3
Sulle prime non lo riconobbi. Forse per la ragione opposta per cui Waldo sembrava non averlo riconosciuto. Nel bar aveva tenuto il cappello per tutto il tempo e adesso non lo aveva. I capelli gli finivano completamente ed esattamente alla stessa altezza a cui si metteva il cappello. Sopra quella linea la pelle era bianca, dura, asciutta e lucida quasi come tessuto cicatriziale. Non aveva semplicemente vent’anni di più. Era un altro uomo.
Ma riconoscevo la pistola che aveva in pugno, la 22 automatica da tiro al bersaglio con il grosso mirino anteriore. E riconoscevo i suoi occhi. Occhi lucenti, aspri e vuoti come quelli di una lucertola.
Era solo. Appoggiò lievemente l’arma contro la mia faccia e disse tra i denti: “Già, io. Andiamo dentro”.
Arretrai giusto quanto bastava e mi fermai. Proprio come lui avrebbe voluto che facessi, in modo da permettergli di chiudere la porta senza muoversi troppo. Lo capii dai suoi occhi che voleva questo da me.
Non ero spaventato. Ero paralizzato.
Una volta che ebbe richiuso la porta mi fece arretrare un altro po’, lentamente, fino a quando ci fu qualcosa dietro le mie gambe. I suoi occhi guardarono nei miei.
“Quello è un tavolo da gioco,” disse. “Qualche fesso qui gioca a scacchi. Tu?”
Deglutii. “A essere esatti, non è che giochi. Ci perdo un po’ di tempo.”
“Bisogna essere in due,” disse con una certa rauca delicatezza, come se un poliziotto lo avesse pestato alla trachea con uno sfollagente una volta, durante un terzo grado.
“È un problema,” dissi. “Non una partita. Guarda i pezzi.”
“Non ne capisco niente.”
“Be’, sono da solo,” dissi, e la mia voce tremò al punto giusto.
“Non fa nessuna differenza per me,” disse. “Sono spacciato comunque. Magari qualche spia mi incastra domani, o la settimana prossima, o che diavolo? È solo che non mi è piaciuta la tua faccia, amico. E pure quel frocetto in giacca da barman che crede di sapere tutto e che ha giocato come attaccante sinistro per Fordham o quello che è. All’inferno i tipi come voi.”
Non parlai né mi mossi. Il grosso mirino anteriore mi raschiò la guancia leggermente, era quasi una carezza. L’uomo sorrise.
“E poi è un modo di chiudere bene un affare,” disse. “Non si sa mai. Un vecchio avanzo di galera come me non lascia impronte buone, nemmeno quando è sbronzo. E se io non lascio impronte buone tutto quello che ho a mio sfavore sono due testimoni. All’inferno. Tu stai per staccare la spina, amico. Immagino che lo sai.”
“Che cosa ti aveva fatto Waldo?” Cercai di dirlo come se volessi saperlo, e non per evitare di tremare troppo.
“Ha vuotato il sacco su una rapina nel Michigan e mi ha fatto sbattere dentro per quattro anni. E per lui caso chiuso. Quattro anni nel Michigan non è una crociera estiva. Ti fanno fare il bravo in quelle prigioni di Stato per ergastolani.”
“Come sapevi che sarebbe passato di là?” gorgogliai.
“Non lo sapevo. Oh, certo, lo stavo cercando. Sicuro che lo volevo vedere. L’ho intravisto in strada l’altro ieri notte ma poi l’ho perso. Fino a quel momento non lo stavo cercando. Dopo sì. Un tipo fico, Waldo. Come sta?”
“Morto,” dissi.
“Sono ancora in gamba,” ridacchiò l’uomo. “Ubriaco o sobrio. Be’, adesso non c’è nessuno che fa la fila per vedermi. Mi hanno già identificato al Comando degli sbirri?”
Non gli risposi abbastanza in fretta. Mi affondò la canna nella gola e mi sentii il fiato mozzo, mancò poco che, d’istinto, afferrassi l’arma.
“Nahh,” mi mise in guardia lui con calma. “Nahh. Non sei scemo fino a questo punto.”
Abbassai le mani lungo i fianchi, le tenni aperte, le palme rivolte a lui. Era così che le avrebbe volute. Non mi aveva toccato, tranne che con la pistola. Non sembrava importargli che anch’io potessi averne una. Non gli sarebbe importato, se intendeva andare fino in fondo.
Non sembrava gli importasse molto di un bel niente, visto che era tornato in quell’isolato. Forse il vento caldo gli aveva fatto qualcosa. Stava rimbombando contro le imposte chiuse come le onde sotto un molo.
“Hanno delle impronte,” dissi. “Non so quanto buone.”
“Saranno buone quanto basta, ma non per trasmetterle con la telescrivente. Ci vuole il tempo di un’andata e ritorno per Washington con la posta aerea per controllarle nel modo giusto. Dimmi perché sono qua, amico.”
“Hai sentito il ragazzo e me parlare nel bar. Gli ho detto il mio nome e dove abito.”
