sabato 16 novembre 2024

Diana Merisi: L'anello mancante


La bambina entrò dalla porta sul dietro, attraversò la stretta cucina puzzolente. In quell’ora di pausa anche gli sguatteri avevano lasciato il ristorante. C’erano solo orde di scarafaggi color caffè a contendersi le sgocciolature dei sughi sulle pareti. Una radio lasciata accesa dal cuoco marocchino: riusciva sempre a beccare la stazione tangerina. C’erano scarafaggi anche nel mucchio di couscous pronto per la cena. La bambina guardò meglio nella zuppiera. Sembrava un dito, spuntava appena fra i granuli bianchi, il dito di un piede. Corse nella sala da pranzo. Le veneziane erano abbassate, una sbatteva, segno che la finestra era aperta.
Tutte le sedie erano capovolte e appoggiate sopra i tavoli. Prese la pinza da un secchiello per il ghiaccio e tornò in cucina. Il dito era scomparso sotto un nugolo di blatte, si davano un gran daffare con antenne e zampette, apparentemente solo per curiosità, o studio, senza alcuna voglia di assaggiarlo. La bambina frugò nel couscous con la pinza, estrasse il dito, lo avvolse nella stagnola, e stringendo in mano il fagottino uscì dalla medesima porta per la quale era entrata.
Monsieur
È il padrone, lui. Quante arie. Si veste di bianco, alla coloniale. Non ci ha più il fisico, numero uno; numero due, anche lui è pied-noir, come gli altri, né più né meno, dunque, meno storie. Beve orzata e rum, nei gesti e nel dare gli appuntamenti gli piace fare Casablanca. Ha splendidi occhi di porcellana, sprecati. Il ristorante è bene avviato, ma ha già avuto guai con l’Ufficio d’Igiene. Siamo sul mare, è la musica di fondo, la brezza entra dalla porta e esce dalle finestre. Quando ci sono seccature, Monsieur non si fa trovare, se la fila dalla parte della cucina, siede sul muretto a destra del pergolato, lì aspira profondamente gli odori marini, il vento di ponente, gli effluvi della frittura; qualcuno gli porta un piattino di frutti di mare crudi con lo spicchio di limone. Da qualche giorno Madame non si fa vedere. Partita, dice lui: “alcune” settimane di vacanza. Lei riconosce questa? – L’Ispettore gli mostra un beauty-case azzurro. Certo! È la valigetta di mia moglie. Come può esserne così sicuro? C’è questo graffio vicino alla maniglia, vede? Effettivamente… Lei sa cosa contiene?
Naturalmente, no: però posso immaginarlo. Non indovinerebbe mai. Be’, mia moglie ha una passione, una vera passione, per i profumi italiani. Devo chiederle di seguirmi al Commissariato.
Suore
Alla fine del pomeriggio Monsieur è ancora al Commissariato. Giacca e pantaloni tutti una piega. Colletto slacciato, farfalla di traverso.
L’Ispettore, ormai, gli parla come a un vecchio amico. «Lo tenevamo d’occhio. Sulla Promenade. Andava su e giù con questo pacco male incartato.
Lo faccio fermare. Si tratta del beauty-case. Dentro: cinquecento dosi di ero e strumenti chirurgici da callista. Si è impiccato in cella due giorni fa. Abbiamo dato il corpo alle Suore della Passione, come al solito, per lavarlo e prepararlo per la sepoltura. Mi telefona la Superiora. Che mandi subito a riprenderlo, lo porti via, ora, subito. Vado personalmente, la voce della suora mi ha allarmato. Trovo le suore in ginocchio sul pavimento, il letto in mezzo. Scopro la salma. Normale, con gli impiccati: un’erezione indomabile; poi, sa, c’era l’aggravante del rigor mortis. L’hanno dovuto mettere in cassa i miei uomini, così, alla meglio, forzando un po’. Bene: ora occorre assolutamente che Madame si presenti e chiarisca la faccenda del beauty-case: c’è la roba, e c’è che uno dei bisturi da callista è sporco di sangue. Umano.»
