sabato 11 novembre 2023

Frédéric Dard: La gatta persiana


Afflosciato in fondo alla macchina, mi ascolto sudare mobilitando ciò che mi resta d’energia per trattare (in pectore) il Vecchio di triste marciume, di purulenza, di estratto di nausea e di residuo di spurgo di latrina.

La nostra guida-autista si volta e mi guarda, affabile e meditativa. È un magrolino con occhiali cerchiati d’oro. Come abbia il coraggio di portare una giacca, questo gentiluomo, non me lo spiegherò mai.
Scommetto il chilo che ho appena sudato contro un gelato al pistacchio che l’inferno assomiglia alla camera fredda della cantina Renault in confronto a Teheran, oggi.
— Capita bene — mormora il mio interlocutore presentandomi un pacchetto di sigarette invitante quanto una manciata di carta igienica usata — capita maledettamente bene.
— Ah sì, perché? — ho la suprema forza di chiedere, rifiutando la sigaretta il cui odore evoca un immondezzaio di cimitero intorno all’8 novembre…
— Perché fa fresco per la stagione — assicura il giovane con occhiali. — Un vero tempo da Costa Azzurra. Di solito, in luglio fa molto più caldo.
Ho un fervente pensiero per la grande clemenza degli dei persiani che ci infliggono soltanto un modesto 45 all’ombra.
— Già — balbetto — come fortuna è una bella fortuna; ma mi dica, lei conosce la Costa Azzurra?
— No, perché?
— Ah, niente.
La mia attenzione è attratta dal rumore di una galoppata sul marciapiede lungo il quale ci siamo fermati. Vedo arrivare di corsa due monelli. Portano entrambi una cesta piatta piena di panini. Il primo si ferma accanto alla nostra macchina e ci infila sotto il suo carico. Il secondo continua a correre. Sembra impazzito. Al momento di infilarsi in una stradina, ecco che scivola e finisce a gambe all’aria. Il suo carico di panini si disperde all’intorno come se la cesta fosse scoppiata. Si rialza penosamente con una smorfia di dolore. Mi sa che deve essersi lussato la spalla, o qualcosa del genere. È pallido sotto la pelle scura, e ha lo sguardo pieno di sofferenza.
Mentre mi accingo a scendere dalla macchina per andargli in aiuto, arrivano sparati due flic che s’impadroniscono della sua gracile persona.
— Che succede? — domando alla guida.
Questa sorride con aria divertita.
— Questi ragazzi vendevano panini sulla pubblica via, e adesso è proibito. La polizia dà loro la caccia.
Guardo il ragazzo coperto di stracci che si allontana fra i due sbirri. Con la mano libera si tiene la spalla, e si volta a sbirciare la sua cesta e i miseri panini sparsi sul marciapiede bollente. Il mio occhio si fissa su una fetta di pomodoro. Sento un nodo alla gola. Ne ho fin sopra i capelli di contemplare la miseria. Ci sono tragedie meno tragiche di quella fetta di pomodoro, ma non posso spiegarvi fino a che punto è eloquente, desolante, sconfortante.
— Perché? — balbetto, — ma perché?…
Il mio compagno crede che la domanda sia rivolta a lui.
— Una questione di standing urbano — dice con enfasi. — È sgradevole per gli stranieri vedere questi ragazzacci offrire loro dei panini!
— Che idea! Io invece lo trovo simpatico…
— Colore locale? — aggiunge la guida con un’ironia un po’ tignosa.
Nonostante la canicola che invita a una grande economia di movimenti, sogno di fargli starnutire gli occhiali. Ma il guaio è che non capirebbe. I cazzotti sono la cosa più dura da far ammettere agli uomini. Quando li beccano, si ribellano, o si sottomettono, ma non cercano di capire. Cessato l’allarme, il primo monello riappare e si tuffa sotto la macchina per ricuperare il suo piccolo carico.
— Questo, è un furbo — mi dice la guida.
Gli allungo un biglietto da duecento rials, azzurro e molle.
— Gli dia questo e gli raccomandi di spartirlo col suo amico.
Il mio interlocutore sembra vagamente scontento. Esita, prende la banconota e interpella con disprezzo il ragazzo.
— Se lei crede che lo spartirà… — sghignazza.
Parlamenta con il piccolo venditore di panini clandestini. Con mia grande sorpresa, il ragazzo scuote la testa e si allontana senza accettare il danaro.
— È più onesto di quanto pensassi — dichiara il mio compagno restituendomi la banconota bisunta.
