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giovedì 4 settembre 2025

Raymond Chandler: Vento rosso, 1/3


1

Soffiava il vento del deserto quella notte. Era uno di quei Santa Ana torridi e secchi che scendono dai passi tra le montagne e ti arricciano i capelli, ti fanno saltare i nervi, ti irritano la pelle. In notti come queste ogni bevuta finisce in una scazzottata. Mogliettine mansuete passano il dito sul filo dei coltelli da cucina e studiano i colli dei mariti. Può succedere di tutto. Puoi anche berti un bel bicchiere di birra in una sala da cocktail.
Me ne stavo bevendo uno in un locale nuovo e vistoso dall’altra parte della strada rispetto al condominio in cui abitavo. Era aperto da circa una settimana e di affari non ne faceva. Il ragazzo dietro il banco era di poco sopra la ventina e aveva l’aria di non aver mai toccato un goccio in vita sua.
C’era solo un altro cliente, un ubriacone su uno sgabello al banco che dava la schiena alla porta. Aveva una pila di monetine da dieci centesimi ammonticchiate in bell’ordine davanti a sé, circa due dollari in totale. Beveva rye whiskey liscio nei bicchieri piccoli ed era perso in un mondo tutto suo.
Mi sedetti al banco un po’ più in là, presi il mio bicchiere di birra e dissi: “Di sicuro fai dimenticare le rogne a tipi come quello, amico. Questo te lo riconosco”.
“Siamo aperti da poco,” disse il ragazzo. “Dobbiamo farci la clientela. Lei è già stato qui, o sbaglio, signore?”
“Ah-ha.”
“Vive da queste parti?”
“Negli Appartamenti Berglund dall’altra parte della strada,” dissi. “Mi chiamo John Dalmas.”
“Grazie, signore. Io mi chiamo Lew Petrolle.” Si protese verso di me al di sopra dello scuro bancone lucidato. “Lo conosce quel tizio?”
“No.”
“Dovrebbe andarsene a casa, mi pare. Dovrei chiamare un taxi e mandarlo a casa. Sta facendo fuori le sue bevute della settimana prossima un po’ troppo presto.”
“Una notte come questa,” dissi. “Lascialo in pace.”
“Non gli fa bene,” disse il ragazzo guardandomi storto.
“Whiskey!” gracchiò l’ubriaco, senza alzare lo sguardo. Schioccò le dita, in modo da non fare crollare la sua pila di monetine picchiando sul banco.
Il ragazzo mi guardò e scrollò le spalle. “Dovrei?”
“Lo stomaco di chi è? Non il mio.”
Il ragazzo gli versò un altro rye whiskey liscio, e credo che lo avesse allungato con l’acqua sotto il banco, perché quando gli mise davanti il bicchiere aveva l’espressione colpevole, come se avesse appena preso a calci sua nonna. L’ubriaco

non ci fece caso. Sollevò due monetine dalla pila con la stessa meticolosità di un neurochirurgo che stia operando un tumore al cervello.
Il ragazzo tornò indietro e versò altra birra nel mio bicchiere. Fuori il vento ululava. In certi momenti faceva aprire di un palmo la porta a ventaglio dai vetri colorati. Era una porta pesante.
Il ragazzo disse: “Per prima cosa non mi piacciono gli ubriachi e per seconda cosa non mi piace quando vengono a ubriacarsi qui, e per terza cosa non mi piacciono per prima cosa”.
“Questa sarebbe buona per la Warner Brothers,” dissi.
“Infatti viene da lì.”
Fu allora che si aggiunse un altro cliente: una macchina si fermò con uno stridore di freni davanti alla porta a ventaglio, che qualche istante dopo si aprì. Entrò un tizio che sembrava andare piuttosto di fretta. Trattenne la porta ed esplorò rapidamente il locale con fermi, scintillanti occhi scuri. Era di corporatura robusta, bruno, di bell’aspetto, del genere faccia affilata e labbra cucite. Indossava abiti scuri, con un fazzoletto bianco che occhieggiava titillante dal taschino, e appariva rilassato ma al tempo stesso sotto tensione. Immaginai fosse a causa del vento torrido. Anch’io mi sentivo un po’ come lui, solo non rilassato.
Guardò la schiena dell’ubriaco. L’ubriaco stava giocando a dama coi suoi bicchieri vuoti. Il nuovo cliente guardò me, poi esaminò la serie di mezzi séparé sull’altro lato del locale. Erano tutti vuoti. L’uomo venne avanti – superando il punto in cui l’ubriaco sedeva ondeggiando e mugugnando tra sé – e si rivolse al ragazzo dietro il banco.