Cucina
Ah è lei disse il cuoco. Sorrise forzatamente, continuò a tagliare il mazzo dei porri.
«Sono dovuto uscire per portare il furgone dal meccanico, ecco perché non c’ero. Comunque, è tutto nella valigetta di Madame. Tutto: fuorché il chip, naturalmente. C’è stato un piccolo problema. Poteva essere previsto, conoscendo il tipo. Per recuperare la fascetta aveva dovuto tagliare, mi disse. E va bene. Poi però non ha resistito: si è fatto una pera, lo stronzo, l’hanno beccato che era via di testa, passeggiava sulla Promenade, partito, completamente, col beauty-case al braccio. Ora s’è appeso al lenzuolo: l’avrei strangolato io se non ci riusciva da solo. Rivoglio la roba. È già piazzata. La fascetta col chip… possibile che addosso non gliel’hanno trovata? avranno cercato nel buco del culo? Madame darà delle spiegazioni… le darà eccome se non vuole che le tagli il resto del piede.
Ehi ma che fa! pochi scherzi: giù quell’arnese… basta!»
La mannaia tocca appena la gola. Un fiotto di sangue impregna completamente il grembiule. La porta cigola nel tenue vento della sera.
La bambina
L’aula si stava svuotando. La bambina si attardava per i banchi. Suor Thérése aspettò che tutte le altre fossero uscite. Chiuse la porta. Si guardarono.
«Hai trovato quella cosa?»
«Sì. Era in cucina.»
«Me l’hai portata?» porse la mano.
«No. L’ho messo via.»
«Dove?»
«A casa. Nel freezer. Lo porto domani.»
«Aveva intorno un anellino?»
«No.»
La suora improvvisamente molla un ceffone. Gli occhi della bambina pieni di lacrime.
«Non devi dire le bugie a me, capito? Non mi importa del dito. Ti ho chiesto di cercarlo perché volevo l’anello. Dove l’hai messo?»
«Non c’era, lo giuro, Sorella. Ho guardato bene.»
«Basta. Cercheremo ancora. Non devi parlarne con nessuno, hai capito?»
«Ho capito, sì.»
«Ti avevo detto di venire accompagnata da papà.»
«Papà ieri sera non è rientrato. Ho dormito da mia nonna.»
«Devi buttare quel dito. L’hai nascosto bene?»
«Sì, sotto il ghiaccio, anzi, sotto un pesce congelato.»
«Vai a casa, riprendilo, poi gettalo dal molo. Ma non farti vedere, nessuno deve vederti.»
«Ho capito.»
A casa la bambina trova l’Ispettore con due gendarmi. L’Ispettore ha già scovato l’involtino nel freezer; ora è sul tavolo, in un piatto davanti a lui, si scongela, la carta è macchiata di rosa.
«È tuo, questo?»
«Questo, cosa?»
«Sai benissimo cosa c’è dentro.»
«Non so niente. Chiedetelo a papà.»
«Se vuoi vedere papà devi venire con noi.»
«Cosa è successo?»
«Non sta bene. È rimasto ferito. Lascia la cartella e vieni con noi.»
«È morto?»
«Sì.»
«Chi è stato?»
«Non lo sappiamo. Vogliamo scoprirlo. Tu ci aiuterai.» Dalla tasca posteriore dei pantaloni l’Ispettore tira fuori un sacchetto di plastica, vi lascia cadere il fagottino, apre il freezer, prende un po’ di ghiaccio, lo mette nel sacchetto, sigilla con un nodo e lo porge a uno dei gendarmi.
«Dovrai dirmi quello che sai. Ora che tuo papà non c’è più devi aiutarci a scoprire…»
«Io non so niente. Ero a scuola.»
Interno
La stanza dell’Ispettore. Fa parte dello stesso film nel quale Monsieur crede di vivere. Gelosie abbassate, ventilatore a pale sul soffitto regolato al minimo, due tavoli con carte, portacenere e una caraffa d’acqua gelata.