— Che cosa ha detto?
— Che lui non chiede l’elemosina.
— Vede, mio caro amico, che bisogna avere sempre fiducia negli uomini.
La guida fa un gesto vago.
— Qualche volta è troppo pericoloso!
Una massa scura si pianta davanti ai vetri dell’auto tuffandoci per un breve istante nelle delizie di un’ombra provvidenziale. La portiera socchiusa lascia penetrare un uragano di color viola. La massa episcola fa sobbalzare l’auto. Il tutto è punteggiato da uno squittio simile alla rottura di una diga.
— Non ci poteva piazzare il suo trespolo all’ombra, sto impalato. Mi ci sono bruciato i prosciutti sul sedile. Una vera lampada ossidianica!
Il Grosso ridiscende dalla macchina con la precipitazione di un clistere ricacciato.
Bisogna vederlo nella gloria frantumatrice del sole iraniano, il Berù. Da turista. Camicia color feccia di vino, short bianco sporco, cappello di feltro nero, calze a metà polpaccio, scarpe da città, la Kodak intorno al collo come una campana sul petto di una vacca bernese. Ha un aspetto fiero, il Forzuto. È l’archetipo del cliente delle Agenzie di Viaggio. L’ardito pioniere che assedia la portineria dell’albergo all’arrivo delle comitive. Un componente di quelle orde che si vedono sbottare dai pullman per fotografare al volo il paesaggio dove le mollano. Velocissime: clic, clic, clic, ciac. Il tempo di regolare l’obiettivo sull’infinito e di controllare che la lancetta della cellula non faccia fesserie. Clic, ciac! La macelleria d’angolo, l’Hòtel dei due Svizzeri, il monte Dunoeud, la via principale di Saint-Trahabit. Tutto! Alla svelta! Non impressionati, ma impressionatori (di pellicola). Raccattano immagini come si rubacchiano grappoli d’uva in margine alla strada. Flashano sul chi vive! Ciac! Cloe! Due di più! Del resto, una bella messe! Sempre qualcosa strappato di sfuggita, scroccato all’universo. Saccheggiano il mondo! Lo depredano! Si iniettano molecole, sornionamente, col loro occhio di ciclope. Clic! Ciac! Subito privi d’interesse appena il piccolo aggeggio ha funzionato. Come se, fotografando la gente, o la natura, li radiassero dalla loro verità. Li sottraessero per sempre dalla vita corrente solo per averli captati nei loro abominevoli obiettivi! Guardano l’esistenza attraverso un mirino. La srealizzano.
Berù è tale e quale! I peli delle sue gambe ne coprono l’unto. Fa molto gorilla travestito, tipo carnevale. Ecco che sgancia sul bordo del marciapiede lo short, abbassa il vecchio cencio biforato che gli serve da slip. Mi segnala rossori sui prosciutti.
— Guarda! Guarda, Sana. Carbonizzato! Il colpo di calore! È pazzo, questo tizio, di metterci materia plastica sui sedili! Ho creduto che mi avessi seduto su un braciere! Non potevateci fermare in un luogo fresco, insomma, perdio! Ci hai un’idea di come che ci sputa il sole?
— Nascondi le tue schifezze e vieni qua, smidollato! — abbaio, mentre la popolazione affascinata si sta già coagulando intorno alle chiappe beruriane, e la nostra guida stalattita con le mucose vedendo quasi a portata di mano la panoplia principesca di Sua Maestà.
Il Gonfio si riassesta massaggiandosi i punti che gli dolgono.
— Dove hai visto ombra, di’, Testa di legno? Su questo viale il lampione è in verticale!
Ma non mi ode perché è già scomparso! Sparito, il Berù! Sono obbligato a sporgermi dal finestrino, col rischio di insolazionarmi la teiera, e lo scopro carponi sulla carreggiata occupato a raccogliere i panini del piccolo venditore.
— E non mi ci venite a dire che siete un popolo sottoavvilupato! — grida agli sfaccendati sbalorditi. — Quando ci vedo le vostre strade lastricate di cibi impeccabili, mi prometto di rivolgere un rapporto curato al mio governo per avvertirlo di non lasciarsi«fregare dalle geremiadi dei vostri ministri. Non avete vergogna? Pappatoria di prima scelta! — prosegue con la bocca piena. — Quando ci penso che nel Biafra i tizi che ci pesano quindici chili fossero dichiarati obesi!
Zavorrato da una piramide di panini, torna fra noi. Deposita una mezza dozzina di panini sul sedile e vi si siede deliberatamente sopra.