“Hai visto una signora qui, amico? Alta, carina, capelli castani, con una giacca fantasia a bolero su un abito blu di crespo di seta. Porta un cappello di paglia a tesa larga con un nastro di velluto.” Aveva una voce nervosa che non mi piaceva.
“No, signore. Non è entrato nessuno fatto così,” disse il ragazzo del bar.
“Grazie. Scotch liscio. Dammelo alla svelta, ti spiace?”
Il ragazzo lo servì, il tizio pagò, ingollò il drink d’un colpo e fece per uscire. Fece tre o quattro passi e si fermò, faccia a faccia con l’ubriaco. L’ubriaco stava sogghignando, estrasse una pistola da qualche parte, talmente rapido che fu come una visione fugace. La tenne con mano ferma e non sembrava certo più ubriaco di quanto lo fossi io. Il tizio alto e bruno rimase immobile, poi fece un breve scatto indietro con la testa, dopodiché si immobilizzò di nuovo.
Fuori, una macchina passò sfrecciando. La pistola dell’ubriaco era una calibro 22 automatica da tiro al bersaglio, con un grosso mirino anteriore. L’arma emise un paio di schiocchi secchi e poi una piccola spirale di fumo – molto piccola.
“Ti saluto, Waldo,” disse l’ubriaco.
Quindi puntò l’arma contro il barman e me.
Il tizio bruno ci mise una settimana per cadere. Barcollò, si riprese, agitò un braccio, barcollò di nuovo. Gli cadde il cappello, poi fu lui a cadere sul pavimento faccia avanti. Avresti detto che era fatto di cemento, visto tutto il baccano che fece picchiando per terra.
L’ubriaco scivolò giù dallo sgabello, raccolse le monetine, le cacciò in tasca, scivolò verso la porta. Si girò sul fianco, tenendo la pistola di traverso al corpo. Io non avevo una pistola. Non avevo pensato che me ne servisse una per prendere un bicchiere di birra. Il ragazzo dietro il banco non si mosse, non fece il minimo rumore.
L’ubriaco tastò leggermente la porta con la spalla, tenendo gli occhi su di noi, poi uscì muovendosi all’indietro. Quando la porta fu spalancata una violenta folata di vento si abbatté nel locale e sollevò i capelli dell’uomo a terra. “Povero Waldo,” disse l’ubriaco. “Scommetto che l’ho fatto sanguinare dal naso.”
La porta si richiuse. Io scattai per aprirla con una spinta, per quella lunga esperienza nel fare la cosa sbagliata. In questo caso non successe niente. La macchina all’esterno emise un ruggito, e quando raggiunsi il marciapiede proiettava l’alone rosso di un fanale posteriore da dietro l’angolo più vicino. Ne presi il numero di targa nello stesso modo in cui avevo preso il mio primo milione di dollari.
Su e giù per l’isolato c’erano gente e macchine come al solito. Nessuno si comportava come se una pistola avesse sparato. Il vento era abbastanza rumoroso da far sembrare il colpo secco e rapido di una calibro 22 quello di una porta sbattuta, ammesso che qualcuno lo avesse sentito. Tornai nel bar.
Il ragazzo non si era mosso, nemmeno allora. Se ne stava lì in piedi con le mani aperte appoggiate sul banco, piegato leggermente in avanti, gli occhi fissi sulla schiena del tizio bruno. Neanche il tizio bruno si era mosso. Mi chinai e gli tastai la carotide. Non si sarebbe mosso, mai più.
La faccia del ragazzo era più o meno espressiva quanto una bistecca di filetto, ed era all’incirca dello stesso colore. I suoi occhi erano più inferociti che sconvolti.
Mi accesi una sigaretta e soffiai il fumo verso il soffitto e dissi brevemente: “Attaccati al telefono”.
“Forse non è morto,” disse il ragazzo.
“Quando usano una 22 vuol dire che non commettono errori. Dov’è il telefono?”
“Non ce l’ho. Ho già abbastanza spese anche senza. Gente, me li sono proprio giocati quegli ottocento dollari!”
“Sei tu il proprietario?”
“Lo ero fino a quando è successo questo.”
Si tolse la giacca bianca e il grembiule, aggirò il banco e andò in fondo al locale, nella parte interna. “Io chiudo la porta,” disse, tirando fuori le chiavi.