“Questo è come, amico. Ho detto perché.” Mi sorrise. Era un sorriso davvero fetente considerando che era l’ultimo che avrei visto.
“Taglia corto,” risposi. “Il boia non ti chiede di indovinare perché si trova lì.”
“Ma guarda guarda, sei un duro. Dopo di te, faccio visita a quel ragazzo. L’ho seguito fino a casa dal Comando di polizia, ma ho pensato che quello da sistemare per primo eri tu. L’ho seguito fino a casa dal municipio, nella macchina a nolo che aveva Waldo. Dal Comando di polizia, amico. Quei cretini di sbirri. Puoi sederti sulle loro ginocchia e loro manco ti riconoscono. Ti metti a correre dietro a un tram e loro aprono il fuoco con i mitra e fanno fuori due pedoni, un tassinaro che dorme in macchina e una vecchia donna delle pulizie che passa lo straccio al secondo piano. E mancano il tizio a cui stanno dietro. Quei cretini schifosi di sbirri.”
Fece ruotare la bocca da fuoco contro il mio collo. I suoi occhi apparivano più folli di prima.
“Ho tempo,” disse. “La macchina a nolo di Waldo non viene segnalata subito. E loro a Waldo non lo identificano tanto presto. Io lo conosco, Waldo. Un furbo, era. Uno preciso, Waldo.”
“Finirò per vomitare,” dissi, “se non mi togli dalla gola questa pistola.”
Lui sorrise e spostò la pistola puntandomela al cuore. “Qui va bene? Dillo tu quando.”
Evidentemente avevo parlato a voce più alta di quanto intendessi. La porta della cabina-armadio vicino al letto a muro rivelò una fessura di oscurità. Poi due centimetri. Poi dieci. Vidi degli occhi, ma non li guardai. Tenni lo sguardo fisso negli occhi dell’uomo pelato. Molto fisso. Non volevo che lui staccasse i suoi occhi dai miei.
“Spaventato?” chiese piano.
Mi appoggiai contro la pistola e cominciai a tremare. Pensai che gli sarebbe piaciuto vedermi tremare. La ragazza emerse dalla porta. Aveva di nuovo la pistola in mano. Mi dispiaceva maledettamente per lei. Avrebbe cercato di raggiungere la porta, oppure di urlare. In un caso o nell’altro sarebbe stata la fine, per entrambi noi.
“Be’, non metterci tutta la notte,” belai. La mia voce suonò lontana, come una voce alla radio, dall’altra parte di una strada.
“Questo mi piace, amico,” sorrise lui. “Sono uno fatto così.”
La ragazza fluttuò nell’aria, da qualche parte dietro di lui. Non ci fu mai nulla di più silenzioso di lei che si muoveva. Solo che non sarebbe servito a niente. Il killer non avrebbe corso nessun rischio con lei. Conoscevo quell’uomo da una vita ma lo stavo guardando negli occhi solo da cinque minuti.
“Supponiamo che mi metta a urlare,” dissi.
“Già. Supponiamo. Forza, urla,” disse, con il suo sorriso da killer.
La ragazza non era andata vicino alla porta. Era in piedi esattamente dietro di lui.
“Bene. È a questo punto che urlo,” dissi.
Come se quella fosse la parola d’ordine la ragazza gli affondò la piccola pistola in basso nelle costole, senza emettere un solo rumore.
Lui fu costretto a reagire. Fu come il riflesso del ginocchio colpito dal martelletto. La bocca gli si spalancò di botto ed entrambe le braccia gli schizzarono dai fianchi e la schiena gli si arcuò un poco indietro. La sua pistola adesso era puntata contro il mio occhio destro.
Mi abbassai e gli assestai una ginocchiata con tutta la mia forza, all’inguine.
Il suo mento venne giù e io lo colpii. Lo colpii come se stessi conficcando l’ultimo chiodo nella traversina della prima ferrovia transcontinentale. Riesco ancora a sentirlo quel colpo, ogni volta che fletto le nocche.
La pistola mi rastrellò il lato della faccia ma non sparò. Lui era già afflosciato. Andò giù contorcendosi, annaspando, fianco sinistro sul pavimento. Gli assestai un calcio alla spalla destra – duro. La pistola saltò lontano da lui, scivolò sul tappeto, finì sotto una sedia. Udii i pezzi degli scacchi tintinnare sul pavimento da qualche parte dietro di me.
La ragazza gli stava sopra e lo guardava. Poi i suoi occhi cupi sbarrati, terrorizzati, si aggrapparono ai miei.
“Con questo ti sono debitore,” dissi. “Tutto quello che ho è tuo, ora e per sempre.”
Non mi udì. I suoi occhi erano spalancati, fissi, tanto che si vedeva il bianco intorno alle vivide iridi azzurre. Arretrò rapidamente verso la porta tenendo la piccola pistola puntata, frugò dietro di sé alla ricerca della maniglia, la girò. Aprì la porta e sgusciò fuori.
La porta si chiuse.
Era a capo scoperto e senza la giacca a bolero.
Aveva solamente la pistola, e la sicura ancora abbassata in modo che non potesse sparare.