«Fra 24 ore dovrà rilasciarmi in ogni modo. Mi metta fuori ora e avremo più probabilità di ritrovare mia moglie. E allora sarà tutto chiarito.»
«Come può trovarla lei se continua a dirmi di non sapere dov’è andata?»
«Forse non è lontano. Forse è solo spaventata. Sapendo che sono tornato a casa, si farà viva.»
«Comunque con quello che abbiamo trovato nella valigetta come vuole che possa lasciarla andare? E il cuoco sgozzato come un maiale?»
«Guardi che io ho dormito qui ieri sera, ospite suo.»
«Già: ma perché il suo cuoco, nel suo ristorante? Lei deve smettere di fare il trasognato. Sputi qualcosa: poi scendo in pista io.»
Il gendarme sulla porta da cinque minuti approfitta della pausa:
«Ispettore, c’è un altro fesso che dà i numeri. Era seduto qui di fronte, ma aveva ancora la siringa in mano.»
«Sbattilo in cella. Ehi: togli tutti i lacci, via anche i lenzuoli, perquisiscilo. Di coglioni appesi ne basta uno alla settimana.»
«Non ha documenti, niente di niente.»
«Aspettiamo che gli passi. Quando entra in crisi lo facciamo parlare. E lei, Monsieur, temo che dovrà sottoporsi… eh sì, anche lei… consegni tutto, orologio, portafoglio etc. Faccia vedere: ecco, anche le bretelle.»
«Lei si rende conto, Ispettore…»
«Non faccia l’indignato. Lei mi ha rotto le scatole. E a quest’ora ho fame.
Anche lei vuole da mangiare? Dia il denaro al piantone. C’è un ristorante qui dietro: un po’ meno pericoloso del suo.»
Interno dell’interno
A qualcuno succede qualcosa. Ma anche quello che non succede fa parte della storia, anche quello che io non scopro e che agisce nelle pieghe della storia come una bomba a tempo, o un cancro bene intanato che rode e cresce lentamente fino a quando lo si scopre, troppo tardi. Eppure io so che solo i fessi diffidano delle apparenze. Il mistero è negli indizi: non certo nelle prove. Dupin non aveva bisogno d’altro. Don Isidoro in galera non disponeva nemmeno di una calcolatrice. Sto forse scontando un eccesso di vantaggi? Quei quattro soldi di droga sbandierati così platealmente.
Nessuno li ha reclamati, neppure per vie traverse: perfino Monsieur ha sorvolato. Troppo disinteresse. Solo un giochetto per depistarmi? e quello stronzo che si impicca? e il dito in frigo? e il cuoco macellato? e la bambina che non si commuove? Mi sembra di essere davanti a una di quelle vanitas spagnole del Seicento: in primo piano l’anamorfosi di un teschio appoggiato casualmente su un canterano, qualche altro simbolo allegro, il tutto su un bello sfondo cupo da santignazio. Poi… nella semioscurità comincio a distinguere la fisionomia che affiora in una tenue luminescenza lattiginosa, il volto attonito di qualcuno che contempla la notte della Controriforma; è perplesso, forse atterrito, e al tempo stesso per così dire somatizza lo stato delle cose. E il pittore medesimo che si mette in scena, regista di questa apparecchiatura macabra; non ha resistito, ha serbato per sé la parte del convitato di pietra e adesso che noi “abbiamo visto” intende trascinarci con lui nel suo inferno. Questo per dire che da qualche parte, qui intorno, forse molto vicino, avverto la presenza occulta di chi ha escogitato questo pasticcio e tuttora ne sorveglia la cottura.
Quel dito indica qualcosa… anche se è il dito di un piede… un avvertimento? un ultimatum? o a quel dito era attaccato qualcosa che è scomparso? Se è così, deve trattarsi di qualcosa di molto piccolo, per poterselo tenere attaccato a un dito… un anello? Ah, non voglio perderci l’appetito. E l’Ispettore seguì la traccia inebriante dei rognoncini sauté che lo condusse al ristorante.
