sabato 14 dicembre 2024

Cynthia Stewart-Copier: Un ultimo desiderio



Il nostro primo miracolo accadde all’inizio del nuovo anno: in gennaio, per essere esatti. Si trattò di un avvenimento simbolico per molti versi. Il primo dell’anno, un nuovo inizio, un occasione per ricominciare. Aspettative, speranze, sogni, e obiettivi. Il momento perfetto per i miracoli.
Ho sentito dire che non esistono piccoli miracoli. E i nostri non sarebbero stati piccoli. Avremmo imparato importanti lezioni di vita che ci avrebbero cambiato in modo ancora difficile da comprendere. L’anno precedente avevamo dovuto affrontare molte perdite. Il fallimento dei nostri affari di famiglia, il dissesto delle nostre finanze, la perdita della casa della nostra famiglia e, quel che più conta, il crollo dei nostri sogni. Sì, quell’anno ci aveva lasciati nella penuria e nell’umiltà, ma la lotta ci aveva reso più forti e più saggi.
Il fatto che iniziasse un nuovo anno ci emozionava. Mai avevamo posseduto così poco e creduto così tanto che il nuovo anno, il 1994, doveva essere il nostro anno. Un anno di ricostruzione, di guarigione e recupero. Comunque, nulla di ciò che avevamo sognato o pianificato avrebbe potuto prepararci per gli eventi che presto avrebbero avuto luogo.
Faceva freddo ed era scuro quella particolare sera di gennaio quando mio marito, Cal, la sentì per la prima volta. Avevamo intrapreso una nuova attività e Cal stava lavorando da solo in uno degli uffici del retro. Improvvisamente udì la voce di una bambina che chiamava: “Papà... Papà... Papà”. Pensando che la bambina si fosse persa, la cercò fuori dall’ingresso, persino nel parcheggio. Non trovando nessuno, ritornò nel suo ufficio per terminare il lavoro. Poi sentì di nuovo la voce della bambina: “Papà... Papà... Papà”. Poiché era solo in ufficio, Cal cercò di trovare una spiegazione logica. Quando quella sera rientrò a casa, mi parlò di ciò che era accaduto. Sembrava sbalordito, comunque nessuno di noi due fu in grado di darsi una risposta; così presi dagli impegni della famiglia, rivolgemmo la nostra attenzione ad altre responsabilità.
Fu solo pochi giorni dopo, un tranquillo pomeriggio in cui eravamo in casa, quando lei arrivò. Cal stava guardando una trasmissione sportiva alla televisione al piano di sotto; io ero di sopra che cercavo di venire a capo di un progetto. Improvvisamente sentii Cal correre su per le scale e prima ancora che entrasse nella stanza potei sentire il suo respiro affannoso. Bianco come un lenzuolo e tremante si avvicinò a me. A causa della fretta di raccontarmi che cos’era accaduto le parole si accavallavano. Era seduto nella sua poltrona a guardare la televisione quando aveva sentito di nuovo la voce di una bambina che chiamava. Era una voce chiara, molto vicina e dolce: “Papà, Papà, Papà”. Cal aveva girato in fretta la testa in direzione della voce e aveva scorto una bambina piccola appena a qualche metro dalla sua poltrona che lo guardava direttamente negli occhi. Era saltato su dalla poltrona e si era voltato di nuovo per vedere dove fosse finita. Poi era corso di sopra a cercarmi.