C’era silenzio nella stanza a quel punto, nonostante il vento. Poi udii il killer rantolare sul pavimento. La sua faccia aveva un pallore verdastro. Gli andai dietro e lo palpai alla ricerca di altre armi, senza trovarne nessuna. Dalla scrivania tirai fuori un paio di manette comprate ai grandi magazzini, gli tenni le braccia unite davanti e gliele feci scattare ai polsi. Avrebbero tenuto se non le strattonava troppo forte.
Con gli occhi lui mi prese le misure per la bara, nonostante il dolore. Era per terra, in mezzo alla stanza, ancora sul fianco sinistro, un piccoletto contorto, raggrinzito, dal cranio pelato, con le labbra tirate e i denti disseminati di otturazioni da quattro soldi. La bocca sembrava una voragine nera e il respiro gli entrava a piccole ondate, si ingorgava, si fermava, partiva di nuovo, arrancando.
“Spiacente, amico,” grugnii. “Che potevo fare?”
Dissi questo – a un killer come lui.
Andai nella cabina-armadio e aprii un cassetto della cassettiera. Il cappello e la giacca della ragazza erano appoggiati sulle mie camicie. Li misi sotto, verso il fondo e ci schiacciai sopra le camicie. Poi andai nel cucinotto e mi versai una massiccia dose di whiskey, la mandai giù e rimasi immobile per un momento, ascoltando il vento caldo che urlava contro il vetro della finestra. La porta di un garage sbatté, il cavo di una linea elettrica troppo lasco tra gli isolatori picchiava contro il lato dell’edificio con un rumore simile a un tappeto che viene sbattuto.
L’alcol mi fece effetto. Rientrai nel soggiorno e aprii una finestra. Il tizio sul pavimento non aveva sentito il profumo di sandalo della ragazza, ma qualcun altro avrebbe potuto.
Richiusi la finestra, mi asciugai le palme delle mani e presi il telefono per chiamare il Comando di polizia.
Copernik era ancora là. La sua voce da furbastro disse: “Sì? Dalmas? Non dirmelo. Scommetto che ti è venuta un’idea”.
“Lo avete già identificato quel killer?”
“Questo non possiamo dirlo, Dalmas. Maledettamente spiacente e bla-bla-bla. Lo sai come funziona.”
“Okay, non mi importa chi sia. Solo, venite qui nel mio appartamento e toglietemelo di torno.”
“Santa –!” Poi la voce di Copernik si abbassò, quasi un sussurro. “Aspetta un momento. Aspetta solo un momento.” Mi sembrò di udire come da molto lontano una porta che veniva chiusa. Poi di nuovo la voce di Copernik. “Spara,” disse in un soffio.
“Ammanettato,” dissi. “Tutto vostro. Sono stato costretto a dargli una ginocchiata, ma se la caverà. Era venuto qui a eliminare un testimone.”
Un’altra pausa. La voce era tutta miele. “Adesso ascolta, ragazzo, chi altri c’è lì con te?”
“Chi altri? Nessuno. Solo io.”
“Lascia tutto com’è, ragazzo. Silenzio assoluto. Okay?”
“Credi che voglia tutti i balordi del quartiere qui dentro per ammirare il panorama?”
“Prenditela con calma, ragazzo. Calma. Tu rimani dove sei e non fare nulla. Io sono praticamente già lì. Non toccare niente. Capito?”
“Sì.” Gli diedi di nuovo l’indirizzo e il numero dell’appartamento per fargli risparmiare tempo.
Potevo vedere il suo faccione ossuto luccicare. Recuperai da sotto la sedia la calibro 22 da tiro al bersaglio e rimasi seduto con quella in mano fino a quando non udii dei passi nel corridoio fuori dal mio appartamento e delle nocche tamburellare piano sul pannello della porta.
Copernik era solo. Riempì rapidamente il vano della porta, mi spinse nella stanza con un ghigno tirato sulla faccia e chiuse la porta. Rimase lì in piedi, la mano sotto il lato sinistro della giacca. Un uomo grande e grosso e ossuto, dagli occhi piatti e crudeli.
Li abbassò lentamente e guardò il tizio sul pavimento. Il collo dell’uomo aveva delle brevi contrazioni. I suoi occhi si muovevano a scatti, occhi malati.
“Sei sicuro che è lui il tizio?” La voce di Copernik era rauca.
“Assolutamente. Dov’è Ybarra?”
“Oh, aveva da fare.” Copernik non mi guardò mentre lo diceva. “Tue quelle manette?”
“Già.”
“Chiave.”
Gliela lanciai. Copernik mise rapidamente un ginocchio per terra accanto al killer e gli tolse le mie manette dai polsi, gettandole da una parte. Estrasse le sue dal fianco, afferrò le braccia dell’uomo pelato e gliele portò dietro la schiena, poi fece scattare i braccialetti.
“D’accordo, razza di –,” disse il killer con voce atona.
