Troppe cose non lo convincevano e Tozzi continuava ad esaminare con attenzione il materiale raccolto sul quel caso strano e assurdo che assumeva sempre più i contorni del mistero. Tutto era iniziato lunedì mattina, verso le 7.00, quando Renzo Falasconi, custode dell’Archivio di Stato di Rimini, pochi giorni alla pensione, disinserito il sistema d’allarme, aveva iniziato il consueto giro d’ispezione degli uffici e delle sale di deposito; una mattina come tante in quarant’anni di servizio ed un’ispezione che, da sempre, rispondeva più ad uno scrupolo burocratico che ad una reale esigenza di sicurezza. La bocca ancora legata dal trebbiano, sparso con generosità sulla rustida di pesce della domenica sera con gli amici, Falasconi quasi assaporava la ritualità di quel suo, incarico d’inizio settimana: il controllo degli ingressi e delle finestre con grate, la verifica degli impianti elettrico e d’allarme e, infine, l’ispezione dei depositi con le raccolte di antiche pergamene e stampe d’epoca, gli atlanti catastali del ’700 acquerellati a mano e gli archivi gentilizi, ricchi di preziosi manoscritti, incunaboli e rare edizioni. Ep pure, l’operosità tranquilla del vecchio custode s’era raggelata nella paura all’ingresso nella quarta sala quando il suo sguardo aveva colto quell’uomo in jeans, maglietta ed espadrillas nere ai piedi, seduto per terra, la schiena contro la scaffalatura, gambe in avanti e braccia lungo i fianchi, la testa reclinata, un borsello di tela a tracolla della spalla sinistra. Un brivido aveva scosso Falasconi e sciolto la sua bocca dalle catene del trebbiano; il grido all’indirizzo dell’uomo era rimasto senza risposta ed il custode, avvicinandosi con la cautela di chi nella paura deve farsi coraggio, s’era accorto come quel corpo giacesse freddo, inerte e senza respiro.
Col cuore in gola Falasconi era volato di corsa al telefono nell’ufficio del direttore, la mano a digitare il 113 e l’occhio all’ingresso della stanza, quasi che da un momento all’altro quell’uomo potesse profilarsi nel vano della porta. Erano trascorsi interminabili secondi d’attesa, la cornetta nell’artiglio freddo della mano, prima che la risposta del piantone facesse dilagare lo spavento di Falasconi in un confuso grido d’aiuto dal quale il poliziotto strappò a stento le indicazioni utili al pronto intervento. Pochi minuti ed una volante con Tozzi, commissario di turno, e due agenti s’era inchiodata in via Gambalunga, davanti al portone con battenti leonini, dove attendevano il custode e il direttore dell’Archivio di Stato, una giovane sciapita, con i capelli corti ed il viso pallido ed occhialuto da mezza suorina.
«Tozzi.»
«Stanzani, direttore dell’Archivio» ed una mano umida come una biscia s’era mollemente abbandonata nel palmo di Tozzi che l’aveva stretta con energia, quasi volesse scuotere quelle malinconiche diottrie. «Il signor Falasconi, il custode che ha scoperto l’accaduto» e un gesto della biscia, di nuovo libera, indicò il poveretto ancora impaurito, ma simpatico nella sua figura asciutta, lo sguardo vivace e due baffi di vigoroso pelo romagnolo. Per Tozzi la settimana iniziava davvero male: innanzitutto era cominciata senza nemmeno un caffè che lo scuotesse dal relax della “Domenica-paga pegno” con Tina, sempre discreta e adorabile nel suo pendolarismo di fine settimana tra Firenze e Rimini; poi, c’era stato l’incontro con la mezza suorina che, dopo Tina, era come cadere dal settimo cielo e infine, quell’odioso eufemismo: l’accaduto! «Allora, vogliamo vedere questo “morto accaduto”?» Aveva sibilato il commissario, avviandosi nel dedalo di corridoi e sale dell’archivio. Gli agenti fecero entrare solo Tozzi e lì, nella quarta sala, nel cattivo odore di muffa e polvere impastate dall’umidità, il commissario trovò il morto così come lo aveva visto il custode; sui trentacinque anni, moro, media altezza, di corporatura robusta ma atletica, l’uomo si sarebbe detto solo assopito contro la scaffalatura stipata di filze, che sul dorso ingiallito recavano una scritta corrosa e sinistra:
