco e Sapori forse per assonanza coi nomi di Sacco e Vanzetti, i due anarchici italiani immigrati negli Stati Uniti e condannati a morte per una rapina con due morti, malgrado le prove della loro innocenza. Furono poi riabilitati ma cinquant’anni dopo l’esecuzione della sentenza. Sacco e Sapori, legati tra loro non si sa da quali interessi, non erano anarchici ma fascisti, e Sacco sicuramente della prima ora, un fegatoso, un ribaldo. In quegli anni ad Elioppido la novità più grande, dopo quella dell’arrivo dell’energia elettrica che mandò in pensione acetilene, petrolio, carburo e candele steariche, fu l’apertura del cinema. Sarebbe stato proprio il caso di dire, col regista del film: “Nuovo cinema paradiso”. Perché quegli anni di vita paesana sono legati al cinematografo, che rese tutti felici. La sala del cinema era stata sistemata in un corpo di fabbricato congiunto alla casa del fascio, dove Sacco esercitava notevole influenza quale squadrista oltre forse a coadiuvare il Sapori, che funzionava da operatore nella cabina cinematografica e, da provetto elettricista qual era, curava l’installazione degli impianti elettrici nelle case. Faceva anche il decoratore rivelando molta abilità. Sacco invece aveva aperto un’officina per la riparazione delle motociclette e guidava un auto di servizio pubblico. Pilotava una grossa motocicletta indossando uno scafandro nero, il colore da lui preferito. Karin portava un nome che rispecchiava le sue doti fisiche, era cioè veramente carina al punto da trasmettere alla figlia Ginetta, quella finita nel sacco del motorista, uguale vis atractiva (era proprio il caso di dire qualis mater talis filia). La sessualità del soggetto veniva propagandata persino da un fratello, che confessava di sentirsi spesso turbato dalla visione del suo corpo quando ella, in casa, ne faceva bella mostra esibendosi in atteggiamenti particolari, semisvestita, con una ghepière o composé che la fasciava e modellava mettendo in risalto le curve prorompenti. Gian nina Lancioni, meno appariscente, poteva ugualmente considerarsi una donna interessante e tale da competere con le ragazze più in vista nel territorio. Era già caduta nella rete di un dongiovanni, abitante nella zona, tale Baldo del Ponte, mercante di suini, chiamato sulla piazza Bidipì. Un amore travolgente per costui le aveva fatto perdere la trebisonda e trascurare ogni cautela. Quando il giovane volantino l’aveva piantata in asso per un’altra, una certa Maria di Sandro che abitava anch’essa lungo il canale più a nord oltre il paese, Giannina era caduta in un profondo stato depressivo, vitalizzato unicamente da una disperata voglia di rivalsa e di vendetta. La corte di Menico rappresentò in quel momento l’ancora della salvezza, così ella non esitò a saltare sulla scialuppa per guadagnare la sponda, dalla quale mostrarsi a Baldo strafottente e felice proprio perché felice non era. E a Baldo la sostituzione in tempi così brevi bruciò e lo indispettì al punto da indurlo a escogitare una rivincita. Il sapere che Giannina fosse tra le braccia di un altro e non più tra le sue, anche se la causa risaliva a lui, risvegliava i morsi del la gelosia e lo spingeva a spaventare in qualche modo l’intruso così come già aveva fatto con altri pretendenti, che intimoriti avevano preso il largo. Ma Menico non era un pusillanime da farsi intimidire, la guerra lo aveva vaccinato contro la paura e in fatto di donne poi aveva un fiuto fine e una buona presa. In quel crocevia egli conosceva tutti i misteri e gli intrallazzi, abitudini e sistemi di vita di coloro che attorno ad esso gravitavano. Non era da escludere che egli, prima di legarsi a Giannina e forse anche dopo, avesse “conosciuto” e continuasse a “conoscere” pure altre sottane. Tre uomini: Sacco, Baldo e Menico secondo le chiacchiere della gente, avevano probabilmente intinto la penna negli stessi calamai o in alcuni di