Eminenza
Preceduto da quattro monsignori in calze viola il Cardinale uscì dalla toilette-uomini dell’aeroporto. Gli piace da morire pisciare in piedi come un vero maschio, e ha sempre voluto farsi installare un vespasiano all’arcivescovado. Non ha mai avuto il coraggio. I quattro segretari portano ciascuno una ventiquattrore in cuoio di bufalo naturale, fendono con fermezza gli assembramenti di viaggiatori, spostano i bambini, istradano il padrone verso la saletta riservata ai vip. Uno di questi monsignori, magro, sui cinquanta, abbronzato e muscoloso sotto il clergyman, con ciuffi di peli che escono dagli orecchi, ha un rigonfio all’altezza della milza. Due notti fa, come (letteralmente) guardia del corpo dell’Eminenza, gli ha salvato la pelle con una spinta provvidenziale al momento giusto, beccandosi lui la pallottola dello Stronzo. Dallo stupore dei due preti, però, lo Stronzo ha capito al volo che il chip loro non ce l’avevano. Ecco perché si è fatto arrestare come drogato: per poter passare un paio di giorni in guardina, nella stessa cella dell’impiccato.
Per cercare quello che l’impiccato ha dovuto nascondere qui: per forza.
Intanto, nella saletta vip, l’Eminenza, un po’ accasciato, controlla per l’ultima volta le valigette, la valuta bella calda sotto uno strato di ex voto argentei, la neve purissima in contenitori di borotalco.
«Potrete trovarmi alla Foresteria, dopo le 22. Questo è il mio ultimo viaggio a Roma.»
«Sì, Eminenza.»
«Vi rendete conto che parto con le briciole? A Roma mi aspettano con tutt’altra mercanzia. Sono furioso! Mi avevate garantito che era tutto sotto controllo! La donna! Dov’è quella donna?»
«La troviamo, Eminenza. Entro dodici ore. E la sistemiamo.»
«Imbecilli. Basta con questi omicidi da commedia. Mi sento già il fiato dell’Ispettore sul collo. La gente deve sparire: non essere ritrovata in un lago di sangue. Cristo! (Perdonatemi…)»
«Eminenza: la donna è ancora in città. E questione di ore.»
«Auguratevi che ce l’abbia ancora lei. Be’, hanno chiamato il volo. Datemi una mano con i bagagli fino all’imbarco.» Più o meno in contemporanea lo Stronzo firma delle ricevute e viene rilasciato. In una crepa del tavolaccio stuccata col chewing gum ha trovato quel che cercava: l’ha incorporato in una pallottola di mollica di pane e (prevedibile) se l’è ficcato in culo. Esce e respira l’aria della libertà.
Le Cirque
Gli elefanti sono quelli che danno meno fastidi. Le scimmie fanno un casino assordante. Il vero problema, ogni volta, sono i coccodrilli.
Pretenderebbero un sacrificio umano: gli si promette qualcosa, poi quando sono incastrati nella vasca da trasporto, un paio di bastonate sulla zucca e qualche pantegana che strilla, per tenerli buoni. Il Direttore confabula per mezz’ora con il Commissario della Sanità e con due Megères della Protezione Animali. Ci sono un mucchio di Dichiarazioni da firmare: prima della partenza. Gli affari sono affari: anche per assistere all’ultimo pasto delle belve, e alle varie cerimonie del commiato, un bigliettino ridotto bisogna pagarlo. Prima si passano in rivista le gabbie, poi si possono visitare le roulottes: non tutte però, i nani e l’Uomo Serpente non possono essere disturbati, dormono durante il giorno.