Copernik sogghignò, chiuse il pugno e assestò in bocca all’uomo ammanettato un colpo da fare paura. La testa del killer fece uno scatto all’indietro a spezzargli quasi il collo. Del sangue gli colò da un angolo della bocca.
“Prendi un asciugamano,” ordinò Copernik.
Ne presi uno e glielo diedi. Copernik lo cacciò tra i denti dell’uomo ammanettato, con cattiveria, si alzò e si passò le dita ossute tra i sudici capelli biondi.
“D’accordo. Racconta.”
Raccontai, lasciando completamente fuori la ragazza. Suonò un po’ strana. Copernik mi osservò, senza dire niente. Si massaggiò un lato del naso pieno di vene. Poi tirò fuori il pettine e si sistemò i capelli esattamente come aveva fatto in precedenza nella serata, nel bar.
Mi avvicinai e gli diedi la pistola. Lui la guardò distrattamente, se la lasciò cadere nella tasca della giacca. C’era qualcosa nei suoi occhi, e un ghigno duro e soddisfatto gli attraversava la faccia.
Mi chinai e cominciai a raccogliere gli scacchi, lasciandoli cadere nella scatola. Misi la scatola sulla mensola del caminetto, raddrizzai una delle gambe del tavolo da gioco, trafficai per un po’. Copernik continuò a osservarmi per tutto il tempo. Volevo che arrivasse a pensare una certa cosa.
Alla fine la tirò fuori. “Questo tizio usa una calibro 22,” disse. “La usa perché è bravo al punto da fare il lavoro con un piccolo calibro. Questo significa che è in gamba. Bussa alla tua porta, ti spiana quel ferro nel ventre, ti spinge dentro alla stanza, dice che è qui per tapparti la bocca per sempre... eppure tu riesci ad avere la meglio. Tu che non hai nessuna pistola. E ci riesci da solo. Anche tu sei parecchio in gamba, amico.”
“Ascolta,” dissi, e guardai per terra. Raccolsi un altro pezzo degli scacchi e me lo rigirai tra le dita. “Stavo lavorando a un problema di scacchi,” dissi. “Cercando di dimenticare alcune cose.”
“Tu hai in mente qualcosa, amico,” disse Copernik in tono pacato. “Non starai cercando di fare fesso un vecchio sbirro, vero, ragazzo?”
“È un buon colpo e io te lo sto passando,” dissi. “Che diavolo vuoi di più?”
L’uomo a terra fece un verso indistinto da dietro l’asciugamano. La sua testa calva era lucida di sudore.
“Che ti prende, amico? Stai complottando qualcosa?” Copernik sussurrò quasi.
Lo guardai brevemente, poi di nuovo distolsi lo sguardo. “D’accordo,” dissi. “Tu lo sai dannatamente bene che non sarei riuscito a sistemarlo da solo. Mi stava puntando contro la pistola e lui è uno che mette il piombo nel punto in cui guarda.”
Copernik chiuse un occhio e ammiccò amabilmente verso di me con l’altro. “Va’ avanti, amico. Avevo considerato anche quello.”
Passeggiai avanti e indietro un altro po’, in modo da renderla convincente. Lentamente dissi: “C’era qui un ragazzo che ha fatto un lavoretto su a Boyle Heights, una rapina, ma non ha funzionato. Un colpo da due soldi a una stazione di servizio. Conosco la sua famiglia. Non è un ragazzo cattivo. Era qui che cercava di spillarmi i soldi per il treno. Quando hanno bussato alla porta lui si è nascosto... là dentro”.
Indicai il letto a muro e la porta accanto. La testa di Copernik ruotò lentamente in quella direzione, poi si girò di nuovo verso di me. I suoi occhi ammiccarono ancora una volta. “E il ragazzo aveva una pistola,” disse.
Annuii. “E gli è andato alle spalle. Ci vuole fegato, Copernik. Devi lasciarlo perdere, quel ragazzo. Devi permettergli di restarne fuori.”
“C’è un mandato contro questo ragazzo?” chiese piano Copernik.
“Non ancora, dice. Ha paura che possa esserci, però.”
Copernik sorrise. “Sono un uomo della Omicidi,” disse. “E tu, che cosa hai combinato, amico?”
Indicai l’uomo imbavagliato e ammanettato sul pavimento. “Lo hai preso, o sbaglio?” dissi gentilmente.
Copernik continuò a sorridere. Una grossa lingua biancastra venne fuori a massaggiare il suo grosso labbro inferiore. “Come ci sono riuscito?” bisbigliò.
“Le hai tirate fuori le pallottole da Waldo?”
“Sicuro. Due palle da 22 a canna lunga. Una schiacciata contro una costola, l’altra buona.”
“Sei un tipo attento. Non ti sfugge niente. Di me non sai nulla. Sei passato di qui per vedere che pistole avessi.”
Copernik si alzò e andò a mettere di nuovo un ginocchio a terra accanto al killer. “Puoi sentirmi, amico?” chiese tenendo la faccia vicino a quella dell’uomo sul pavimento.
Il killer emise un qualche suono indistinto. Copernik si alzò e sbadigliò. “A chi diavolo può importare quello che dice lui? Vai avanti, amico.”