essi. Tre donne: Karin, Ginetta e Giannina non erano da considerarsi delle sante. Si diceva, e a quei tempi lo scandalismo non lo facevano i giornali ma le comari al ritorno dalla messa o incontrandosi nelle botteghe della spesa, che nel muretto del ponte di quel crocevia vi fosse un mattone sconnesso, che si estraeva facilmente lasciando lo spazio per introdurre la posta clandestina degli amanti. La località era frequentata, nella stagione della caccia, dai patiti della larga e dagli uccellatori, compresi i civettari. Tra costoro ve n’erano due: un certo Nevolone del paese di Falcone (il protagonista de Il fucile di papa della Ganga di F. Serantini) e Pirogeno di Elioppido, che da Nevolone aveva appreso l’arte. Maestro e allievo nelle notti di settembre, il mese più propizio per la cattura della civetta, uccello sacro ad Atene (da cui il nome Athene noctua) al quale i greci attribuivano la cognizione delle future cose, passavano lunghe ore nei campi al chiaro di luna in attesa che le civette, richiamate da un loro verso col quale imitavano il canto del maschio, finissero in cima a un palo. Alla sommità di questo erano sistemati, oltre a una civetta impagliata, due semicerchi muniti di una rete, che si aprivano e chiudevano a comando. Per loro l’aucupio dei rapaci, esercitato in violazione della normativa venatoria così come in barba alla legge catturavano le quaglie con la rete soprerba copiando col quaglierino, in questo caso, il canto della femmina, rappresentava una doppia soddisfazione: il divertimento della cattura e il lucro realizzato nella vendita delle civette ai cacciatori, più o meno elevato a seconda se queste erano o meno già “appastate”. L’esecrando delitto fu perpetrato la notte del 22 settembre sul ponte del canale, fatale crocevia di amore e di morte. Nel punto in cui Menico fu proditoriamente freddato da un colpo di revolver si erge un rosso pilastrino in muratura, nel quale su di una lastra di ottone ossidata dal tempo è possibile, con molta fatica, leggere: “Qui dove a tradimento la notte del 22 settembre 1925 fu ucciso…
Menico tu Vergine Madre del santo amore parla ognor soave al viandante di perdono e di pace”. Chi lo uccise? Perché fu ucciso? La giustizia non ha mai risposto a queste domande e nelle carte processuali non è consentito indagare perché esse sono state, inopinatamente, spedite al macero in occasione del trasferimento degli archivi dal vecchio al nuovo palazzo di giustizia. Nelle cronache dei giornali del tempo una sola notizia fa capolino in un quotidiano ed è cosi concepita: “Domenica settembre 1925 – I funerali del giovane ucciso presso Elioppido – Elioppido 26 notte. I funerali del compianto giovane Menico, assassinato l’altra notte nei pressi del Canale in questo Comune sono riusciti stamane una vera grandiosa unanime manifestazione di protesta e di esecrazione per l’infame delitto. I colpevoli sono tuttora sconosciuti, ma si spera che il vile assassino, per la sagace avvedutezza del maresciallo Lupi, sia presto assicurato alla giustizia”.
Una speranza che andò delusa perché, nonostante indagini svolte e ripetute più volte, nessun imputato fu mai portato a giudizio e il caso fu chiuso con l’amara declaratoria di non doversi procedere perché ignoti gli autori del reato. Purtroppo questa è la verità. L’autore dell’omicidio non fu mai scoperto benché le investigazioni fossero state esperite abbastanza diligentemente nell’immediato conquesto, come si usa dire, e fossero riprese ogni qualvolta avveniva il cambio della guardia al comando della stazione C.C. di Elioppido. Maresciallo o brigadiere che fosse, non appena investito dal potere, prendeva a cuore l’accaduto, si attivava al massimo, ma ben presto finiva con un nulla di portato avanti; le cose restavano esattamente al punto di prima: buio, buio fondo. E quella notte del delitto era veramente buio perché la luna non solcava ancora il cielo.