La bambina è felice col suo enorme sacco di noccioline; la suora la trascina via a fatica dal Canguro Boxeur. Bussano alla roulotte della Donna Barbuta almeno cinque volte, poi una voce profonda risponde finalmente, si apre uno spiraglio, la suora si guarda in giro, nessuno, mette un piede nella porta, la Donna Barbuta squittisce, pesta il piede con un bastone, la suora non molla, si butta contro la porta, la spalanca, entra, per un momento la Donna Barbuta e la suora sono in piedi l’una davanti all’altra, la suora sbatte la porta con un calcio, la bambina corre via dalle foche, le due donne si accapigliano, lottano violentemente insultandosi fra i denti, parole irripetibili, finché la barba si scolla, un orecchio della suora è lacerato, le due donne sono una sopra all’altra, la roulotte balla come se il Gigante stesse incaprettando la Principessa.
«Puttana! dove l’hai messo? ti spello, ti rovescio come la buccia di un coniglio, me lo dai con le buone oppure…» la ex Donna Barbuta ha colpito la suora con un calcio all’inguine, la monachina è senza fiato ma si riprende subito, agguanta le tette della signora e stringe, stringe, il volto della donna si caglia come latte, geme.
«Lasciami, non ho niente, non so dove sia… voglio solo andarmene… non ce l’ho, te lo giuro…»
«Ah Madame! siete proprio una gran troia bugiarda!» e la suora sente sottomano la barba fluente, la ficca in bocca a Madame, le immobilizza i polsi, le siede sulla pancia, la guarda con voluttà mentre annaspa e gli occhi le escono dalla testa, la sente soffocare nella sua stretta.
«Affoga, troia, affoga se non mi vuoi dire a chi l’hai dato! mangiati la barba! lo troverò da sola, sai? Crepa!»
Madame emette dalla bocca una bava mucosa, poi si inarca in un improvviso sussulto, l’ultimo.
Gatto e topi
«Le piace Sting?» domandò l’Ispettore. «Ho tutta l’opera in trenta CD.»
Ma senti questo, pensò Monsieur: parla di Sting come parlasse di Beethoven.
«Mi fa impazzire» rispose all’Ispettore. «Al ristorante solo Sting e Thelonius: come sottofondo, lei ricorderà.»
«Mettere Sting come sottofondo è non avere capito con chi si ha a che fare, Monsieur, se permette. Ma non voglio polemizzare. Almeno, non oggi. Il giudice mi consiglia di rilasciarla: in 48 ore ne può combinare di cose, se vuole. Lavori un po’ per me. Trovi sua moglie. Cerchi di capire su che pista è lo Stronzo (lo chiamano così, no?): l’ho appena fatto uscire.»
«Non lo conosco. Non so di che si tratti.»
«Lo incontrerà. Ho capito che è un postino. Deve portare qualcosa a qualcuno. Ma cosa? e a chi? Si dia da fare. Ma niente scherzi. Passerò un momento da lei, stasera. Riprenda i suoi effetti e firmi la ricevuta.»
Monsieur si fa radere. Il barbiere gli spazzola accuratamente il vestito stazzonato. Si sente assai peggio di quando è entrato; il volto pulito gli fa provare schifo per il resto del corpo, lurido. Entra nel taxi, si fa portare al ristorante. Va sul retro. Ci sono i sigilli della polizia, li rompe, entra in cucina, gli scarafaggi, un tanfo insopportabile, furibondo, già spossato per la tensione, tutto sembra sfuggirgli, non è più pa drone di niente, il ristorante? una baracca assurda, e questo fetore, spalanca la finestra, acqua, apre il frigo, ogni cosa dentro una spugna di muffa, la minerale è calda, non c’è corrente, se ne rende conto adesso. Va al quadro elettrico per far scattare l’interruttore.
«Buona sera, Monsieur.»
Nella penombra vede la suora con la bambina accanto, la figlia del cuoco.
«Lei cosa vuole, sorella? come è entrata?»
«Ero già qui fuori quando lei è arrivato. È lei che ha aperto la porta.»
«Va bene, ma cosa vuole? Ho avuto due giornate terribili, sono stanco, ho da fare. Il ristorante è chiuso, non vede? Mi telefoni. Ma ora se ne vada, mi lasci solo.»