“Atti Criminali – Santarcangelo di Rimini”. Intorno un gran disordine: registri, buste, fascicoli di documenti giacevano a terra un po’ in tutta la sala, come se l’uomo, si presumeva il morto, si fosse accanito contro tutti gli archivi custoditi in quel deposito; era davvero difficile capire, o perlomeno intuire, cosa quell’uomo potesse aver cercato. Tozzi si piegò sul morto e ne vide le labbra serrate in una smorfia, gli occhi sbarrati e, sul collo, un rivolo rappreso di sangue giù da un’escoriazione sulla parte sinistra della nuca. «Cosa cercava quest’uomo? Come aveva fatto ad entrare senza nessuna effrazione e con il sistema d’allarme inserito?» e, intanto, Tozzi considerava la figura trasandata del morto con un orec chino al lobo sinistro ed un anello d’argento a forma di serpente stretto al medio destro; quel look da fricchettone, però, non convinceva, stonava troppo con il “Breitling” da polso, plurifunzione e con il tatuaggio accurato, al braccio sinistro, di un coccodrillo minaccioso sullo stampatello di “TERRA MARIQUE VICTORIA SEMPER”. Il commissario fu distolto dall’arrivo della polizia scientifica e del medico legale per l’esecuzione dei rilievi e dei primi accertamenti; Tozzi ricambiò i saluti frettolosi ed uscì dalla sala, deciso a chiarire un dubbio troppo importante. Dribblò nel corridoio la direttrice e raggiunse Falasconi che in compagnia di due colleghi appariva già più tranquillo e controllato.
Quasi con un sorriso d’intesa: «Va un po’ meglio, signor Falasconi? La paura è stata grande, ma vedrà, presto passerà tutto».
Tozzi aveva cercato un tono rassicurante che ammorbidisse la domanda che più gli premeva:
«Senta, sono imbarazzato nel chiederlo, ma mi creda, è molto importante; lei è convinto di aver staccato l’allarme o, meglio ancora, è sicuro che l’allarme fosse in funzione prima dell’ispezione?». Il custode era stato comprensivo: «Capisco, ma non dubiti; l’allarme era in funzione con la spia rossa su “on”, ho infilato la chiavetta nel quadro e l’ho girata a sinistra finché s’è acceso il verde di “off”; l’inserimento è più semplice, si pigia “on” ed è fatta. Solo noi custodi, a turno, siamo responsabili dell’allarme, entrando dall’ingresso di servizio di via Angherà» e, quasi d’intesa, Falasconi e i due colleghi avevano mostrato ciascuno una chiavetta tutta zigrinata.
Comunque, in caso di necessità, durante la chiusura dell’archivio, l’allarme può essere acceso o spento direttamente dalla Questura tramite collegamento in ponte radio. Questo è tutto, commissario.»
«Grazie, mi è stato di aiuto» e Tozzi ritornò nella sala del morto dove lo attendevano il dr. Poggi, medico legale, e l’ispettore Baldi.
«Bene, la morte risale attorno alle due di stanotte e pare avvenuta per cause naturali; l’escoriazione alla nuca è certamente dovuta alla caduta su una superficie abrasiva molto sottile, un bordo tagliente, uno spigolo, chissà, ma qui attorno, anche sulle scaffalature, non ho trovato tracce di sangue. Quanto prima le manderò il referto dell’autopsia; la saluto, commissario.»
Sempre preciso e conciso il dr. Poggi, ancora combattuto tra il vizio del fumo e la voglia di smettere.
Con l’ispettore Baldi c’era una vecchia amicizia: compagni di scuola sino al liceo, s’erano, poi, persi di vista alle soglie dell’Università. La tragica morte del padre in una sparatoria con dei rapinatori aveva costretto Baldi a divenirne il sostituto a tutti gli effetti, compreso il posto di ispettore di polizia. Tozzi, invece, con i suoi studi di legge senza gloria e senza infamia, prima aveva sognato di fare il magistrato o l’avvocato, poi, alla fine, s’era ritrovato commissario nel casino di Rimini. Adesso, però, l’ispettore e il commissario erano di nuovo assieme, l’amicizia su tutto.