“Non ti aspettavi di trovare niente, ma volevi dare un’occhiata a casa mia. E mentre stavi ficcando il naso là dentro,” indicai la cabina-armadio, “mentre io stavo zitto, magari ero un po’ seccato, forse, qualcuno ha bussato alla porta. Così è entrato lui. E dopo un po’ tu sei saltato fuori e lo hai sistemato.”
“Ah,” Copernik fece un ampio sorriso, con tanti denti come un cavallo. “Ci sei, amico. Gli ho dato un pugno e una ginocchiata e l’ho sistemato. Tu non avevi nessuna pistola e il tizio mi si è rivoltato contro parecchio svelto e io gli ho assestato un gancio sinistro da mandarlo fino in cantina. Okay?”
“Okay,” dissi.
“È così che la racconterai al Comando?”
“Già,” dissi.
“Io ti coprirò, amico. Tu trattami bene e io giocherò sempre nella tua squadra. Dimenticatelo quel ragazzo. Fammi sapere se ha bisogno di tirare il fiato.”
Si avvicinò e mi offrì la mano. Gliela strinsi. Era umida e viscida come un pesce morto. Le mani viscide e quelli che le possiedono mi danno la nausea.
“C’è solo un’altra cosa,” dissi. “Questo tuo collega, Ybarra. Non gli roderà un po’ che tu non lo abbia coinvolto?”
Copernik si ravviò i capelli e passò un fazzolettone giallastro di seta sul marocchino del cappello.
“Lo spagnolo?” chiese beffardo. “Che vada all’inferno!” Mi venne vicino e mi alitò in faccia. “Niente errori, amico – con questa nostra storia.”
Aveva l’alito cattivo. Inevitabile.
4
Eravamo soltanto in cinque nell’ufficio del capo dei detective quando Copernik la snocciolò. Uno stenografo, il capo, Copernik, io, Ybarra. Ybarra sedeva su una sedia inclinata contro la parete laterale. Teneva il cappello calato sugli occhi ma di sotto si intravedeva il suo sguardo affabile, e il suo sorrisetto immobile aleggiava agli angoli delle labbra ispaniche ben disegnate. Non guardava Copernik direttamente. Copernik non lo guardava per niente.
Fuori, nel corridoio, erano state scattate fotografie di Copernik che mi stringeva la mano, Copernik con il cappello dritto e la pistola in mano e in faccia un’espressione austera, determinata.
Dicevano di sapere chi era Waldo, ma che a me non lo volevano dire. Io non ci credetti, visto che il capo dei detective aveva sulla scrivania una foto di Waldo scattata all’obitorio. Un magnifico lavoro, capelli pettinati, cravatta a posto, la luce che gli colpiva gli occhi proprio sotto l’angolazione giusta per farli brillare. Nessuno avrebbe mai detto che si trattava della foto di un uomo morto ammazzato con due buchi di pallottola nel cuore. Sembrava un dongiovanni da sala da ballo intento a decidere se prendersi la bionda o la rossa.
Era circa mezzanotte quando rientrai a casa. Il portone del palazzo era chiuso e mentre cercavo le chiavi una voce bassa mi parlò dall’oscurità.
Tutto quello che disse fu: “Per favore!”, ma la riconobbi. Mi girai e posai gli occhi su una Cadillac coupé scura parcheggiata accanto al marciapiede. Era a fari spenti. La luce della strada illuminava gli occhi di una donna.
Mi avvicinai. “Sei una dannata stupida,” dissi.
“Sali,” disse lei.
Salii, la ragazza avviò la macchina, guidò per un isolato e mezzo lungo la Franklin, poi svoltò in Kingsley Drive. Il vento torrido continuava a bruciare e a infuriare. Da una finestra aperta e riparata da una tenda, sul lato di un palazzo, usciva la melodia vivace di una radio. C’erano molte auto parcheggiate ma lei trovò un posto libero dietro una piccola Packard cabriolet nuova di zecca con ancora l’adesivo del venditore sul parabrezza. Dopo avere accostato al marciapiede con qualche abile manovra, la ragazza si appoggiò all’indietro nell’angolo del sedile, tenendo le mani guantate sul volante.
Era tutta in nero adesso, o in marrone scuro, e indossava un bizzarro cappellino. Sentii il legno di sandalo del suo profumo.
“Non sono stata molto gentile con te, vero?” disse.
“Non hai fatto altro che salvarmi la vita.”
“Che cosa è successo?”
“Ho chiamato la polizia e ho fornito un po’ di frottole a un poliziotto che non mi piace, dando a lui tutto il merito dell’arresto, e questo è quanto. Il tizio che mi hai tolto di dosso era l’uomo che ha ucciso Waldo.”
“Vuoi dire... non gli hai parlato di me?”
“Signora, non hai fatto altro che salvarmi la vita. Cos’altro vuoi che faccia? Sono pronto e disposto ad aiutarti, e cercherò di essere all’altezza.”
Lei non disse nulla né si mosse.
