lunedì 11 marzo 2024

K.W. Jeter: Blade Runner 2


Quando ogni omicidio sembra lo stesso, è ora di mollare.
«Ottimo consiglio», si disse Bryant. «Merita una bevuta.» Un robusto sorso e napalm puro divampò nella sua ulcera. Non riusciva quasi a respirare quando appoggiò di nuovo il bicchierino sulla scrivania e vi versò un’altra dose. «Ecco perché sono finito a fare lavoro d’ufficio.»
La striscia di carta con il bordo adesivo, con quelle parole piene di saggezza, fluttuava ai margini della sua visuale. Aveva aperto l’ultimo cassetto in basso per prendere la bottiglia quadrata, e il passato vi era rimasto attaccato come una pelle di serpente non ancora del tutto cambiata. Una brillante pensata, un’improvvisa illuminazione alle tre del mattino, il foglietto con l’avvertimento di un suicidio non attuato: ci aveva ficcato dentro di tutto. Fin quando il cassetto non era arrivato a contenere una specie di duna mobile di pezzetti di carta gialli, quel che restava di tutta la sua fottuta carriera di poliziotto, quel po’ di spiccioli in più del suo piano di pensionamento, tanto da potercisi soffiare dentro il naso. Le strisce di carta del cassetto, alcune accuratamente piegate, altre appallottolate, erano l’esatta riproduzione dei contenuti del suo cranio; se gli strizzacervelli del dipartimento di polizia ci avessero dato un’occhiata, l’avrebbero mandato subito in congedo permanente per motivi di salute mentale...
«Bastardi.» Fra un pensiero e l’altro, aveva di nuovo svuotato il bicchiere, senza accorgersene. Bryant infilò un dito tra il colletto e la pelle flaccida della gola e con uno strattone allentò il nodo della cravatta. L’ossigeno della centrale, mischiato all’adrenalina scatenata dalla paura e dalla disperazione, gli sgocciolava nei polmoni. Il ventilatore sul ripiano del casellario faceva del suo meglio per smuovere l’aria polverosa.
Sotto i piedi, attraverso le suole delle scarpe da poliziotto culo-di-piombo, la terra tremò. In un tunnel non illuminato, il treno dei replicanti scivolava sulle rotaie metalliche, trasportando il suo carico silenzioso e vigile verso un’altra oscurità. Inclinò bruscamente la bottiglia, facendo traboccare il liquido marrone oltre il bordo del bicchiere.
«Bevi troppo.»
Bryant sapeva che non era la sua voce. Nessuna delle sue voci interiori avrebbe mai detto una cosa tanto stupida. Si accorse dell’altra persona dal velo d’ombra che gli cadeva sullo zigomo.
«Bevo», rispose Bryant, «perché sono costretto. Sono disidratato.»
Questo almeno era vero. Era appena tornato nella cattedrale cavernosa della centrale dopo il funerale di un agente, ed era rimasto sotto il sole a picco mentre uno di loro veniva calato in un buio rettangolo di terra. Quello stupido figlio di puttana di Gaff era riuscito finalmente a convincere una pallottola a ficcarglisi nelle viscere, una pallottola talmente grossa che avrebbero potuto seppellirlo in due bare diverse. In fila doppia, gli uomini del picchetto d’onore da cerimonia solenne del dipartimento avevano sollevato al cielo i visi seminascosti da occhiali argentati, avevano sparato una salva, rinfoderato le armi, girato sui tacchi degli stivali scintillanti e se n’erano andati a passo di marcia. Bryant aveva sentito colargli sul colletto un sudore caldo come il sangue.
Era rimasto a osservare la targa d’ottone in mezzo alla terra smossa e all’erba secca e gialla dopo che tutti se n’erano andati. La scritta sotto il nome di Gaff era in quel linguaggio pomposo ed esasperante tipico delle citazioni commemorative. Era stato in quel momento che aveva cominciato a sentirsi veramente a disagio per il caldo che lo stava disidratando; altrimenti, avrebbe cancellato tutto quanto e scritto il suo stesso nome sul metallo luccicante. Non gli era mai piaciuto Gaff.
L’altra persona nell’ufficio inalò fumo e lo esalò; ruotando lentamente, il ventilatore lo trasformò in una nebbiolina azzurrognola. «Se il whisky fosse acqua, a quest’ora saresti arrivato in Cina a nuoto.» Un sorrisetto aleggiò dietro la sigaretta.
«Sai cosa ti dico? Puoi darmi una mano a salvarmi. Dall’annegare.» Prese un altro bicchiere dal cassetto e lo mise di fianco al suo, poi lo riempì. Rimase a guardare mentre l’altro lo spostava fuori dall’alone della lampada da tavolo. «Pessima abitudine bere da soli.»
«Allora dovresti cercare di tenerti un po’ di più gli amici.»
«Mai avuti.» Adesso fu Bryant a sorridere, un bel sorriso tutto denti macchiati di nicotina e occhi troppo lucidi. «Solo i poveri cristi che lavorano per me.» Un altro abbondante sorso. «E i cacciatori di replicanti sono troppo lontani sulla Curva per essere amici di chicchessia.»
Un sorriso persino più freddo del suo. «È la scusa che usano anche loro.»