«L’uomo non ha documenti addosso, va identificato e nel borsello abbiamo trovato questo» e Baldi indicò gli oggetti.
«C’era un telefono cellulare a memoria programmabile e con codice d’accesso, roba da vip, vedremo di leggere numeri e nomi in memoria. Poi, c’era questa chiave per porte blindate; sì, ho già verificato, apre l’ingresso dell’archivio di via Angherà. Infine, quest’appunto a matita:
“C.I.F. 72”, va a capire cos’è! Ehi, Marco, ma mi ascolti o no?»
«Sì, sì, ma, guarda un po’ le suole di queste espadrillas» e aveva tirato Baldi verso il morto. «Vedi, destra e sinistra sono invertite, si nota con difficoltà perché queste calzature hanno suole poco sagomate, ma con un po’ di attenzione… certo è strano, Luciano, che un falso fricchettone con accessori vip non sapesse mettersi le scarpe!» S’erano accosciati ai piedi del morto e ciascuno ne sollevò una gamba tirando l’orlo dei jeans: la tela del tallone delle espadrillas era così sporca da togliere ogni dubbio ai due amici che si guardarono e s’intesero. Poi, dopo l’arrivo del magistrato ed il disbrigo degli ultimi atti l’ispettore ed il commissario erano usciti alla ricerca di un caffè e di un raggio di sole.
Adesso, venerdì, a cinque giorni dalla scoperta di Falasconi, Tozzi era inchiodato alla scrivania nell’afa appiccicosa di luglio. Baldi lo aveva avvertito di alcune novità e, intanto, nell’attesa, il nostro commissario cercava di interpretare gli elementi raccolti:– l’archivio era protetto da un rilevatore di volumi in movimento, per questo il morto non aveva fatto scattare l’allarme inserito;– il fricchettone, non ancora identificato, era deceduto all’istante per la rottura di un aneurisma cerebrale congenito e il dr. Poggi nel suo referto evidenziava l’innaturalità della posizione del cadavere, così come rinvenuto; per un ictus, di solito, si stramazza pesantemente a terra, rimanendovi in atteggiamenti scomposti, e nella caduta sono possibili escoriazioni e tumefazioni. Certo, non si cade seduti, gambe unite in avanti e braccia lungo i fianchi e, soprattutto, senza perdere il borsello a tracolla;– se il custode diceva la verità, non si poteva pensare che fosse stato il morto a disinserire l’allarme, dopo l’entrata in archivio, perché come aveva con sé la chiave della porta di servizio così avrebbe perlomeno dovuto disporre della chiavetta zigrinata o di attrezzi utili. Inoltre, se anche Falasconi fosse stato suo complice, lo avrebbe fornito di tutte e due le chiavi. Più che mai era improbabile che il morto avesse inserito di nuovo l’allarme dal mondo dell’aldilà;– lo sconosciuto aveva ignorato gli armadi blindati con il materiale archivistico più prezioso, quindi, non era un ladro professionista;– solo il telefonino poteva essere stato strumento di complicità e solo in quell’appunto a matita, “C.I.F. 72”, stava l’indicazione di cosa l’uomo avesse cercato tra la muffa e la polvere.
Tozzi scarabocchiava ai lati la sua scaletta quando l’ispettore entrò nella stanza. «Allora?» Baldi tacque, chiuse la porta e con un cenno chiamò l’amico vicino la finestra aperta ai rumori e alle voci di corso d’Augusto.
«Siamo finiti su un campo minato, come ti muovi scoppia un casino!» e trasse di tasca un foglio fitto, fitto della sua minuta scrittura. «Il morto» prosegui «è tale Stefano Antonelli, di Ivrea, classe 1960, residente a Milano, volontario paracadutista a sedici anni a Pisa, diplomatosi perito elettronico durante la leva, poi ammesso alla Scuola Sottufficiali dell’Esercito e assegnato, a fine corso, al III Battaglione Lagunare di Grado al motto di “TERRA MARIQUE…” etc. etc. Militare preparato e disciplinato, orientato a destra senza eccessi, nel 1987 l’Antonelli resta coinvolto nelle indagini del magistrato di Venezia su un traffico internazionale di armi. Prosciolto in istruttoria, si congeda e viene assunto dalla ELETTRONICA GENERALE s..r.l. di Milano, nessuna registrazione della società e sede in via Turati 16 con porta blindata, sorvegliata da telecamera esterna; si entra solo dietro riconoscimento; nessun recapito telefonico anche se dietro la porta squilla il telefono e gracchia il fax. In realtà, si tratta di un centro operativo dell’U.S.S., Ufficio per la Sicurezza dello Stato, roba che scotta!»