Si trattava di qualcosa che non riuscivamo a spiegare e che semplicemente sfuggiva alle nostre menti. Che cosa significava? Perché era accaduto? Dio stava cercando di dirci qualcosa, e se era così, che cosa? Poteva trattarsi di una nostra figlia? Non aveva alcun senso. Noi avevamo otto figli. Quattro erano sposati, una figlia era al college e tre ragazzi in casa. Dopo aver avuto tre maschi l’uno dopo l’altro, poteva trattarsi della bambina che avevo tanto sognato e desiderato? Ma perché ora, così tardi nella vita? Non riuscivo a comprenderlo e risposi scherzando: “Tesoro, forse voleva dire ‘nonno’, ma essendo molto piccola è riuscita solo a dire ‘Papà’”. Comunque, quella notte pregai, chiedendo una risposta: si trattava di una figlia che sarebbe arrivata nella nostra famiglia? Alla nostra età? Con altri otto figli? Come avremmo fatto con le nostre finanze, o, meglio, con la mancanza di denaro? E poi, come ero abituata a fare, conclusi con un semplice: “Sia fatta la tua volontà”.
Non rimasi affatto sorpresa quando, qualche settimana dopo mi accorsi che ero incinta. Sapendo che sarebbe stata una bambina, mi precipitai a comprare tutta una serie di stoffe di colore rosa. Cucii lenzuolini, vestiti, copertine e un completo per la culla, tutto rosa! Continuai a cucire per tutta l’estate fino a che arrivò l’autunno. Cal lavorava sodo per allargare la clientela per la nuova attività e inoltre prestava la sua opera come direttore alle vendite per un commerciante. Quando arrivò il mese di novembre era esausto e io avevo ormai superato la data prevista del parto. Tuttavia, come se quell’anno non ci avesse riservato a sufficienza esperienze incredibili, ci aspettava ancora una sorpresa.
Da qualche settimana Cal accusava dei dolori allo stomaco. Essendo una persona che si lamentava raramente, nonostante avesse sofferto spesso di forti dolori durante la sua vita a causa di un trauma natale, io ero preoccupata. Pensai che potesse avere un’ulcera causata dalla tensione dei due anni precedenti e così gli consigliai di fare alcuni esami. Era rientrato da poco dopo aver fatto una lastra quando la dottoressa telefonò a casa.
“Signora Stewart”, mi disse, “ho bisogno di vedere lei e suo marito nel mio studio entro un’ora”. Fui immediatamente sopraffatta da una sensazione di disperazione.
L’aria nello studio medico era molto pesante. Io non mi sentivo affatto bene, avendo superato di ventuno giorni la data del parto e Cal era alle prese con i suoi dolori. Le parole della dottoressa furono pronunciate in fretta e andarono subito al punto: “Signor Stewart, signora, sono dolente di comunicarvi che Cal ha un cancro. Sembra aver avuto origine nell’esofago, ma si è esteso al fegato, allo stomaco e ai linfonodi. È a uno stadio terminale. Spero che lei possa vivere abbastanza da veder nascere sua figlia”.
Per un minuto temetti di impazzire. Potevo a stento credere che avevo davvero sentito la dottoressa augurare a Cal di veder nascere nostra figlia. Non si rendeva conto che avrei potuto partorire da un momento all’altro? Sentii che mi girava la testa e mi sforzai di ascoltare quello che stava dicendo cercando di trattenere le lacrime. Ci dirigemmo alla macchina con passo malfermo. Non so come riuscimmo ad arrivare a casa. Ricordo di essermi trovata ai piedi del letto quella sera con le mani giunte, mentre Cal offriva a Dio tutto il suo cuore, chiedendogli di guarire, implorando una benedizione. Piangeva. Eravamo insieme da tanti anni, decenni, e ricordavo di averlo visto piangere in precedenza solo due volte.
Nei giorni seguenti incontrai molti medici cercando di organizzare qualcosa. Cal aveva deciso di non morire di cancro. Altri erano riusciti a guarire, perché non avrebbe potuto lui?
