lunedì 15 aprile 2024

Ken Follett: La Cruna Dell'Ago


Era stato l’inverno più freddo degli ultimi quarant’anni. I villaggi nella campagna 
inglese erano isolati dalla neve, e il Tamigi era gelato. Un giorno di gennaio il treno 
da Glasgow per Londra arrivò a Euston con ventiquattro ore di ritardo. La neve e 
l’oscuramento contribuivano a rendere pericolosi i viaggi in auto: gli incidenti 
stradali erano raddoppiati, e la gente raccontava barzellette su come era più rischioso 
guidare una Austin Sette per Piccadilly di notte che attraversare con un carro armato 
la linea Sigfrido. 
Poi, venne la primavera, e fu splendida. I palloni di sbarramento galleggiavano 
maestosi nell’azzurro splendente del cielo, e i soldati in permesso amoreggiavano per 
le vie di Londra con ragazze in abiti sbracciati. 

La città non aveva molto l’aspetto della capitale di una nazione in guerra. 
C’erano dei segni, naturalmente; ed Henry Faber, pedalando dalla stazione di 
Waterloo in direzione di Highgate, li notò: mucchi di sacchetti di sabbia davanti agli 
edifici pubblici importanti; rifugi Anderson nei giardini suburbani, manifesti di 
propaganda sull’evacuazione e le precauzioni anti-aeree. Faber guardava tutte queste 
cose – era un osservatore molto più attento della media degli impiegati delle ferrovie. 
Vedeva frotte di bambini nei parchi, e ne concluse che l’evacuazione era stata un 
fallimento. Annotava il numero delle automobili che circolavano tranquillamente a 
dispetto del razionamento della benzina; e teneva conto dei nuovi modelli annunciati 
dalle case automobilistiche. 
Sapeva cosa significava il massiccio afflusso di lavoratori per il turno di notte in 
fabbriche dove, fino a pochi mesi prima, c’era stato a stento lavoro per il turno di 
giorno. Ma, soprattutto, registrava il movimento delle truppe sulla rete ferroviaria 
d’Inghilterra: tutte le pratiche passavano dal suo ufficio. Si poteva imparare molto 
dalle pratiche. Quel giorno, per esempio, aveva timbrato un’infornata di moduli che 
lo indussero a pensare che venisse allestita una nuova Forza di Spedizione. Era quasi 
certo che avesse un effettivo di 100 mila uomini, e fosse destinata alla Finlandia. 
C’erano dei segni, sì; ma c’era qualcosa di buffo in tutto quanto. Gli show della 
radio ironizzavano sulla pedanteria dei regolamenti di guerra, la gente cantava nei 
rifugi anti-aerei, e donne alla moda portavano le maschere antigas in contenitori 
confezionati in sartoria. 

Non si faceva che parlare della Barbosa Guerra. Era un fatto troppo grande e 
banale nello stesso tempo, come uno spettacolo al cinema. 
Tutti gli allarmi aerei, senza eccezioni, erano risultati falsi. 

Faber aveva un diverso punto di vista... ma, in effetti, era anche una persona 
diversa. 
Diresse la bicicletta in Archway Road, piegandosi un po’ in avanti per affrontare 
la salita, con le lunghe gambe che pompavano senza posa come i pistoni di una 
locomotiva. Era ben messo per la sua età, trentanove anni, anche se in proposito 
mentiva; mentiva in quasi tutte le cose, per precauzione. 
Cominciò a sudare mentre si arrampicava su per la collina verso Highgate. La 
casa dove viveva era una delle più alte di Londra, e proprio per questo aveva scelto di 
viverci. Era una casa di mattoni dell’epoca vittoriana, l’ultima di una fila di sei. Le 
case erano alte, strette e buie, come le menti degli uomini per i quali erano state 
costruite. Ognuna aveva tre piani e un seminterrato con l’ingresso per la servitù... gli 
inglesi della classe media nel diciannovesimo secolo insistevano per avere un 
ingresso per la servitù, anche se non avevano servi. Faber era cinico nei confronti 
degli inglesi. 