— Ci fa da isolante — mi spiega. — Vedi, Sanantonio, mi ci sa che questi tipi, ciò di cui li guasta, fosse il petrolio. Adesso ci hanno tutti sull’acquaio la super, allora fatalmente ciò li disbussola. Ci vuoi la prova? Persinanco nella loro religione ciò si ripercussiona. Quando ci penso che i muezzin non ci si prendono più nemmeno il disturbo di salire in cima al loro mina in retto e ci hanno fatto installare il ’toparlante. [Rigorosamente esatto. Ormai in tutto il Medio Oriente, la preghiera è diffusa da altoparlanti.]
— Non si può fermare il progresso — esclama con voce aspra la nostra guida.
Berù sputa un resto di prosciutto sul parabrezza.
— Non mi ci far sbellicare col tuo progresso, amico! — replica Sua Rotondità. — Se ci foste veramente voluti, ci avreste cominciato col sbattere ombra un po’ dappertutto! To’, renditici utile e va’ a comprare da bere. Cerca soprattutto di portarcici roba ben fresca! Sento che se non mi ci inumiderei la mola, mi ci mettessi a sputare carbone di legna!
Senza dire una parola, l’altro scende dalla carriola.
— Be’, e i nostri pifferi? — domando prontamente al Prode.
Alza le spalle.
_ Avremo visto tutto — borbotta. — Se ti ci dicessi che visitano il museo?
— Sul serio?
— Tutto quello che ci fosse di sul serio, mio Sanà. Direi anzi meglio: sembra che ciò gli interessasse. Ascoltano le spiegazioni della guidessa come che se li informasse su un progetto di rapina. Quando li ci ho mollati ci sbavavano davanti a delle monete di non so più quanti secoli avanti Cristo (se Cristo non c’è, avanti un altro!). Tizi che ci hanno passato la loro vita nel ramo della falsaria, dico io! Quelle monete non ci hanno più corso! Secondo la guida risalgono ai fetici! Non ti ci sembra un po’ losco, uomo?
— Sì. Come poco fa, quando era il sottoscritto a seguirli, sembravano attratti dalla collezione di antiche porcellane, al Palazzo Imperiale.
Il Grosso ha nella pupilla un lampo di ammirazione, stile portinaia che vede nel Jours de France i fasti di un matrimonio principesco.
— Ci è bello, il palazzo?
Evoco i mosaici, le pareti tappezzate di pezzi di specchio, i lampadari a pendenti, i tappeti… uno più persiano dell’altro…
— Assomiglia a un casino marsigliese di prima del quattordici e al palazzo dei miraggi del museo Grevin. Una torta alla crema guarnita di frutta candita. È il fasto del Grande Secolo come se l’immagina una cameriera di Sottoprefettura. Per vivere là dentro, amico, bisogna essere puttana analfabeta o imperatore orientale. Ma ciò continua a impressionare le folle. I tizi che vedi ciondolare per le strade sono orgogliosi di evocare i fasti della corona. Godono di veder sfilare i loro sovrani sotto un coso pieno di pietre preziose, con lo scettro in mano. Per milioni di esseri l’idea della potenza è ancora legata alle gemme, e la gloria la misurano in carati. Il giorno che i Carrier, Van Cleef e soci chiuderanno bottega, le monarchie saranno finite. I sovrani metteranno le chiavi sotto lo stuoino del trono. Si mantengono ancora perché i ciottoli che si portano dietro sono più rutilanti di quelli che si potrebbero scagliare contro di loro…
La chiudo, dato il ritorno del nostro mentore. Porta due bottiglie dalle pareti meravigliosamente appannate che contengono un liquido biancastro, schiumoso al livello del tappo.
— Sembrasse Pernod bianco — si rallegra il Prode, impadronendosi di una bottiglia.
Beve, lancia un’esclamazione soffocata, e risputa a tutta pressione dal finestrino. Il suo getto fa floc sul vestito di un vaeze [Prete della religione musulmana.] con turbante bianco che passava, dottorale e meditativo, in un fruscio di tela.
— Che ci fosse questa vaccata? — ruggisce il Gonfio.
— Latte cagliato gasificato — risponde la nostra guida. — Non le piace?
Sua Veemenza protesta fino al blu apoplettico.
— Ti ci avevo detto qualcosa da bere, non da vomitare, eh, vaso di yogurt! Sai che impalato di prima classe, ’sto rammollito!
— Attenzione! — faccio io semplicemente.