Ora, Tozzi sudava, gli occhi fissi al foglio di Luciano.
«E il telefonino?»
Baldi allargò le braccia: «Memoria vuota, senza numeri e nomi. Il cellulare, poi, risulta registrato all’ELETTRONICA GENERALE ed il numero d’utenza è riservato, “top secret”; abbiamo solo saputo che nella notte tra domenica e lunedì vi sono state due telefonate in partenza da quel telefonino. Quindi, il morto ha chiamato due volte, prima di entrare e prima di uscire dall’archivio, ed il complice ha finto di rispondere a chiamate di servizio ed ha potuto staccare e, poi, riattaccare l’allarme…»
«Magari in automatico col ponte radio!» lo interruppe Tozzi «e dopo, alle .00, è smontato dal servizio di piantone. Una bella famiglia la nostra, non c’è che dire!»
«Può cambiare qualche dettaglio, ma la sostanza è questa» prosegui Baldi «e, guarda caso, qui le due telefonate non sono state registrate ed il piantone, da mercoledì, risulta trasferito alla celere di Milano, capisci, di Mi-la-no!» sillabò l’ispettore.
«E noi, comunque, non abbiamo uno straccio di prova» concluse deluso il commissario. Gli scosse il telefono. «Tozzi.»
«Sono Canessa, caro dottore, volevo avvertirla che il caso dell’Archivio di Stato diventa di mia esclusiva competenza; sa, in alto si è voluto così e…»
«Ma, Signor Questore, stiamo ancora indagando.»
«Non si preoccupi, mi faccia avere tutto, proprio tutto, il materiale raccolto, comprese le informazioni dell’ispettore Baldi. Vede, dottore» e qui il tono si fece conciliante, ma duro «è una questione delicata che tocca il nostro sistema politico e le nostre istituzioni e noi tutti dobbiamo difendere quest’ordine sociale ed istituzionale, costi quel che costi, comprende? Ci pensi, caro Tozzi, a volte può essere inopportuno, dico inopportuno, superare certi limiti. La saluto, commissario, e provveda quanto prima.»
«E bravo il paraculo!» fu il rabbioso pensiero di Tozzi, lo sguardo a Baldi che aveva ascoltato all’altro apparecchio. Ora, tutto quadrava; relazioni, referti, informazioni e fotografie finivano sul tavolo di Canessa. Nella testa dell’ispettore e del commissario restava, però, un elemento, sfuggito agli occhi di tutti e ai verbali, l’unico che potesse dire cosa l’Antonelli cercasse tra la polvere e la muffa dell’archivio. Sapevano d’essere spiati e decisero che uno solo sarebbe andato. Tozzi chiese un giorno di ferie per l’indomani, il sabato, disse in giro che faceva una scappata a Firenze, la sua città, e dalla questura chiamò Tina per avvertirla. Alla fine del servizio saltò sul “duetto” Alfa Romeo da scapolo impenitente, prese l’autostrada verso Bologna, l’occhio fisso al retrovisore, ma a Cesena tornò indietro sulla via Emilia e raggiunse Ca’ Le Grazie sotto la collina di Covignano. Scese davanti ad una casa in pietra grezza, il sole sulle persiane verdi socchiuse e un uomo sotto il pergolato nel saluto del braccio levato. «L’aspettavo, commissario, me la sentivo che, prima o poi, sarebbe venuto. Ma venga dentro, c’è fresco, beviamo qualcosa.»
Tozzi provò vergogna delle sue scarpe polverose sul cotto lucido di diavolina e sprofondò nel soffio morbido del salotto, mentre la sorella dell’uomo versava l’Albana fresco con l’autorità dell’arzdora.
«Sono venuto perché solo lei può dirmi quello che tutti vogliono nascondere. Lei ha detto la verità, ma non fino in fondo; un paio di scarpe di corda ha fatto la spia: la destra va sul piede destro e la sinistra su quello sinistro, caro Falasconi!»