Nevolone e Pirogeno, a un centinaio di metri dal ponte, appostati sull’argine sinistro del canale fiancheggiante una stradina bassa chiamata “la Canaletta”, a turno facevano il verso del civettone, lugubre e scandito a intervalli uguali, nella speranza di udire in lontananza una risposta… ma invano perché il silenzio della notte era rotto unicamente dal canto dei grilli e dal gracidare delle rane nel canale. Finché non fosse apparsa la falce della luna le civette non avrebbero dato inizio al concerto notturno. I due abusivi accesero una sigaretta, scrutando i dintorni. Sul ponte comparvero uno o due lumi, si udì poi il canto della prima civetta, e, non molto tempo dopo, l’esplosione di uno sparo che proveniva anch’esso dal ponte e che fu sottolineata da un abbaiare furioso di cani. Pirogeno, che di armi se ne intendeva, escluse che si trattasse di una schioppettata e gettò il mozzicone della sigaretta, seguito in questa mossa da Nevolone, per non correre il rischio di scoprire con la brace la loro presenza. Mentre i due amici, appiattati sull’argine, intuivano che qualcosa di strano e di preoccupante stava accadendo, due carabinieri partiti dalla caserma di Elioppido per un servizio perlustrativo percorrevano in bicicletta la strada del Canale in direzione sud, quando sul loro cammino incrociavano un ciclista che, riconoscendoli dalla divisa, si arrestava. Il ciclista era Sacco, che denunciava di aver udito poco prima uno sparo alle sue spalle all’altezza del ponte. Portati si immediatamente in luogo i militi scoprivano il cadavere di un giovane con la schiena contro il muretto, la testa riversa all’indietro verso il canale e un rivo di sangue che colava dalla bocca. Nella mano destra stringeva una scatola di fiammiferi e nella sinistra rinserrato tra l’indice e il medio, aveva un sigaro intatto. A pochi passi dal cadavere la sua bicicletta appoggiata ad un pioppo col fanale a carburo ancora acceso. Il morto restò piantonato per ore fino all’arrivo dell’autorità giudiziaria e così molti ebbero occasione di vederlo e, tra questi. il padre del perito Minghinio che di buon mattino, venendo dal paese di Falcone, andava al mercato del mercoledì.
Lo riconobbe subito per Menico. L’autopsia accertò che la morte era stata istantanea e prodotta da un proiettile di revolver che, entrato nella bocca, era uscito dall’osso parietale; assenza di lesioni e di qualsiasi altro segno di colluttazione o contusione di sorta. La ricostruzione del crimine lasciava pensare che la vittima conoscesse bene il proprio assassino e che la morte l’avesse raggiunta inaspettatamente: un colpo di revolver esplosole contro quasi a bruciapelo da una persona che stava conversando con lei e che agiva con la freddezza della premeditazione.
Addosso al cadavere era stato trovato il portafogli con una somma di danaro, per cui sembrava da escludere l’omicidio a scopo di rapina. Si diceva che la famiglia non fosse senza soldi e che Menico avesse fatto un prestito a qualcuno, il quale, richiesto della restituzione, non avendo la disponibilità della somma e non vedendo via di uscita, avrebbe imboccato la scorciatoia del delitto. I familiari però, dopo la morte del loro congiunto, non trovarono denaro da nessuna parte e quindi restarono molto scettici di fronte a questa ipotesi anche perché il morto non li aveva mai informati di nulla. Nonostante ciò l’opinione pubblica rimase prevalentemente orientata verso la suddetta ipotesi credendo che si dovesse individuare il debitore assassino nella persona del Sacco, anche in base all’adagio secondo il quale:
“la prima gallina che canta ha fatto l’uovo”. Sacco andava sicuramente armato e aveva il sangue freddo necessario per compiere un delitto con simili modalità. E poi, anche scartando il prestito (e non era così facile scartarlo se si considerava che per impiantare un’officina meccanica e un servizio di autotrasporti occorreva molto denaro) la mano di
Sacco poteva essere stata armata da un movente politico o addirittura dalla gelosia. Tutti o quasi tutti ad Elioppido si aspettavano che da un momento all’altro il solerte maresciallo Lupi dopo autopsia, sopralluoghi, interrogatori vari procedesse al fermo di Sacco… e invece no… il fermato fu Bidipì e cioè Baldo del Ponte. Per lui valeva il movente passionale, poco quello economico anche se il mercato dei maiali registrava in quel periodo perdite su perdite. Baldo potrebbe aver avuto bisogno, per non affondare nel dissesto, di un aiuto, ma chiederlo a un rivale in amore sarebbe stato fuori da ogni logica. Restava l’ipotesi dell’eliminazione di chi gli aveva soffiato la donna, ma non sarebbe stata granché esatta una supposizione del genere perché Baldo era stato lui a ritirarsi dalla scena o quanto meno a dare questa impressione. Le donne del crocevia furono tutte esaminate dall’inquirente, ma il carteggio disperso nel macero non permette di appurare il contenuto delle loro rivelazioni.