Proprietario del numero sei era stato il signor Harold Garden, della “Garden’s tea 
and Coffee”, una piccola azienda fallita durante la grande depressione. Avendo 
vissuto secondo il principio che l’insolvenza è un peccato mortale, dopo la bancarotta 
al signor Garden non era rimasta altra scelta che morire. La casa fu tutto quello che 
lasciò in eredità alla vedova, la quale fu poi costretta a prendere dei pensionanti. Era 
contenta di essere un’affittacamere, anche se l’etichetta del suo ambiente sociale la 
obbligava a fingere di vergognarsene un po’. Faber aveva una camera all’ultimo 
piano con un abbaino. Abitava lì dal lunedì al venerdì, e diceva alla signora Garden 
che passava il fine settimana da sua madre a Erith. In realtà, il sabato e la domenica 
aveva un’altra affittacamere a Blackheath che lo chiamava signor Baker e credeva 
che facesse il commesso viaggiatore di una ditta di articoli di cancelleria e passasse 
tutta la settimana in viaggio. 
Percorse con la bicicletta il vialetto del giardino sotto lo sguardo accigliato delle 
alte finestre del salotto. Poi la mise nel capanno e la legò col lucchetto alla falciatrice – la legge vietava di lasciare i veicoli incustoditi. Le patate da semina nei vasi 
tutt’intorno al capanno stavano germogliando. La signora Garden aveva sostituito le 
sue aiuole di fiori con verdure per contribuire allo sforzo bellico. 
Faber entrò in casa, appese il cappello all’attaccapanni, si lavò le mani e andò a 
prendere il tè. 

Tre degli altri pensionanti erano già a tavola: un giovane foruncoloso dello 
Yorkshire che stava tentando di farsi arruolare; un commesso viaggiatore in 
dolciumi, stempiato e dai capelli color sabbia; e un ufficiale di marina a riposo che 
doveva essere, Faber ne era convinto, un depravato. Faber rivolse a tutti un cenno di 
saluto e si sedette. 
Il commesso viaggiatore stava raccontando una barzelletta. «Così il caposquadriglia 
dice: “Sei tornato presto!” e il pilota si volta e risponde: “Sì, ho buttato 
giù i volantini a pacchi, non andava bene?”, e allora il capo-squadriglia fa: “Santo 
Dio, potevi ferire qualcuno!”». 
L’ufficiale di marina fece una risata chioccia, e Faber sorrise. La signora Garden 
entrò con la teiera. «Buona sera, signor Faber. Abbiamo cominciato senza di lei... 
spero che non se ne abbia a male.» Faber spalmò uno strato sottile di margarina su 
una fetta di pane integrale, e per un momento morì dalla voglia di una grossa 
salsiccia. 
«Le patate da semina sono pronte da piantare» le disse. 
Faber bevve in fretta il suo tè. Gli altri stavano discutendo se Chamberlain 
dovesse essere licenziato e sostituito da Churchill. La signora Garden, ogni volta che 
esprimeva un parere, guardava subito dopo in direzione di Faber per vedere la sua 
reazione. Era una donna sciatta, piuttosto grassoccia. Aveva all’incirca l’età di Faber, 
ma si vestiva come se fosse molto più giovane, e questo gli faceva pensare che 
avesse voglia di un altro marito. Lui si teneva fuori dalla discussione. La signora 
Garden accese la radio. Gracchiò un po’, poi un annunciatore disse: «Questo è il 
servizio nazionale della B.B.C. Ecco di nuovo quell’uomo!». 
Faber aveva già sentito lo show. Era imperniato regolarmente su una spia tedesca 
di nome Fung. Si scusò e salì nella sua stanza. 