Il Paparino la chiude e guarda in direzione del museo. Nel riquadro della porta è apparso un gruppetto di tre persone. Due uomini e una donna. La ragazza è un’iraniana dai lineamenti purissimi, la pelle color zafferano sbiadito. Indossa una specie di tailleur-uniforme di una leggera stoffa azzurra, e un buffo cappellino con dietro un proteggi-nuca di velo. Quanto ai due tizi, bisogna che ve li distilli dato che sono all’origine del nostro viaggio. Uno è alto, curvo, canuto, tutto bianco di pelo. Ha la faccia solcata da rughe e da cicatrici e il naso simile a una rapa. Indossa un vestito nero di taglio arcaico, comprato d’occasione molto tempo fa. Particolare anacronistico: nonostante questo austero vestito, il vecchio in questione ha i piedi scalzi in un paio di sandali talmente sfondati che, se li offrisse a un barbone, questi glieli sbatterebbe sul muso.
— Ci hai notato come che ci trascina i trampoli, il Prof? — mormora Berù. — Ci si direbbe che camminasse su cosci di bottiglia. Poco fa gli ci guardavo le fette, sono costernate di brutte piaghe varicellose. Uno di questi giorni gli ci verranno una flebite coi fiocchi, come a mamma Pelle di Vacca, la nostra portinaia. Te ce lo avevo detto che era allo spedale, mamma Pelle di Vacca?
— Piantala, mi affatichi i timpani.
Il Panciuto si rincantuccia per meglio brontolare, ed ecco che si mette ad agitare energicamente le bottiglie di soda. Dà loro una menata terribile. La schiuma sbava dappertutto nella macchina e fuori, contro la carrozzeria, come se si fosse svitata la capsula dell’estintore.
— Che cosa fa? — domanda l’autista, sbalordito e scontento.
— Formaggio, uomo mio — lo informa Berù. — Ci lascio sfuggire il gas per isolare il latte, afferri? Ti dispiacesse di agitarmene una? Mi ci fa venire il crampo dello scrittore, naccherare con entrambe due le mani.
— Stiamo per muoverci — taglio corto, seccato da questi lavori di formaggeria in un simile momento.
Infatti, i nostri tre personaggi si avviano verso una grossa auto americana i cui vetri accuratamente chiusi fanno pensare che sia dotata di aria condizionata.
Ma mi accorgo che non vi ho descritto il terzo.
Questi è un giovane biondo, dallo sguardo chiaro e ardito, la carnagione dorata. È vestito all’americana con un abito extraleggero a righe bianche e blu. Ha sulla spalla una macchina fotografica e in testa un cappello di paglia chiaro con un alto nastro a scacchi. Questa tenuta dovrebbe far raggrinciare i denti, eppure gli sta bene.
La macchina amerlokka parte morbidamente, e noi dietro.
Berù continua a lavorarsi lo yogurt. Io, rifletto deciso. Eppure questo caldo non favorisce le cogitazioni laboriose. Prova ne sia che i grandi pensatori vengono tutti dai climi temperati. Ripenso alla mattinata di ieri, in ufficio. Il Grosso e io facevamo una partita di dadi. Non avevamo niente da fare. Avrete notato che d’estate persino i criminali se ne stanno più tranquilli. Tutti inerziano, sempre because la temperatura ascendente. Eppure le giornate sono più lunghe, si dovrebbe avere più tempo per organizzare cose anziché vegetare nelle cose insignificanti. Invece no, è così; il dolce far niente di luglio-agosto… La grande indolenza premeditata.
Berù aveva appena messo insieme un tiro fortunato quando la porta si è socchiusa leggermente. Sbraitava di esultanza, il Prode. Il fatto di guadagnare al gioco, lo mette in transe. Si crede benedetto dagli dei. Bene, la porta si socchiude un po’, pochissimo. Mi aspettavo che qualcuno entrasse nella stanza, invece niente. Mi sentivo osservato. Non c’è niente di più intollerabile del supporre uno sguardo puntato su di voi e su ciò che fate, soprattutto quando si è un poliziotto.
Alla fine, sbotto.
— Se il figlio di buona donna che spia dalla porta aspetta che ci togliamo i calzoni, lo dica subito! — esclamo.
Bene, l’uscio si spalanca. E appare il Vecchio con sulle labbra un sorriso né carne né pesce. Naturalmente, io balbetto delle scuse.