«Eh, la paura e la fretta fanno dei brutti scherzi, ma tagliamo corto, commissario, le dirò tutto. L’uomo era bocconi nella quinta sala sotto l’archivio del Partito Nazionale Fascista e lo spigolo del secondo ripiano, da terra, era sporco di uno sberleffo di sangue. L’ho toccato col piede, ma niente, freddo stecchito e sotto un braccio una cartellina gialla con il numero 72: “Partito Nazionale Fascista, Federazione di Rimini, fascicolo riservato di Carlo Innocenti Frascara, classe918…”.»
«“C.I.F. 72”, un numero d’ordine e le iniziali di un nome» ricollegò Tozzi.
«Proprio lui» continuava Falasconi «il senatore, il fondatore del Credito Nazionale e, oggi, presidente del movimento “NUOVA ITALIA”. Il morto l’avrei lasciato lì se sfogliando la cartellina, non avessi trovato quella maledetta velina: “26 giugno 1944, il camerata Carlo Innocenti Frascara, capitano della Milizia Repubblicana, in località Ca’ Le Grazie di Covignano compiva un’azione di rastrellamento contro elementi avversi alla Repubblica Sociale Italiana; per i precedenti politici dei catturati e le informazioni su questi stessi, da fonte fidata, l’ufficiale decideva la fucilazione sul posto di n. 5 componenti della famiglia di Falasconi Luigi di Antonio, agricoltore su proprio fondo…”. Seguiva l’elenco dei “sottoposti ad esecuzione immediata di pena”: i miei genitori ed i miei tre fratelli maggiori. Io e mia sorella, quattordici anni lei e nove io, ci salvammo perché sfollati dalla zia di Monte Copiolo e dopo, in tanti, tanti anni non abbiamo mai trovato un testimone o una traccia per arrivare agli assassini. Non ho capito più niente, commissario; nella rabbia e nel dolore di una vendetta insperata ho trascinato il morto nella quarta sala, perché non si capisse dove quel disgraziato aveva frugato, e l’ho sistemato come lei sa, purtroppo sbagliando a rimettergli le scarpe che s’erano sfilate.
Poi, ho fatto un po’ di disordine per confondere ancora di più le idee, ho pulito lo sberleffo di sangue nell’altra stanza ed ho fotocopiato di corsa la velina, rimettendola a posto con la cartellina.»
«E quella fotocopia, Falasconi?»
«Viaggia, oh, come viaggia! Corre verso la verità, e per aiutarla le abbiamo dato una bella spinta, io e la dottoressa Stanzani!» e Tozzi quasi trasalì per la sorpresa.
«Sapevo che una figlia di anarchici di Carrara m’avrebbe capito e così è stato. Adesso, la gente chiederà conto al senatore di quella strage e lui non potrà negare o giustificarsi perché sa di quella velina polverosa che racconta, comunque, la sua storia di assassino senza scrupoli di contadini inermi. E anche se, oggi, quel delitto è prescritto, mi diceva il diret tore, ebbene, Innocenti Frascara pagherà con la vergogna, con il disprezzo o il sospetto della gente, con la rabbia di sentirsi scoperto, abbandonato e schiacciato. Commissario, mi deve capire, era la mia famiglia e nessuna colpa può essere così grande, ammesso che vi sia, da meritare la morte» e qui Falasconi scoppiò a piangere, le mani sul volto, mentre la sorella, a testa bassa, tormentava l’orlo del grembiule.
Nel salotto di diavolina rossa Tozzi si alzò, quasi dietro un moscone che ronzava nell’ombra, ed uscì in silenzio, calandosi i “ray ban” sugli occhi lucidi.
L’indomani lo svegliarono le campane di Santa Croce e la telefonata di Baldi: «Sono Luciano, apri le orecchie: “Nuova Italia, trema. Il presidente Innocenti Frascara, assassino senza pietà” oppure “Seconda Repubblica: fucilatore fascista, alla guida del partito di maggioranza”; è una bomba e che botto!»
«Me l’aspettavo, adesso sono tutti fottuti, compreso “il paraculo della questione delicata”; ora, però, fammi dormire, ci vediamo domani» e Tozzi riattaccò allungandosi nel tepore di Tina.
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