La signora Garden era rimasta sola dopo la trasmissione: l’ufficiale di marina era 
andato in un pub insieme col commesso viaggiatore, e il giovane dello Yorkshire, 
che era un fervente religioso, si era recato a una riunione di preghiera. Si sedette in 
salotto con un bicchierino di gin, guardando le tende dell’oscuramento e pensando al 
signor Faber. Desiderava che non passasse tanto tempo nella sua stanza. Lei aveva 
bisogno di compagnia, e lui era proprio il tipo di compagnia che le ci voleva. 
Questi pensieri la facevano sentire colpevole. Per alleviare il senso di colpa si 
mise a pensare al signor Garden. I suoi ricordi erano familiari ma sfuocati, come la 
vecchia pellicola di un film dalle tacche consumate e il sonoro confuso; anche se 
poteva facilmente ricordare cosa voleva dire averlo lì con lei nella stanza, le era 
difficile immaginare la sua faccia, o i vestiti che poteva indossare, o come avrebbe 
commentato le notizie del giorno sulla guerra. Era un uomo piccolo e molto attento 
alla propria eleganza, di gran successo negli affari quando la fortuna gli sorrideva e 
un vero disastro nella sfortuna, riservato in pubblico e insaziabilmente affettuoso a 
letto. 
Lo aveva amato molto. Parecchie donne si sarebbero ritrovate nelle stesse 
condizioni se la guerra avesse mai fatto il suo corso veramente. Si versò un altro 
bicchiere. 
Il signor Faber era un tipo tranquillo – quello era il guaio. Sembrava privo di 
qualsiasi vizio. Non fumava, il suo alito non sapeva mai di alcol, e passava tutte le 
sere in camera sua ad ascoltare la musica classica alla radio. Leggeva molti giornali e 
faceva lunghe passeggiate. Le dava l’impressione che fosse molto intelligente, 
nonostante il suo lavoro umile: i suoi contributi alla conversazione in salotto erano 
sempre un tantino più lucidi di quelli di qualsiasi altro. Sicuramente avrebbe potuto 
trovare un posto migliore, se avesse voluto. Sembrava negarsi le possibilità che 
meritava. 
Lo stesso valeva per il suo aspetto. Era un uomo ben fatto: alto, piuttosto 
massiccio di spalle, senza un filo di grasso, con le gambe lunghe. E aveva un viso 
forte, con la fronte alta e la mascella lunga e gli occhi di un azzurro brillante; non 
bello, come il viso di un divo del cinema, ma del tipo che piaceva alle donne. Tranne 
che per la bocca... era piccola e sottile, e questo le faceva pensare che potesse essere 
crudele. Il signor Garden era stato incapace di qualsiasi crudeltà. 
Eppure, a prima vista, Faber non era il tipo d’uomo che una donna avrebbe 
guardato due volte. I pantaloni del suo vecchio abito liso non erano mai stirati – ci 
avrebbe pensato lei e anche volentieri, ma lui non glielo aveva mai chiesto – e 
portava sempre un impermeabile frusto e un berretto da scaricatore di porto. Non 
aveva baffi, e si tagliava i capelli corti ogni quindici giorni. Era come se volesse 
passare inosservato. 

Aveva bisogno di una donna, non c’era dubbio su questo. Per un attimo lei si 
chiese se potesse essere quel che si dice un effeminato, ma scartò subito l’idea. 
Aveva solo bisogno di una moglie che lo spronasse a curarsi di più e a essere più 
ambizioso. E lei di un uomo che le facesse compagnia e che... be’, facesse anche 
l’amore. Tuttavia non si era mai fatta avanti. A volte si sarebbe messa a urlare dalla 
frustrazione. Eppure era sicura di essere attraente. Si guardò allo specchio mentre si 
versava un altro gin. Aveva un viso grazioso, bei capelli ricci; e per un uomo c’era di 
che saziarsi in lei... Ridacchiò a quel pensiero. Doveva essere un po’ sbronza. 
Sorseggiò il liquore e si chiese se non dovesse fare lei la prima mossa. Il signor Faber 
era un timido, cronicamente timido. Impotente non era – poteva giurarlo dallo 
sguardo dei suoi occhi nelle due occasioni in cui l’aveva vista in camicia da notte. 
Forse avrebbe potuto vincere la timidezza di lui con la sfacciataggine. Cosa aveva da 
perdere? Cercò di immaginarsi il peggio, tanto per vedere come sarebbe stato. 
Suppose che la respingesse. Be’, sarebbe stato imbarazzante – persino umiliante. 
Sarebbe stato un duro colpo al suo orgoglio. Ma non era necessario che qualcun 
altro venisse a sapere cosa era successo. Lui avrebbe dovuto semplicemente 
andarsene. 
Al pensiero di un rifiuto scartò l’intero progetto. Si alzò lentamente in piedi, 
pensando: “No, non sono una sfacciata”. Era ora di andare a dormire. Se avesse 
bevuto un altro po’ di gin a letto, sarebbe riuscita a prender sonno. Portò la bottiglia 
di sopra. 