Uscì, tirò la porta e armeggiò con la serratura esterna fino a quando il chiavistello scattò. Mi chinai e rigirai Waldo sulla schiena. Sulle prime non fui nemmeno in grado di capire dove fossero entrati i proiettili. Poi capii. Un paio di forellini nella giacca, in corrispondenza del cuore. C’era un po’ di sangue sulla camicia.
L’ubriaco era il meglio che si potesse chiedere, come killer.
I ragazzi dell’autopattuglia arrivarono in circa otto minuti. A quel punto il ragazzo, Lew Petrolle, era tornato dietro il banco. Aveva indossato di nuovo la giacca bianca e stava contando il denaro nel registratore di cassa, mettendoselo in tasca e prendendo nota in un taccuino.
Mi sedetti sul bordo di uno dei mezzi séparé a fumare sigarette e a guardare la faccia di Waldo diventare sempre più morta. Mi chiesi chi era la ragazza con la giacca fantasia, mi chiesi perché Waldo aveva lasciato la macchina fuori con il motore acceso, perché andava tanto di fretta, mi chiesi se l’ubriaco lo stava aspettando o se si era trovato per caso nel locale.
I ragazzi dell’autopattuglia entrarono tutti sudati. Erano della solita taglia large e uno di loro aveva un fiore infilato sotto il cappello leggermente sghembo. Quando vide l’uomo morto si sbarazzò del fiore e si chinò a sentirgli il polso.
“Sembra morto,” disse, poi lo rivoltò un altro po’. “Oh, sì, lo vedo dove sono entrate. Un lavoretto pulito. Voi due l’avete visto mentre lo beccava?”
Io dissi di sì. Il ragazzo dietro il banco non disse nulla. Raccontai ai poliziotti com’era andata, e che il killer a quanto pareva se l’era filata a bordo della macchina di Waldo.
Il poliziotto tirò fuori il portafoglio di Waldo, lo esaminò rapidamente, fece un fischio. “Un sacco di grana, e niente patente.” Mise via il portafoglio. “Okay, noi non l’abbiamo toccato, giusto? È solo per caso che abbiamo scoperto che aveva una macchina e dato l’allarme.”
“Un accidenti che non lo avete toccato,” disse Lew Petrolle.
Il poliziotto gli allungò un’occhiataccia. “Okay, amico,” disse conciliante. “Allora lo abbiamo toccato.”
Il ragazzo prese un bicchiere da cocktail pulito e cominciò a lustrarlo. Andò avanti a lustrarlo per tutto il resto del tempo che passammo là.
Un minuto dopo un furgone di pronto intervento della Omicidi arrivò a sirene spiegate, si fermò con stridore di gomme davanti alla porta e quattro uomini entrarono, due detective, un fotografo e un tecnico del laboratorio. Non conoscevo neanche uno dei detective. È possibile essere nel ramo delle investigazioni da molto tempo e non conoscere tutti gli uomini della polizia di una grande città.
Uno dei due era un uomo basso, ben curato, bruno, calmo, sorridente, con i capelli scuri ricci e occhi teneri e intelligenti. L’altro era grosso, ossuto, la mascella lunga, con un naso pieno di vene e gli occhi vitrei. Aveva l’aria del bevitore incallito. Si atteggiava a duro, ma anche di chi si ritiene un po’ più duro di quanto non sia in realtà. Mi spinse verso l’ultimo séparé, contro il muro, il suo collega portò il ragazzo in quello sul davanti e le uniformi blu uscirono. L’uomo delle impronte digitali e il fotografo si misero al lavoro.
Arrivò un medico legale, rimase giusto il tempo di irritarsi per il fatto che non c’era un telefono con il quale chiamare il furgone dell’obitorio.
Il detective basso svuotò le tasche di Waldo, poi il portafoglio, rovesciò tutto quanto in un grande fazzoletto sul tavolo di un séparé. Vidi un sacco di contante, chiavi, sigarette, un altro fazzoletto, ben poco d’altro.
Il detective grosso mi ricacciò sul fondo del mezzo séparé. “Sgancia,” disse. “Sono Copernik, tenente della Investigativa.”
Misi il portafoglio davanti a lui. Copernik lo guardò, lo esaminò, lo gettò sul tavolo, prese nota su un taccuino.
“John Dalmas, eh? Un investigatore privato. Sei qui per affari?”