— Lasci perdere, lasci perdere — mi calma con un gesto paterno-diretto-protettore. — E scusatemi se vi ho spiato…
— Oh, signor…
— Sì, sì, è la parola esatta — afferma il Piccolo Padre. — Stavo per entrare quando vi ho visti talmente presi dalla vostra partita a dadi che non ho osato proseguire.
Balle di fra Carlo! Le timidità della violetta, non è mai stato il genere dello Scotennato!
Si avvicina leccandosi il morale, come un gattone che vede arrivare il pezzo di polmone.
— Come si chiama questo appassionante gioco, signori?
— Direttore… signore… a dadi… — balbetta il Mammut.
Il Vecchio raccoglie i dadi e li fa saltellare nel palmo delicato.
Un sorriso machiavellico aleggia sulle sue sottili labbra.
— To’, amici miei — dice — per la prima volta nella mia carriera vi giocherò ai dadi un’inchiesta. Se riesco a fare un numero pari partite in caccia, altrimenti lasciamo perdere.
Ecco una cosa strana quanto sorprendente da parte di un uomo preciso, calcolatore, che si rigira sempre 49 volte la lingua nella bocca prima di parlare.
Lancia i dadi sulla carta assorbente del mio sottomano e realizza un nove. Conta i punti, scuote la testa, afferra i cubetti e li rilancia con un gesto quasi rabbioso.
— Dodici! — annuncia. — Credo che farete un bel viaggio, signori. Del resto, non è forse questa la stagione degli spostamenti?
Io rido del suo imbroglio. Ha una faccia di bronzo, il Piccolo Padre! Un appiombo che farebbe venire il singhiozzo alla torre di Pisa.
— Dove andiamo, Capo?
— Teheran!
Bérurier annuisce.
— Ci capita a fagiano, io adoro il Marocco! — dichiara.
Il Big Boss gli dedica uno sguardo il cui nerume vi farebbe passare una notte bianca.
— Bérurier — dice — gradirei che lei studiasse un po’ la carta geografica del mondo perché, in un periodo di conquiste cosmiche, le sue incertezze geografiche sono un insulto al genio umano.
Muso improvvisamente flaccido di Sua Maestà che assume un’aria di cretino tartassato.
Per tirar fuori il Prode dall’imbarazzo domando:
— E che cosa andiamo a fare in Iran, signor direttore?
— Un pedinamento. Onestamente, può darsi che sia danaro sprecato perché nulla autorizza a pensare che all'origine della mia decisione ci sia qualcosa d’illegale.
Continua a giocherellare coi dadi, lanciandoli e riprendendoli in mano senza dare alcuna importanza ai risultati.
— Ha mai sentito parlare di un certo Georges Grinsky?
— Prof?
— Esatto, vedo che lo conosce.
— Per dire il vero, lo conosco solo di fama, signor direttore.
— Meglio così, lo seguirà più facilmente se non l’ha mai incontrato. Conosce la fama di quel gentiluomo?
— È come dire il von Braun della malavita, non è vero? Il tecnico al quale i teppisti matricolati si rivolgono quando si trovano di fronte a problemi d’ordine più o meno scientifico.
— Bravo, Sanantonio, lei conosce perfettamente il Wo’s who del crimine. Effettivamente, Prof, come lo indica il suo soprannome, è un cervello. Un tipo molto intelligente e talmente scaltro che la sua fedina penale è attualmente vergine come la mia. Cento volte incriminato, e sempre assolto. Ha saputo rimanere in un no man’s land del delitto abbastanza sorprendente, non frequenta mai i delinquenti fuori dal suo gabinetto di consultazione, conduce una placida vita nel suo villino della regione parigina come tanti altri tranquilli padri della mala. Per poco non è stato eletto sindaco del suo comune. Comunque, è consigliere municipale. Un bel caso, no?
— Se ne sono visti di peggio, capo!
— È giusto — ammette il Disboscato. — Questo individuo ha un’altra particolarità: quella di non spostarsi mai. Ha un allevamento di fagiani nella periferia ovest e non c’è un giorno che non dia loro da mangiare personalmente. È più che un tranquillo padre di famiglia, è un casalingo, un pantofolaio. Se le dicessi che non possiede nemmeno un’auto? Viene a Parigi con i mezzi pubblici, una o due volte al mese al massimo. Le giuro che è un uomo interessante.
— Sembrerebbe.
— Ora — prosegue il direttore, — è successa una cosa strabiliante. Questo maniaco della tranquillità, questo feroce sedentario, questa pappamolla ha prenotato un biglietto d’aereo per Teheran. Che ne pensa?