Giannina Lancioni doveva probabilmente incontrarsi con Menico quella sera di martedì perché in genere era nelle sere pari che si andava dalla fidanzata, ma non si sa se al momento dell’assassinio l’incontro fosse avvenuto o dovesse ancora avvenire. Karin avrebbe dovuto testimoniare che il genero le aveva fatto visita, indicando l’ora precisa della partenza, perché Sacco non poteva trovarsi a percorrere la via del Canale se non per un unico motivo, quello del ritorno dall’abitazione della famiglia di sua moglie. Ginetta dal canto suo era chiamata a precisare l’ora in cui il marito era uscito di casa e il motivo della visita che andava a compiere a sua madre. Il fermo di Baldo del Ponte non convinceva la gente, già insospettita dal fatto che i giornali non avessero dato notizia dell’assassinio. Tutti i giorni la cronaca della Romagna presentava una rubrica tripartita: omicidi, suicidi, disgrazie con tutti i più minuti particolari. Perché allora passare sotto silenzio un fatto di quella gravità? C’era allora da supporre che fosse piovuto un ordine dall’alto per incanalare le indagini in una determinata direzione evitando di coinvolgere “fascisti di rispetto”, che, stante il difficile momento politico, erano da considerare dei benemeriti se avevano impartito una lezione, sia pure troppo pesante, a un baciapile fraternizzante con gli oppositori di regime. E intanto passavano i giorni, i mesi: il povero Bidipì continuava a languire in carcere. Nevolone e Pirogeno nelle sere che seguirono continuarono ad approfittare della luna per mettere a segno numerose catture: dovevano far fronte a un’infinità di richieste e non potevano venir meno agli impegni presi coi cacciatori. Ma evitarono di tornare nella zona del canale perché quella notte del delitto non l’avrebbero dimenticata mai, avessero campato cent’anni, specie per due circostanze. Mentre si trovavano appiattati a terra nell’argine, dopo lo sparo, avevano assistito al passaggio di un ciclista che, proveniente dal ponte a lume spento e a velocità sostenuta, percorreva la Canaletta verso nord. Si era trattato di un’ombra sfrecciata sotto il loro naso senza che avessero avuto la possibilità di distinguere se fosse un uomo o una donna. E se fosse stato Pidipì diretto verso la casa della Maria di Sandro proprio seguendo il cardine romano formato dalle tre vie Canale Mulini, Canaletta e Molinello? E subito dopo avevano catturato la civetta di cui prima si era udito il canto, sicuramente quella e non un’altra perché Nevolone era un intenditore che non si sbagliava dall’orecchio raffinato come un musicista. Nella spartizione quella civetta era toccata a Pirogeno e fin qui niente di male, ma il male era venuto dopo, quando il rapace gli aveva con un artiglio prodotto un graffio profondo che, per una subentrata infezione, non si rimarginava. Accidenti! Cominciava a credere che avessero ragione coloro che per tradizionali pregiudizi sembravano avere spesso in orrore la sua vicinanza, attribuendo a questo strigiforme la fama di profeta di sventure e considerando la sua voce annunciatrice di disgrazia. Volere o volare il verso di quella notte anticipò di poco l’assassinio e l’artigliata dell’animale era infetta: forse aveva ghermito una vipera o più probabilmente un topo avvelenato o un topo di fogna nel letto del canale, portatore di leptospirosi. La ferita gli aveva già dato la febbre, procurato insonnia e pensieri terribili. La mano era gonfia e gli impacchi di piadanaza suggeritogli da Madâlena de l’Orto non erano serviti a niente. Aveva già deciso di rivolgersi al dottore, tramite la buona parola dell’infermiere Amedeo, quando, come d’incanto, il male se ne andò. Era guarito. Da quel momento rinunciò all’idea di sbarazzarsi della civetta, che sino ad allora non aveva voluto vendere a nessuno per non diventare un involontario portatore di disgrazia. L’addestrò come si deve e scoprì che