La sua camera da letto era sotto a quella del signor Faber, e mentre si svestiva 
sentiva benissimo la musica di violino trasmessa dalla sua radio. Indossò una camicia 
da notte rosa, con una scollatura ricamata – e nessuno che l’ammirasse! – e bevve 
l’ultimo bicchiere. Si chiese che aspetto avesse il signor Faber svestito. Doveva avere 
lo stomaco piatto, peli intorno ai capezzoli e probabilmente gli si vedevano le 
costole, perché era magro. Forse aveva il sedere piccolo. Ridacchiò di nuovo, 
pensando: “Sono una svergognata”. 
Si portò da bere a letto e prese il libro, ma faceva troppa fatica a mettere a fuoco 
le righe. Inoltre, il racconto del vicario l’aveva stancata. Le storie di amori sfortunati 
erano belle finché si era perfettamente soddisfatte col proprio marito, ma a una donna 
occorreva qualcosa di più di quanto poteva offrirle Barbara Cartland. Sorseggiò il 
gin, e desiderò che il signor Faber spegnesse la radio. Era come cercare di dormire a 
un tè danzante! Poteva, naturalmente, pregarlo di spegnere. Guardò la sveglia 
accanto al letto: le dieci passate. Poteva indossare la vestaglia intonata alla camicia 
da notte, ravviarsi solo un po’ i capelli, infilarsi le pantofole molto eleganti; con un 
disegno di rose, e salire di corsa le scale, fino al pianerottolo di sopra, dopodiché 
bussare leggermente alla porta. Lui avrebbe aperto, forse con indosso solo il pigiama, 
e poi l’avrebbe guardata con lo stesso sguardo che le aveva lanciato quando l’aveva 
vista in camicia da notte mentre andava in bagno... 
«Vecchia stupida» si disse a voce alta. «È solo una scusa per andare su.» Ma poi 
che bisogno aveva di scuse? Era una persona adulta, in casa sua, e in dieci anni non 
aveva incontrato nessun altro uomo che le andasse bene, e che diavolo!, aveva 
bisogno di sentire qualcuno forte, duro e peloso sopra di lei, che le stringesse i seni 
ansimandole nell’orecchio e aprendole le cosce con le sue mani grandi e carnose. 
L’indomani i tedeschi avrebbero potuto lanciare le bombe asfissianti e loro 
sarebbero tutti morti avvelenati soffocando e rantolando, e lei avrebbe perduto anche 
l’ultima occasione. 
Così scolò il bicchiere, si alzò dal letto, indossò la vestaglia, si ravviò solo un po’ 
i capelli, s’infilò le pantofole e prese il mazzo di chiavi, nel caso che lui avesse 
chiuso la porta e non potesse sentirla bussare per via della radio. 
Sul pianerottolo non c’era nessuno. Trovò le scale al buio. Fece per saltare lo 
scalino che scricchiolava, ma inciampò sulla passatoia allentata e la calpestò 
pesantemente; tuttavia nessuno sembrò sentire, così andò su e batté piano alla porta. 
La provò con delicatezza. Era chiusa a chiave. 
La radio fu abbassata, e il signor Faber chiese: «Sì?». 
Parlava bene: senza inflessioni dialettali, o straniere – niente, solo una garbata 
voce neutra. 
Lei fece: «Posso dirle una parola?». 
L’uomo parve esitare, poi rispose: «Sono svestito». 
«Anch’io» ridacchiò lei, e aprì la porta con il duplicato della chiave. Lui stava in 
piedi di fronte alla radio con una specie di cacciavite in mano. Era in pantaloni ma 
senza camiciola. La sua faccia era bianca e sembrava spaventato a morte. Lei entrò e 
si chiuse la porta alle spalle non sapendo cosa dire. Improvvisamente ricordò una 
battuta di un film americano e disse: «Vi andrebbe di offrire un drink a una ragazza 
sola?». Era una frase stupida, naturalmente, perché sapeva che lui non teneva liquori 
in camera, e lei non era certo vestita per uscire; ma suonava seducente. 
Parve ottenere l’effetto desiderato. Senza parlare, l’uomo le si avvicinò 
lentamente. Aveva davvero peli intorno ai capezzoli. Lei fece un passo avanti, e si 
trovò nelle sue braccia, chiuse gli occhi e alzò il viso, lui la baciò, e lei si mosse 
lievemente fra le sue braccia, poi sentì un terribile, spaventoso, intollerabile dolore 
tagliente alla schiena e allora aprì la bocca per urlare. 
Aveva sentito il tonfo sulle scale. Se la donna avesse aspettato un altro minuto, 
avrebbe avuto tempo di riporre la radio trasmittente nella valigia e il libro dei codici 
nel cassetto e non ci sarebbe stato bisogno di ucciderla. Ma prima che potesse 
cancellare le prove aveva sentito la chiave nella serratura, e quando lei aveva aperto 
la porta aveva già in mano lo stiletto. 

 

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