Bryant distolse lo sguardo dall’altro, rivolgendolo agli avvolgibili penzolanti che coprivano le finestre dell’ufficio. Attraverso le strette aperture non si vedeva la notte di Los Angeles, soffocante nel caldo senza aria, ma gli spazi più oscuri del pianterreno della centrale di polizia. Quand’era tornato dal funerale, assetato e colmo di ribrezzo per i fottuti e primitivi rituali di sangue del dipartimento – Quando sarà il mio turno, aveva pensato con furia, possono gettare quel che rimane di me nel cassone della spazzatura qua fuori – aveva fatto un salto dai membri delle squadre d’élite, alti, senza una goccia di sudore, tutti impettiti negli stivaloni e nelle bardature nere e lucide. Al loro confronto, si era sentito come una cimice strapazzata, quando uno sguardo tagliente si era fissato come una punta di spillo in mezzo alle sue scapole. Trafitto dal disprezzo di quel luccicare senza pietà, si era rifugiato nella sicurezza fatiscente del proprio ufficio e aveva anticipato di un’ora il programma di bevute.
Maledette truppe d assalto. Se n’erano andati tutti, ora, angeli in cuoio nero attirati nella spirale di piani della centrale dal tramonto del sole. In questa stagione il vento secco abbassava la temperatura notturna a circa trenta gradi. Quanto bastava perché la vita cittadina strisciasse fuori dai suoi buchi e le pattuglie si dispiegassero nel cielo. A controllare e a scendere...
«Pioveva, a quei tempi.» Bryant sussurrò quelle parole con le labbra appoggiate all’orlo del bicchiere. «Lo ricordo...» I monsoni di Los Angeles, la fascia ciclonica attraverso il Pacifico, con Bangkok all’altro capo. Lampi di memoria come fulmini: si rivide mentre tornava allo spinner e il sangue diluito finiva a rivoli dentro lo scolo, lasciando quel povero bastardo là dove si trovava. Il nastro della telecamera di sorveglianza aveva registrato le sue parole: «Bevine uno anche per me, amico». Era il suo consiglio fisso per chiunque.
Ma c’era qualcuno che era rimasto a guardare dall’altra parte della strada, una donna nascosta dalla pioggia come da un sipario mobile. Aveva dato un’occhiata allo specchietto dello spinner e l’aveva vista. Avrebbe potuto dire a Gaff di voltare lo spinner; sarebbe potuto tornare indietro a ucciderla lui stesso. Ma non l’aveva fatto. Voleva che lo facesse Deckard.
Era successo molto tempo fa, quando pioveva. «Non così tanto tempo fa...» Un sussurro, mentre appoggiava il bicchiere vuoto sulla scrivania. Lo sguardo si spostò dal vuoto dei ricordi allo spazio angusto e agli alti soffitti dietro gli avvolgibili. Abbandonato, ora, chiuso, rigorosamente sigillato...
Un altro pensiero turbò Bryant, come un pizzicore dentro il cranio. Fece ruotare la sedia. «Come sei entrato?»
«C’è il modo.» La persona in ombra guardò il bicchiere che teneva in mano. «C’è sempre il modo. Lo sai.»
«Già, credo di sì.» Aveva fatto la domanda sbagliata. «Ma perché? Perché sei venuto qui? Non mi sarei mai aspettato di rivederti.»
«Ti ho portato qualcosa.»
Bryant rimase a guardare mentre il bicchiere, il cui contenuto era appena stato assaggiato, veniva spinto accanto al suo. L’altro si appoggiò allo schienale, frugò in una tasca interna della giacca ed estrasse un oggetto di metallo nero. Il respiro gli si troncò in gola quando vide che cos’era.
Non ci fu tempo per un altro respiro. Lo sparo echeggiò nell’ufficio, abbastanza forte da far sbattere i bordi affilati degli avvolgibili gli uni contro gli altri. La pallottola lo colpì in pieno cuore, lo sollevò dalla sedia, spalancandogli a croce le braccia e tendendogli il collo mentre la testa schizzava all’indietro. Vide una macchia rossa disegnarsi sulla mappa di isole scure creata dai pannelli acustici.
Che sorpresa, pensò Bryant. La sedia si rovesciò, gettandolo sul pavimento dell’ufficio, e lì si stupì di quella nuova oscurità che si riversava su di lui. Gli ultimi secondi di consapevolezza divennero elastici, si allungarono come gli avevano sempre detto che succedeva. Ma avrei... avrei dovuto capire...
Vide il volto dell’altro aleggiare su di lui per accertarsi che fosse morto. O come se fosse morto. Un pezzo di carta gialla, con sopra scritto qualcosa che un tempo gli era parsa importante, cadde fluttuando sulle sue dita intorpidite.
Gli avvolgibili avevano smesso di sbattere, l’eco dello sparo svanì nelle vuote distese della centrale di polizia. Molto lontano, Bryant udì la porta dell’ufficio aprirsi e il rumore dei passi dell’altro che si allontanava.
Dalla bocca sgorgò sangue che non riuscì a inghiottire. L’ultimo pensiero fu che avrebbe voluto urlare, richiamare quello che se n’era già andato.
In modo da potergli dire quanto gli era profondamente grato.


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