«È la bambina che ha voluto tornare qui. Per suo padre. Ma forse lei ha qualcosa per me.»
«Non ho niente per lei! Non ho niente per nessuno! Lo vuole sapere? Sono stato in galera! Per due giorni! Tutti mi chiedono se ho qualcosa! Ma io divento pazzo! Io ho bisogno di una camicia! Ecco! Ora una domanda la faccio io: lei ha una camicia pulita per me? Collo 44!»
«Non ho la camicia per lei, Monsieur, ma forse ho una consegna per la suora. Ehi! Calma! Mani dietro la testa e gambe larghe: anche lei, suora: anche lei! Bambina: tu vieni qua, così, ferma, e non frignare.»
«E chi frigna. Ma mi fa male al braccio.»
«Non preoccuparti. Allora, sorella, come intende pagare per questa consegna?»
Monsieur suda freddo. Lo Stronzo gli tocca le labbra con la canna della pistola, poi la punta contro la suora, poi di nuovo al volto di Monsieur; indietreggia, siede su uno sgabello, con la sinistra tiene stretta la bambina alla vita.
«Lei sa che non posso pagarla ora» dice la suora a bassa voce.
«Cosa ha detto? non vuole pagare?»
«Ho detto che non posso pagare ora. E poi ho bisogno di controllare se è quello che aspetto.»
«Guardi, suora, che abbiamo poco tempo. Gente ne è morta già abbastanza: uno di più non mi fa differenza. Voglio concludere questa faccenda: ora! qui! subito! mi ha capito? Vi do due minuti. Poi vi sistemo come il cuoco.»
La suora calcola la distanza da una pila di scatole di latta, scatole di madeleines che conosciamo così bene. Il calcio deve essere preciso, non proprio di punta, vibrato con velocità e con tutta la forza per sollevare e scagliare la scatola in faccia all’uomo seduto, parte il piede (è il sinistro), colpisce la scatola che si solleva e decolla verso la testa dell’uomo: lo Stronzo scarta e spara, s’inclina su un fianco, tira a sé la bambina ma prima di poter sparare il secondo colpo un dolore atroce gli spacca il petto, il trinciapolli è dentro il polmone e la bambina lo gira e rigira ipnotizzata dal fiotto di sangue che le bagna la mano e il braccio. Cade Monsieur, la pallottola l’ha colpito alla spalla, cade la suora che ha perso l’equilibrio nell’impeto del calcio, cade finalmente lo Stronzo, gli occhi spalancati nello stupore. La suora è la prima ad alzarsi, stringe a sé la bambina, poi si volge a Monsieur che faticosamente sta rimettendosi in piedi.
«Mi ha preso di striscio, fa un male cane.»
«Lei deve aiutarmi adesso, Monsieur.»
«D’accordo. Mandi la bambina nell’altra stanza. Ha già visto abbastanza.»
«Guardi che la piccola ha la pelle dura.»
«La mandi di là, ho detto. E sbrighiamoci.»
La suora rimuove la pistola con un fazzoletto. Insieme voltano il cadavere a pancia sotto. Finalmente torna la corrente.
«Credo di sapere dove l’ha messo» dice Monsieur. Si alza e torna con un paio di guanti di gomma.
«Tolga la cintura e slacci i pantaloni… bene… così: ora io tengo il corpo sollevato e lei sfila i pantaloni… forza… così!»
Sono tutti e due in ginocchio accanto al corpo inerte dello
Stronzo. Monsieur dice:
«È sicura di voler guardare?»
«Voglio esserci quando lo tiriamo fuori.»
«Avanti, allora: metta le mani qui… sulle chiappe… spinga in fuori… ora io esploro… che schifo» il dito di gomma affonda nello sfintere, penetra nell’ampolla anale: ecco… qualcosa… molliccio… con un centro duro… estrae… getta il groppo in una catinella… aggiunge acqua dal rubinetto, aceto… intanto i muscoli del vecchio culo del ladro… cedono, si rilassano, esce materia…
«Prenda la catinella, suora, andiamocene… si muore dal puzzo… via, un po’ d’aria…»
«Monsieur! rimetta la pistola in mano a quell’uomo.»