“Murtena”, così l’aveva battezzata in un momento di gran pessimismo, funzionava da zimbello come mai nessuna civetta aveva funzionato. Era una civettina piccola, che non faceva mai il salame e dimostrava di essere dotata di una intelligenza eccezionale. La teneva libera nella soffitta e quando vi andava e la chiamava per nome “Murtena” spiccava il volo e finiva col posarsi sulla sua spalla. Fra i due si era instaurato un legame come fra cane e padrone, una specie di amore che per Pirogeno e “Murtena” durò alcuni anni. Se ne parlò a lungo di quella storia negli ambienti dell’uccellagione e ci fu persino chi sostenne che bisognava informarne i naturalisti dell’Università di Bologna per dare un contributo alla scienza. Quando più nessuno se l’aspettava Baldo del Ponte fu rimesso in libertà e le voci che corsero ne attribuirono la causa a una testimonianza di Maria di Sandro, la quale avrebbe fornito alla giustizia un alibi a tenuta quasi stagna. Il momento della morte di Menico era stato calcolato dal perito necroscopico con una approssimazione che apriva una forbice di alcune ore, dentro la quale si giocava la carta decisiva del dentro o fuori. Grave dimenticanza: non si era controllato l’orologio del morto. Si sostiene che nei casi di morte violenta questo si arresti insieme al cuore della vittima. La scarcerazione di Baldo del Ponte segnò praticamente la conclusione dell’istruttoria. L’ultima pagina l’avrebbe potuta scrivere con vero profitto, se non fosse stato analfabeta, un povero mendicante chiamato Suzzi, che bazzicava nella zona elemosinando un tozzo di pane o un bicchiere di vino. Gli capitava ogni tanto di accaparrarsi un osso di prosciutto e in quelle occasioni poteva dire di avere toccato veramente il cielo con un dito. Si metteva l’osso a tracolla a mo’ di fucile o di strumento musicale e, canticchiando le strofe di canzoni da lui stesso composte, percorreva strade e stradine sollevando d’estate, al suo passaggio, una nuvoletta di polvere perché strisciava e non alzava il piede infilato, com’era, in scarpe superiori alla sua misura. Sembrava la brutta copia di Charlot: un’andatura diversa ma una sagoma molto simile. Un pomeriggio Suzzi si trovò a passare per la Via del Canale nel tratto compreso tra il ponte del delitto e la casa di Menico. Aveva bevuto più di un bicchiere e si sentiva le gambe rigide e la testa pesante. Si fermò allora sull’argine e si sdraiò nell’erba addormentandosi cullato dal rumore dell’acqua. Quando, dopo alcune ore aprì gli occhi, notò che la superficie della corrente si era abbassata scoprendo un cappello impigliato in un arbusto. Manovrando da sdraiato riuscì a ricuperarlo. Si trattava di un cappello nero a larghe falde come portava Stefano Pelloni, ancora in ottime condizioni e corrispondente alla misura della sua testa. Lo asciugò al sole, poi, mentre lo rigirava tra le mani tutto soddisfatto, si accorse che, nascosto sotto il nastro, vi era un foglietto di carta scritto per alcune righe. Suzzi era un illetterato, quindi non tentò neppure di decifrarlo. Prese il biglietto, ne fece una pallottola e la gettò in acqua. La corrente, vorticosa in quel punto, la inghiottì por tandola via e portando via con lei la soluzione del dramma. Forse era la ricevuta del prestito che Menico aveva fatto al suo assassino, il quale, rovistando poi nel portafogli del morto e, non avendola trovata, aveva provato un brivido al pensiero del rischio di venire un giorno, per quel pezzo di carta, inchiodato al proprio delitto. Forse era solo l’appuntamento per la sera fatale “Vieni martedì sera alle 9,30 sul ponte…