“Da me nessuno ha saputo chi sei,” aggiunsi. “A proposito, nemmeno io lo so.”
“Sono la signora Barsaly, duecentododici Fremont Place. Olympia due-quattro-cinque-sei-nove. È questo che volevi?”
“Grazie,” biascicai, e mi rotolai tra le dita una sigaretta secca, spenta. “Perché sei tornata?” chiesi, poi feci schioccare le dita della mano sinistra. “Il cappello e la giacca,” dissi. “Vado su a prenderli.”
“È più di questo,” disse lei. “Voglio le mie perle.”
Avrei dovuto sobbalzare un pochino. Sembrava che ce ne fosse stato abbastanza, anche senza perle.
Una macchina sfrecciò sulla strada al doppio della velocità alla quale sarebbe dovuta andare. Una sottile, acre nube di polvere si sollevò nella luce dei lampioni, turbinò e scomparve. La ragazza tirò su rapidamente il finestrino per ripararsi dalla polvere.
“D’accordo,” dissi. “Dimmi delle perle. Abbiamo avuto un omicidio e una donna del mistero e un killer demente e un eroico salvataggio e un detective della polizia incastrato a fare un rapporto falso. Adesso abbiamo pure le perle. D’accordo, sentiamo.”
“Dovevo ricomprarle per cinquemila dollari. Dall’uomo che tu chiami Waldo e io Joseph Choate. Avrebbe dovuto averle lui.”
“Niente perle,” dissi. “Ho visto quello che è venuto fuori dalle sue tasche. Un sacco di soldi ma niente perle.”
“Potrebbero essere nascoste nel suo appartamento?”
“Sì,” dissi. “Per quanto ne so potrebbe averle nascoste da qualsiasi parte in California eccetto che nelle sue tasche. Come sta il signor Barsaly in questa notte rovente?”
“È ancora in centro, alla sua riunione. Diversamente non sarei riuscita a venire.”
“Be’, avresti potuto portarlo con te,” dissi. “Poteva mettersi sullo strapuntino.”
“Oh, non so,” disse lei. “Frank pesa novanta chili ed è piuttosto massiccio. Non credo che gli piacerebbe sedere sullo strapuntino, signor Dalmas.”
“Insomma, di che diavolo stiamo parlando?”
Lei non rispose. Le sue mani guantate tamburellarono leggermente, provocatoriamente, sul bordo del sottile volante. Gettai fuori dal finestrino la sigaretta mai accesa, mi girai lievemente e la presi tra le braccia.
Stavo tremando quando la lasciai andare. Lei si ritrasse quanto più poté contro la portiera della macchina e si passò il dorso del guanto sulla bocca. Rimasi seduto, del tutto immobile.
Non parlammo per qualche tempo. Poi, molto lentamente, lei disse: “Volevo che lo facessi. Ma non sono stata sempre così. È solo da quando Stan Phillips rimase ucciso nel suo aereo. Se non fosse stato per questo, sarei la signora Phillips adesso. Fu Stan a darmi le perle. Costano quindicimila dollari, disse una volta. Perle bianche, quarantuno in tutto, la più grossa ha un diametro di circa otto millimetri. Non so quanti grani. Non le ho mai fatte stimare né le ho mai mostrate a un gioielliere, per cui non so queste cose. Ma le amavo per Stan. Io amavo Stan. Nel modo in cui si ama una sola volta. Riesci a capirmi?”.
“Come ti chiami?” chiesi.
“Lola.”
“Continua a parlare, Lola.” Tirai fuori di tasca un’altra sigaretta avvizzita e la tormentai tra le dita giusto per dare loro qualcosa da fare.
“Avevano una semplice fibbia d’argento con la forma di un’elica d’aereo a due pale. C’era un piccolo diamante al posto del mozzo. È stato per questo che ho detto a Frank che erano perle false che mi ero comprata io. Lui non vede la differenza. Non è tanto facile, in effetti. Sai, Frank è parecchio geloso.”
Nel buio mi venne più vicina, il suo fianco toccò il mio. Ma questa volta io non mi mossi. Il vento urlava e gli alberi si scuotevano. Continuai a rotolarmi la sigaretta tra le dita.
“Immagino tu abbia letto quella storia,” disse Lola. “Della moglie e delle perle vere e di lei che dice al marito...”
“L’ho letta,” dissi.
“Assunsi Joseph. Mio marito era in Argentina a quell’epoca. E io mi sentivo molto sola.”
“Proprio tu dovresti sentirti sola,” dissi.
“Joseph e io ce ne andavamo parecchio in giro in macchina. Certe volte ci facevamo un drink o due assieme. Ma questo è tutto. Io non vado in giro...”
“Gli hai detto delle perle,” la interruppi bruscamente. “E quando i tuoi novanta chili di manzo sono tornati dall’Argentina e hanno sbattuto fuori Joseph – lui si è portato via le perle, perché sapeva che erano vere. E poi ti ha proposto di ricomprargliele per cinquemila dollari.”
“Sì,” disse semplicemente lei. “Naturalmente non volevo andare alla polizia. E naturalmente, viste le circostanze, a Joseph non faceva paura che io conoscessi il suo indirizzo.”