“Affari da bere,” dissi. “Abito giusto dall’altra parte della strada, al Berglund.”
“Lo conoscevi già il ragazzo?”
“Sono stato qui un’altra volta da che ha aperto.”
“Noti niente di strano in lui adesso?”
“No.”
“La prende troppo alla leggera per essere uno della sua età, o sbaglio? Non serve che rispondi. Racconta la storia e basta.”
Gliela raccontai – tre volte. Una volta perché ne avesse un quadro completo, un’altra perché ne afferrasse i dettagli e una terza volta per vedere se mi contraddicevo. Alla fine Copernik disse: “Questa donna mi interessa. E il killer ha chiamato il tizio Waldo, eppure non sembrava del tutto sicuro che lo avrebbe trovato qui. Voglio dire, se Waldo non era sicuro di trovare qui la donna, nessuno poteva essere sicuro di trovarci Waldo”.
“Osservazione acuta,” commentai.
Lui mi scrutò. Non stavo sorridendo. “Sembra più una vendetta, o no? Non sembra una cosa premeditata. E la fuga sembra improvvisata. Di solito uno non lascia la macchina aperta in questa città. E il killer agisce davanti a due buoni testimoni. A me questa storia non piace.”
“A me non piace essere un testimone,” dissi. “La paga è troppo bassa.”
Copernik sogghignò. Sembrava ci fossero le lentiggini sui suoi denti. “Il killer era veramente ubriaco?”
“Con quel tiro? No.”
“Difatti. Bene, è un lavoro facile. Il tizio avrà dei precedenti e ha lasciato impronte in abbondanza. Anche se non abbiamo qui le sue foto segnaletiche sapremo chi è nel giro di qualche ora. Aveva qualcosa contro Waldo, ma non prevedeva di incontrarlo questa sera. Waldo è semplicemente capitato qui per chiedere di una ragazza con la quale aveva un appuntamento galante e di cui aveva perso le tracce. È una notte calda e questo vento lo rovina, il viso di una ragazza. Probabile che sia entrata in qualche posto ad aspettare. Così il killer piazza a Waldo due palle nei punti giusti e se la batte e a voi ragazzi nemmeno ci pensa. Tanto semplice.”
“Già,” dissi.
“Talmente semplice che puzza,” disse Copernik.
Si tolse il cappello di feltro e si scompigliò i sudici capelli biondi e appoggiò la testa sulle mani. Aveva una faccia da cavallo lunga e cattiva. Tirò fuori un fazzoletto, si asciugò il sudore dalla faccia, poi se lo passò sulla nuca e sul dorso delle mani. Tirò fuori un pettine e si pettinò – pettinato era ancora più brutto –, infine si rimise il cappello.
“Stavo giusto pensando,” dissi.
“Sì? Cosa?”
“Questo Waldo sapeva perfettamente come era vestita la ragazza. Per cui doveva essere già stato con lei questa sera.”
“E allora? Forse ha dovuto andare al cesso. E quando è tornato lei non c’era più. Forse la ragazza ha cambiato idea su di lui.”
“Giusto,” dissi.
Ma non era affatto questo che stavo pensando. Stavo pensando che la precisione con cui Waldo aveva descritto i vestiti della ragazza non è tipica di un uomo comune. Giacca fantasia a bolero su un abito blu di crespo di seta. Io non sapevo nemmeno che cosa fosse una giacca a bolero. E forse avrei potuto dire abito blu, o addirittura abito di seta blu, ma mai abito blu di crespo di seta.
Dopo un po’ entrarono due uomini con una barella. Lew Petrolle stava ancora lustrando il suo bicchiere e parlava con il detective basso dai capelli scuri.
Andammo tutti giù alla Centrale.
Risultò che Lew Petrolle era uno a posto. Suo padre aveva un ranch con vigneto vicino ad Antioch, nella contea di Contra Costa. Gli aveva dato mille dollari per mettersi in affari e Lew aveva aperto il bar, insegna al neon e tutto quanto, con ottocento dollari tondi.
Lo rilasciarono e gli dissero di tenere il bar chiuso fino a quando non fossero stati sicuri di non volere altri rilievi delle impronte digitali. Lew strinse la mano a tutti e sorrise e disse che secondo lui l’omicidio alla fine avrebbe fatto bene agli affari, perché nessuno crede a quello che si legge sui giornali, e la gente sarebbe venuta nel suo locale per sentire la storia e avrebbe ordinato da bere mentre lui la raccontava.