Ho assolutamente bisogno di parlarti…”. La rievocazione dell’episodio delittuoso, per una necessità di semplificazione, ha trascurato di prendere in considerazione altri aspetti di esso come ad esempio la probabile complicità di un soggetto femminile, l’esistenza di un killer, la possibile, anche se difficile, attribuzione del fatto a persona del tutto diversa da quelle menzionate. A distanza di tanto tempo colpisce ancora la contraddizione che emerge dal testo dell’unica notizia di stampa già riportata: “I colpevoli sono tuttora sconosciuti, ma si spera che il vile assassino…”, in cui la pluralità non va d’accordo con la singolarità. È chiaro però che immediatamente si affacciò l’ipotesi di più persone coinvolte e non di una soltanto. Dopo la liberazione sembra addirittura che un abitante di Elioppido abbia apertamente dichiarato di avere, all’epoca del fatto, respinto una proposta di Sacco che gli aveva offerto un compenso come retribuzione per l’uccisione di Menico. Sorprende ancora il sapere che fino a non molto tempo fa venivano saltuariamente deposti fiori, sul luogo del delitto e anche sulla tomba da mano misteriosa, sicuramente femminile. Rimorso o amore? Difficile poterlo stabilire. La fidanzata Giannina Lancioni? Sembra da escludere perché defunta da troppo tempo e per giunta in manicomio, impazzita dal dolore, non per la perdita di Menico, ma per l’abbandono di Baldo.
L’avreste detto? Misteriose e contorte sono le vie dell’animo umano. E di
Sacco che ne fu? In un primo tempo lasciò Elioppido per un altro paese di
Romagna, operando nei bacini montani e in seguito emigrò nella capitale legando, sembra, i suoi interessi ad ambienti del Vaticano, finché nel938, al seguito di Ettore Muti, prese parte all’impresa di Albania entrando tra i primi nella sala del trono per catturare il Re, il famoso Re Zog che da quel giorno fu deposto. Un personaggio che per coraggio, spavalderia e sangue freddo non si smentì mai e che presentava tutte le stigmate di colui che a tradimento, con un colpo di revolver in bocca, eliminò Menico come si tira il collo a un pollo o si pesta un verme col piede. In uno stato di diritto come il nostro però tutto ciò che viene qui raccontato non è affatto sufficiente per consegnare definitivamente questo caso all’archivio delle nostre coscienze come azione attribuibile a Sacco. Il suo omonimo, (e tutti capiscono al volo il riferimento perché Sacco si chiamava Adolfo) con gli esecrandi misfatti storici commessi, ha indubbiamente contribuito ad oscurare ancora di più la sua figura, ma anche tale considerazione non sposta i termini del problema. Il mistero regna e regnerà per sempre travolto, come è stato, dall’onda del Canale, che lo portò nel fiume e da qui nel mare… La giustizia ne esce sconfitta… quasi disonorata, il che spesso si verifica quando la politica ne intralcia il cammino, sovrasta la paura e soprattutto manca la libertà. Anche il perdono e la pace, senza giustizia, rimangono inesorabilmente parole vuote di significato, che la patina del tempo rende illeggibili sulle lapidi degli assassinati.
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