“Povero Waldo,” dissi. “Per certi versi mi spiace per lui. Il momento peggiore per incappare in un vecchio amico che vuole fartela pagare.”
Strofinai un fiammifero contro la suola della scarpa e mi accesi la sigaretta. Il tabacco era talmente secco per il vento caldo che bruciò come erba. La ragazza sedeva accanto a me in silenzio, le mani di nuovo sul volante.
“Al diavolo le donne, e anche gli aviatori,” dissi. “E tu sei ancora innamorata di Stan, o pensi di esserlo. Dove tenevi le perle?”
“Sul mio comodino, in un cofanetto di malachite russa. Assieme a un po’ di bigiotteria. Ero costretta a fare così, se ogni tanto volevo indossarle.”
“E valevano quindicimila dollari. E tu pensi che Joseph potrebbe averle nascoste nel suo appartamento. Trentuno, giusto?”
“Sì,” disse. “Credo che sia chiedere molto.”
Aprii la portiera e scesi dalla macchina. “Sono stato pagato,” dissi. “Andrò a vedere. Le porte del mio palazzo non sono molto ostinate. I poliziotti scopriranno dove abitava Waldo solo quando pubblicheranno la sua foto, ma non questa notte, direi.”
“È davvero gentile da parte tua,” disse Lola. “Vuoi che ti aspetti qui?”
Ero con un piede appoggiato al predellino, proteso nell’abitacolo, a guardarla. Non risposi alla sua domanda. Rimasi semplicemente lì dov’ero a guardare lo splendore dei suoi occhi. Poi chiusi la portiera e mi avviai lungo la strada, verso la Franklin.
Perfino con il vento che mi flagellava la faccia potevo ancora sentire l’odore del legno di sandalo nei suoi capelli. E il tocco delle sue labbra.
Feci scattare la serratura della porta del Berglund, attraversai l’androne silenzioso fino all’ascensore, e salii al terzo piano. Quindi in punta di piedi percorsi il corridoio deserto e sbirciai sotto la fessura della porta dell’appartamento 31. Nessuna luce. Tamburellai – l’antico, leggero, confidenziale tamburellare del trafficante di whiskey dal gran sorriso e dalle tasche posteriori superprofonde. Nessuna risposta. Presi dal portafoglio il pezzo di dura, spessa celluloide che faceva da finestrella sulla copertina della patente, e lo feci scivolare tra la serratura e lo stipite, appoggiandomi forte sulla maniglia e spingendo contro i cardini. Il bordo della celluloide trovò il lato obliquo della serratura a molla e la fece scattare indietro con un piccolo rumore secco, simile a un ghiacciolo che si spezza. La porta cedette, mi inoltrai in un’oscurità quasi totale. La luce filtrava dalla strada, proiettando chiazze chiare qua e là.
Richiusi la porta, schiacciai l’interruttore e rimasi immobile. C’era un odore strano nell’aria. Lo riconobbi all’istante: l’odore di tabacco conciato. Scivolai fino a un portacenere a stelo vicino alla finestra e vidi che conteneva quattro mozziconi marroni – sigarette messicane o sudamericane.
Di sopra, al mio piano, dei piedi si spostarono sulla moquette e qualcuno andò in bagno. Udii lo scarico della tazza. Entrai nel bagno dell’appartamento 31. Un po’ di cianfrusaglie, niente, nessun posto in cui nascondere niente. Per il cucinotto ci volle più tempo, ma in realtà non cercai con cura. Sapevo che non c’erano perle in quell’appartamento. Sapevo che Waldo stava uscendo e che aveva fretta e che qualcosa lo rodeva quando si era voltato per incassare due pallottole da un vecchio amico.
Tornai nel soggiorno, abbassai, ma non del tutto, il letto a muro e guardai nella cabina-armadio dietro l’anta a specchio, alla ricerca di segni lasciati dall’ultimo inquilino. Quando tirai ulteriormente il letto non stavo più cercando delle perle. Stavo guardando un uomo.
Era piccolo, di mezza età, con le tempie grigio ferro, la pelle molto scura, un abito marrone chiaro e una cravatta color vinaccia. Le piccole mani marroni, ben curate, gli penzolavano lungo i fianchi. I piedi, piccoli, dentro lucide scarpe appuntite, puntavano quasi verso il pavimento.
Penzolava, con una cintura stretta attorno al collo, dalla sbarra metallica in cima al letto. La sua lingua sporgeva più di quanto avrei creduto fosse possibile.
Il corpo oscillò leggermente e questo non mi piacque, così abbassai il letto e il morto si adagiò quietamente tra i due cuscini fissati. Non lo avevo ancora toccato. Non avevo bisogno di toccarlo per sapere che sarebbe stato freddo come il ghiaccio.
Lo aggirai, entrai nella cabina-armadio e usai il fazzoletto per aprire i cassetti. Erano stati ripuliti di tutto tranne che per quel po’ di immondizia di un uomo che vive solo.