A tre giorni dalla diagnosi, il 19 di novembre, nacque nostra figlia. La piccola Rebecca creò un certo scompiglio la notte in cui venne al mondo. Fu un evento meraviglioso. Nella stanza c’era tutta la famiglia, i nostri figli e i nostri amici. Durante il travaglio Cal mi fu sempre accanto, mi circondava le spalle con un braccio e mi teneva la mano sul braccio. Come sempre era lì a sostenermi e a farmi forza. Quel giorno non mi resi conto di quanto stava male. E solo a Natale mi raccontò gli altri toccanti eventi che erano accaduti quella notte. Mi disse che si era sentito abbastanza bene tutta la sera, fino al momento in cui Rebecca era nata. Non appena aveva toccato il corpicino adagiato sul mio petto e aveva potuto rendersi conto che la piccola stava bene, si era sentito mancare. Aveva cercato subito una sedia sforzandosi di fugare il senso di morte che lo aveva assalito nel momento stesso in cui la vita era entrata nella bimba appena nata.
Nelle prime ore del mattino Cal, in ginocchio, pregò per la propria vita. Umilmente e colmo di fede, implorò di poter avere altro tempo. Non per se stesso, egli sapeva che la sua ora era giunta, ma per i suoi figli, per sua moglie. Come poteva lasciarla proprio la notte in cui aveva partorito? Chi si sarebbe preso cura di lei e degli altri figli? “Ti prego, ti prego”, implorò, “per mia moglie, per i miei figli, ti prego lasciami altro tempo. Almeno fino a Natale”.
Era l’alba quando si alzò e crollò a letto. Dio avrebbe esaudito il suo ultimo desiderio.
Così festeggiammo il Natale. Festeggiammo la vita, la famiglia, le benedizioni che Dio ci aveva dato. Celebrammo la nascita di suo figlio, Gesù, e la nascita della nostra bimba così perfetta. La famiglia e gli amici ci raggiunsero da tutto il paese per essere con noi l’ultimo Natale di Cal. Furono momenti colmi di gioia, in cui sentimmo l’amore di tutti coloro che ci circondavano.
E poi anche Natale finì, i cantori lasciarono la nostra casa, i familiari e gli amici fecero ritorno alle loro case, l’albero e le luci furono riposti e il corpo di Cal cessò di lottare contro la malattia.
Dormimmo con lui in ospedale le ultime notti, Rebecca e io su una branda accanto al suo letto e un’altra figlia, Rachel, su una poltrona. Il cancro si era esteso al cervello e lui non poteva più parlare, né vedere, né stare sveglio. Ma per due giorni lo assistemmo con apprensione sperando in un altro miracolo. Quando i nostri otto figli vennero, uno per uno, a dare l’estremo saluto a loro padre, al loro eroe, Cal si mise ogni volta a sedere nel letto ad ascoltarli, trasmettendo loro tutto il suo amore e i suoi sentimenti.
Il giorno successivo fummo di nuovo soli. Mi accucciai accanto a lui nel suo letto di ospedale, cercando di fargli sentire tutto ciò che provavo nel cuore. Mi sentivo così indifesa senza di lui, lui si era sempre preso cura di me, di tutti noi. Gli parlai per ore, ricordandogli tutto l’amore e la gioia che avevamo condiviso, i sogni, le meravigliose esperienze che avevamo fatto nel corso della nostra vita insieme. Lo ringraziai per ognuno dei nostri meravigliosi figli, per la sua forza, per la sua pazienza, per il suo cuore sempre aperto al perdono. E lo ringraziai per aver atteso, per aver sopportato il suo dolore e per averci dato quell’ultimo, meraviglioso, Natale insieme.
E poi lo lasciai andare. Gli assicurai che i bambini e io saremmo stati bene. Ora egli poteva partire per la sua dimora celeste.
La nostra figlia più piccola che era venuta a far visita al suo “Papà” quasi un anno prima, sarebbe ora divenuta l’angelo che avrebbe tenuta unita la nostra famiglia in quel tremendo lutto. Giorno dopo giorno la piccola Rebecca portò così tanta gioia e amore nei nostri cuori spezzati che fummo in grado di guarire. Cal non solo era riuscito a sopravvivere fino a Natale, aveva anche fatto alla nostra famiglia il più prezioso dei doni: una parte di sé che sarebbe stata con noi per un’altra intera vita.

 

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