«Sì. Certo. Tiriamogli su anche le brache.»
«Lei… adesso… cosa farà, Monsieur?»
«Avevo una moglie… non so… Penso che cambierò aria: dopotutto la polizia il suo uomo lo avrà, glielo abbiamo trovato noi. Non lasci impronte sul trinciapolli! Così. Bene. Pianto la baracca. Anche lei – credo – ha trovato quello che cercava.»
«Sì… penso di sì… il contenitore dovrebbe essere proprio questo… che schifo!… corrisponde alla descrizione… vorrei lavarlo con l’alcol… anche le mani… ha dell’alcol?»
«Certo. Lì, alla parete… la cassetta del pronto soccorso. Poi… può lavarmi la ferita alla spalla? Fa un male da cani. Basta il sapone. Un po’ di tintura di iodio… C’è qualcosa per me in quest’affare? Dopotutto: è un po’ come se vi avessi prestato il locale…»
«Le lascio una busta. È giusto. Dove posso lasciargliela?»
«Non può darmela di persona?»
«Sto per partire.»
«Al ritorno, allora.»
«Non credo che tornerò.»
«Faccia un pacchetto grande come un libro. Lo lasci alla scuola a mio nome.
Passerò fra un paio di giorni.»
«Inteso.»
«Cosa c’è nel contenitore?»
«Non è compreso nel prezzo.»
«Sembra un portapillole… Bah, mi lavi la ferita, per favore. E se ne vada; si sta facendo tardi… Almeno, mi dica: lei va a Roma, non è così?»
«Può darsi… sì… ma non cerchi più di mettersi in contatto con me. Meglio per lei.»
Monsieur si rimette la giacca aiutato dalla suora. Lei si rassetta l’abito grigio e il velo non certo candido. Monsieur increspa le labbra in uno scialbo sorriso. Lei finalmente gli tende una mano ferma e cordiale.
«Adieu, alors.»
Quando l’Ispettore arriva, Monsieur e la bambina lo aspettano sulla porta della cucina. È sera, ormai. Piacevole lo zefiro marino alla fine di una giornata così soffocante.
«È tutto lì dentro, Ispettore. La prima parte della sua storia finisce così. L’ho trovato quando ho aperto la porta. Naturalmente sono a sua disposizione. Ma la verità è che non so la verità. Le cose mi succedono intorno. Come al cinema: non posso intervenire.»
L’Ispettore socchiude la porta, accende la luce, guarda il corpo sul pavimento, spegne, riaccosta la porta.
«Sì. È lui» dice. «Quando l’ho rilasciato, stamani, non pensavo che sarebbe successo così presto. A che ora l’ha trovato? No. Non mi risponda. Prenda la bambina e vada a casa. La convocherò domani. Dio che fatica. Un caso che si riapre continuamente; come una brutta ferita. Sì, domani. La chiamerò.
Voglio parlarne con lei.
L’Ispettore si asciuga la fronte, anche se non sta sudando. Si avvia verso la bagnarola celeste che ha parcheggiato a cento metri. Si ferma, si volta a guardare Monsieur che non si è mosso; la bambina gli ha preso la mano.
Mormora a se stesso: «Magari anch’io faccio un po’ pena, visto da vicino.
Non c’è nessuna matassa. La storia è fin troppo lineare. Nemmeno i morti sono veri morti, cioè, sì, ma non sono morti intenzionali (in un certo senso, non sono delitti): ostacoli, andavano rimossi, terza categoria. Il vero gioco è altrove. Mi hanno mollato con le comparse… in periferia… mi sto allontanando sul sentiero polveroso… una figurina sempre più piccola… in controluce… un po’ sgangherato… ma pieno di dignità… una grande carica umana… Merda.
Se non ne parlo con lui… con chi, allora?»

 

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