Uscii da lì e cominciai a occuparmi del corpo. Niente portafoglio. Probabilmente Waldo lo aveva preso e se ne era sbarazzato. Un pacchetto appiattito di sigarette, mezzo pieno, stampato a oro: “Louis Tapia y Cia, Calle de Paysand, 19, Montevideo”. Fiammiferi del Club Spezzia. Una fondina ascellare di cuoio zigrinato scuro con dentro una Mauser calibro 9.
La Mauser faceva di quell’uomo un professionista, per cui non mi sentii troppo depresso. Ma non un professionista molto bravo, diversamente un paio di mani nude non sarebbero state in grado di finirlo, non con una Mauser – una pistola con la quale si può perforare un muro – ancora nella fondina ascellare.
Feci un po’ di ordine tra le idee. Non molto. Quattro delle sigarette marroni erano state fumate, per cui c’era stata o un’attesa o una discussione. A un certo punto Waldo aveva afferrato il piccoletto per la gola e l’aveva tenuto stretto giusto da fargli perdere i sensi nel giro di qualche secondo. Al piccoletto la Mauser era stata meno utile di uno stuzzicadenti. Poi Waldo lo aveva impiccato con la cinghia, probabilmente già morto. Il che poteva spiegare la fretta, l’appartamento ripulito, l’impazienza di Waldo di trovare la ragazza. Poteva spiegare la macchina lasciata aperta fuori dal bar.
Cioè, poteva spiegare queste cose se lo aveva ucciso Waldo, se questo era realmente l’appartamento di Waldo, e se non era tutta una fregatura per me.
Esaminai delle altre tasche. Nella tasca sinistra dei pantaloni trovai un temperino d’oro, qualche dollaro. In quella posteriore sinistra un fazzoletto, piegato, profumato. Nella posteriore destra un altro fazzoletto, non piegato ma pulito. Nella tasca destra davanti quattro o cinque fazzoletti di carta. Un tipetto pulito. Non gli piaceva soffiarsi il naso nel fazzoletto. Sotto i fazzoletti di carta c’era un piccolo portachiavi nuovo con quattro chiavi – d’automobile. Stampato in oro sul portachiavi c’era: “Omaggio di R.K. Vogelsang, Inc. ‘La Casa della Packard’”.
Rimisi tutto così come lo avevo trovato, spinsi il letto in posizione, passai il mio fazzoletto su maniglie e altre sporgenze, superfici piatte, spensi la luce e misi il naso fuori dalla porta. Il corridoio era vuoto. Scesi in strada e svoltai l’angolo di Kingsley Drive. La Cadillac non si era mossa.
Aprii la portiera della macchina e mi ci appoggiai. Nemmeno Lola sembrava essersi mossa. Era difficile distinguere l’espressione sul suo viso, ammesso che ne avesse una. Era difficile distinguere qualsiasi cosa eccetto gli occhi e il mento, ma non era difficile sentire il profumo di sandalo.
“Quel profumo,” dissi, “farebbe impazzire un santo... niente perle.”
“Be’ – grazie per averci provato,” disse con una voce bassa, soave, vibrante. “Credo di poterlo reggere. Dovrei... Noi due... Oppure...?”
“Vai a casa ora,” dissi. “E qualsiasi cosa accada, tu non mi hai mai visto prima. Qualsiasi cosa accada. Così come potresti non vedermi mai più.”
“Non potrei sopportare...”
“Buona fortuna, Lola.” Chiusi la portiera della macchina e mi allontanai di qualche passo.
I fari si accesero, il motore si avviò. Contro il vento, all’incrocio, il grosso coupé eseguì una svolta lenta, sprezzante e scomparve. Io rimasi sul marciapiede, accanto allo spazio vuoto lasciato dalla macchina.
Adesso la strada era buia. Le finestre dell’appartamento da cui prima si sentiva la musica ora erano chiuse. Mi fermai a osservare il retro di una Packard cabriolet che sembrava nuova di zecca. L’avevo notata anche prima – prima di andare su, in quello stesso punto, davanti alla macchina di Lola. Parcheggiata, oscura, silenziosa, con un adesivo blu attaccato in basso a destra sul parabrezza splendente.
E nella mia mente stavo vedendo qualcos’altro, un mazzo di chiavi d’automobile nuove di zecca in un portachiavi con su stampato “La Casa della Packard”, di sopra, nella tasca di un uomo morto.
Raggiunsi il muso della cabriolet e puntai una piccola torcia tascabile sull’adesivo blu. Era la stessa concessionaria, nessun dubbio. Scritti a penna sotto il nome e lo slogan c’erano un altro nome e un indirizzo: Eugenie Kolchenko, 5315 Arvieda Street, West Los Angeles.
Era folle. Tornai su nell’appartamento 31, forzai la porta come avevo fatto prima, mi infilai dietro il letto a muro e presi il portachiavi dalla tasca dei pantaloni dell’azzimato e ciondolante cadavere scuro. In cinque minuti fui di nuovo in strada accanto alla cabriolet. Le chiavi erano quelle giuste.
FINE SECONDA PUNTATA
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