sabato 4 novembre 2023

Claudio Vergnani: Per ironia della morte


Ora
 
Vergy s’immobilizzò, concentrandosi sulla sensazione di pericolo. Si guardò intorno, mentre nella tasca la mano era stretta intorno all’impugnatura del rasoio. Ma, per quanto scrutasse nel buio, non vide nulla che potesse rappresentare una minaccia. Respirò a fondo per calmarsi. Riprese a camminare. Giunto alla fine del transetto, si fermò. Qualcosa aveva attirato la sua attenzione. Un piccolo riflettore, unica luce nell’oscurità che avvolgeva l’altare, illuminava una lunga teca di cristallo contenente delle reliquie.
Di colpo dimentico delle sue preoccupazioni, Vergy si chinò. Al di là dei vetri un piccolo, rinsecchito corpo mummificato era disteso a mani giunte. Su un lato c’era una targhetta di metallo. Turbato, lesse la scritta, anche se sentiva che non sarebbero stati un nome e nemmeno una storia ad acquistare all’improvviso per lui un’immensa importanza. Al contrario, tutto si riduceva a quella semplice, terribile immobilità.
Si passò una mano sul viso, sentendolo madido di sudore. Si chinò sulla teca per meglio vedere quelle spoglie antiche e il piccolo scheletro della santa gli apparve in tutta la sua fragilità. Com’era uguale – pur così diverso – al corpo appeso a testa in giù in quella fetida cantina e che pure aveva saputo parlargli! Ambedue, in qualche modo inspiegabile, usavano lo stesso linguaggio...
Dunque, la morte era tutta lì, in quell’inconcepibile immobilità e in null’altro. E come si stava lì, proprio lì, in quella bara di cristallo? Era un privilegio o era lo stesso che essere murati dietro un’anonima lapide in qualche dimenticato corridoio di un cimitero?

Vergy sospirò. No, non c’era più alcuna differenza dopo la morte, e, se anche ci fosse stata, non contava più nulla. Tutto quello che importava era ciò che veniva prima. Come diceva quel tale, i morti sanno solo una cosa: che è meglio essere vivi.
Trasse un profondo respiro e si staccò dalla teca. L’angoscia gli dava il capogiro. Dio onnipotente! Bisognava uscire vivi da quell’avventura, non foss’altro che per godersi ancora una volta il sapore secchissimo e incendiario d’un Martini, o la voluttà d’un bagno caldo e la carezza d’un accappatoio di spugna, o la morbidezza d’un soffice letto, o il conforto di una camicia nuova, o…
Si costrinse a calmarsi. Si sedette in un punto che la luce non riusciva a raggiungere, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, il capo chino, in attesa. Fuori, appena oltre le pareti della chiesa, la notte, il freddo della laguna e gli assassini. Dentro, solo quei resti nella teca, il riverbero delle poche luci, il raccoglimento del silenzio e lui, un uomo capace di tutto ma non di fermarsi…

Prologo
 
Nella penombra imbastardita delle luci psichedeliche, Vergy udiva una voce che gli si rivolgeva affiorando da una nebbia musicale che danzava nella marea incostante dell’ubriachezza. Parlava, sussurrando ipocrita. Blandiva e incoraggiava. Nel caldo, bestiale sentore di sudore, il suo istinto si aggrappava a un barlume residuo di lucidità: non ti fidare.
Un volto cereo lo fissava da oltre il tavolino. A Vergy sembrava fosse immobile da ore. Si disse che forse era sempre stato lì dal giorno della creazione, mentre intorno sorgevano strade e palazzi, e quel night club da incubo. Comunque, non era da quello che proveniva la voce. Di fianco, un uomo parlava e parlava. Un viso triangolare e aguzzo, due occhi rossi di stanchezza, fumo, alcol e altro. Due brutti occhi sporchi. Si era presentato come il Barone.
Su un piccolo palcoscenico una ragazza si liberava, squittendo lasciva, degli ultimi indumenti. Al suo fianco un uomo in frac la sfiorava col pomello del suo lungo bastone da passeggio, indugiando sul ventre e tra le cosce. Dal buio eccitato della sala si alzavano rochi mormorii e incoraggiamenti, in attesa dell’immancabile penetrazione.
Il Barone continuava a parlargli. Vergy fece un gesto vago, nulla più di una presa di tempo, ma che poteva passare per uno snervato invito a continuare. Mentre buttava giù l’ennesimo gin tonic, bagnandosi il maglione, si sorprese ad ascoltare nomi e parole privi di senso, mescolati ad altri termini incomprensibili. Ci mise un po’ a capire che l’uomo si esprimeva in un confuso italiano, misto – quand’era in difficoltà – a parole in francese.

A poco a poco, la proposta assunse contenuti concreti.
Erano pazzi o ubriachi?
Gli chiedevano di trovare e riportargli una ragazza. Una ragazza finita oltre confine in un giro che avevano definito “difficile”. Ne parlavano come se si trattasse di una loro preziosa proprietà. Perché la volevano?
Scosse la testa, eppure ebbe la sensazione di avere accettato. Una mano umida di sudore strinse la sua, nel rituale del patto concluso. Vergy sollevò il viso e ancora incontrò lo sguardo dell’uomo silenzioso. Questi era stato definito il Maggiordomo, ma altro non era che un guardaspalle. Provò il desiderio di colpirlo con un pugno in faccia. Invece si alzò, disperatamente concentrato sulla via della toilette. Sentiva che il vomito non poteva essere tenuto a bada ancora per molto. Era tutta la sera che lo combatteva e ora stava per capitolare.
Mentre si allontanava ascoltando le ultime disposizioni – luogo, data, modalità e un nome, Gomez – una voce urlava da un angolo del suo cervello: nontifidarenontifidarenontifidarenontifidare…

 

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