Faccio una smorfia (anche se preferisco fare l’amore). Nonostante tutto, non c’è mica di che trasformarselo in bilanciere d’orologio solo perché un vecchio squalo tranquillo si concede delle vacanze in Persia, no? Forse ha voglia di andare a scavare in Mesopotamia per scovarci la grande culla della Civiltà. È come le anguille, Prof, sente l’appello delle fosse originali.
Il suo ritorno di fiamma, per così dire. L’andropausa o che so io… Nessuno ci sfugge, soprattutto i bravuomini. Trascorrono una vita ben regolata, senza sbavature. Si scavano profondi solchi di abitudini che li portano dolcemente verso la spiaggia infinita, come i solchi di un disco portano il braccio del pick up verso il nero nulla della rotazione silenziosa. Ma un giorno capita loro un inghippo, così, senza gridare scansati. Il demone di mezzogiorno, o di mezzanotte, o di non so che ora… Crac, zim, bum! Gli ingranaggi si sregolano. Non girano più nello stesso senso, si ribellano alla gravitazione universale.
Mi sa che con l’estate a Prof è venuta la smania dei viaggi. Chi può sapere da quanti giorni, da quante notti, accarezza il suo sogno di evasione iraniana?
Lo dico al Vecchiastro. Ma lui fa il labbro rifiutante. La sua mimica è “obiezione-non-valida-vostro-onore”.
— Se partisse solo, o con sua moglie, magari anche con un gruppo organizzato, capirei, Sanantonio. Sì, forse, ma non è tutto. Ha fissato due posti. L’altro è a nome di Jerry Mac King, il che, suppongo, non le dice nulla.
— Infatti — confesso, perché sono sicuro di non conoscere questo nome. — Un americano di origine scozzese, suppongo?
— Probabilmente.
— È un amico di Prof?
— Non si sono ancora mai visti — risponde il Vecchio scoccandomi un sorriso. — King è il devoto figlio di un funzionario statale americano di stanza in Europa. Ha scontato quattro anni di prigione ad Amsterdam per aggressione a mano armata…
Cava dalla tasca una fotografia e me la presenta.
— Ecce homo! — dice.
Bérurier, che teniamo in quarantena e che è stufo di fare il vaso da fiori, intercetta l’immagine con un perentorio colpo di mano.
— Un italiano suppongo — dice. — Con un nome simile! Ecce homo ci puzza di napoletano lontano un miglio.
Ripreso possesso della fotografia, mentre il Piccolo Padre lancia al mio amico il suo sguardo di aquila vendicativa, constato che Mac King è un bel giovanotto dallo sguardo chiaro e ardito, apparentemente sentimentale come la panoplia di un ginecologo.
— Riassumendo — aggiunge il Vecchio — Prof, che non ha mai lasciato il suo villino, s’imbarca bruscamente per l’Iran in compagnia di un delinquente che non ha ancora mai incontrato. Se la cosa le sembra normale, io ci sto, ma dovrà trovarmi una valida giustificazione.
Ha ragione. È una cosa strana.
— Come ha avuto sentore di questo viaggio, se non sono indiscreto, capo?
— Per un purissimo caso. Lei sa che è il nostro migliore ausiliario, non è vero, mio caro? Un suo collega stava prenotando alcuni posti d’aereo agli uffici dell’Air France sugli Champs-Élysées, quando ha visto Prof allo sportello vicino che stava facendo prenotazioni. Un flic è un flic. Scacciatela, e la sua natura torna al galoppo. Conoscendo Grinsky ha voluto sapere dove si recava. Ha atteso che il nostro buonuomo se ne fosse andato e, presentatosi come poliziotto, ha chiesto informazioni sul viaggio che l'altro progettava. Dopo di che, quello zelante ispettore mi ha fatto pervenire una piccola nota per segnalarmi la cosa. Io ho fatto raccogliere informazioni su Mac King, il cui nome non mi diceva nulla, e ho saputo che aveva appena finito di scontare una condanna in Olanda. King non ha mai messo piede in Francia. Esce di prigione stamattina. Penso che la prima cosa che farà sarà di precipitarsi a Parigi dato che i due uomini partono per Teheran domani.
Lo spennato tira fuori dalla tasca due biglietti dell'Air France e li posa sulla mia scrivania.
— E anche voi due — dice. — Non so perché, ma questo loro viaggio non mi piace affatto.
Prendo i biglietti, uno è a nome mio, l’altro a quello di Berù.
Per un tipo che pretendeva di giocarsi questa inchiesta a pari o dispari…

 

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