“Ecco uno che non perderà mai il sonno,” disse Copernik una volta che Lew se ne fu andato. “Per qualcun altro.”
“Povero Waldo,” dissi. “Le impronte sono buone?”
“Un po’ sbavate,” disse Copernik acido. “Ma ne caveremo una classificazione e la manderemo per telescrivente a Washington stanotte. Se non salta fuori niente, passerai una giornata agli schedari delle foto segnaletiche al piano terra.”
Strinsi la mano a lui e al suo collega, il cui nome era Ybarra, e me ne andai. Non sapevano nemmeno chi fosse Waldo. Niente nelle sue tasche lo indicava.
 
2

Tornai nella mia strada che erano circa le nove di sera. Prima di entrare nel Berglund diedi un’occhiata generale all’isolato. Il bar era più avanti, dall’altra parte della strada, buio, con un naso o due appiccicati alla vetrata, ma nessun vero assembramento. La gente aveva visto la polizia e il furgone dell’obitorio, ma non sapeva che cosa fosse accaduto. Eccetto i ragazzi che giocavano a flipper nell’emporio all’angolo. Loro sanno tutto, tranne come tenersi un lavoro.
Il vento continuava a soffiare, rovente, mandando polvere e cartacce a vorticare contro i muri.
Entrai nell’atrio del palazzo e presi l’ascensore automatico fino al quarto piano. Aprii le porte a soffietto e uscii: c’era una ragazza alta, lì in piedi, che aspettava l’ascensore.
Aveva capelli castani ondulati sotto un cappello di paglia a tesa larga con una fascia di velluto e un nastro pendente. Aveva grandi occhi azzurri e ciglia che per poco non le arrivavano al mento.
Indossava un abito blu che avrebbe potuto essere di crespo di seta, semplice nella linea, ma che non tralasciava nessuna curva. Sopra portava quella che avrebbe potuto essere una giacca fantasia a bolero.
“È una giacca a bolero, quella?” dissi.
Lei mi rivolse uno sguardo distaccato e fece un gesto come a togliersi una ragnatela da davanti.
“Sì. Le dispiace... ho una certa fretta. Vorrei...”
Non mi mossi. Le impedii di salire sull’ascensore. Rimanemmo a fissarci e molto lentamente lei arrossì.
“Meglio non uscire in strada con quei vestiti addosso,” dissi.
“Ma... come si permette...”
L’ascensore sferragliò e riprese a scendere. Non sapevo che cosa la ragazza stesse per dire. La sua voce non aveva il timbro affilato e petulante della ragazza da birreria. Aveva un suono leggero, delicato, simile a pioggia di primavera.
“Non ci sto provando,” dissi. “Sei nei guai. Se vengono a questo piano con l’ascensore, hai appena il tempo per sparire dal corridoio. Per prima cosa togliti il cappello e la giacca – e muoviti!”
Non si mosse. Il suo viso sembrò sbiancare leggermente sotto il trucco non troppo pesante.
“I poliziotti,” dissi, “ti stanno cercando. Con quei vestiti addosso. Se me ne dai la possibilità ti dirò perché.”
La ragazza girò rapidamente la testa e lanciò uno sguardo lungo il corridoio. Bella com’era, non me la presi quando tentò un altro bluff.
“Lei è un impertinente, chiunque sia. Io sono la signora Leroy, appartamento Trentuno. Posso assicurarle...”
“Di essere al piano sbagliato,” dissi. “Questo è il quarto.” L’ascensore si era fermato giù in basso. Il rumore delle porte che venivano aperte con forza salì lungo la tromba dell’ascensore.
“Togliteli!” minacciai. “Adesso!”
Si tolse il cappello e si sfilò la giacca a bolero, alla svelta. Afferrai gli indumenti e me li appallottolai sotto il braccio. Presi la ragazza per il gomito, la feci voltare e ci avviammo nel corridoio.
“Io abito al Quarantadue. La porta davanti alla tua, solo un piano più sopra. Scegli. Ancora una volta – non ci sto provando.”
La ragazza si ravviò i capelli con un gesto rapido, come un uccello che si liscia le penne. Diecimila anni di perfezionamento dietro quel gesto.
“Il mio,” disse, si cacciò la borsa sotto il braccio e si diresse a passi rapidi lungo il corridoio. L’ascensore si arrestò al piano di sotto. Lei si fermò quando la cabina si fermò. Si girò verso di me.
“Le scale sono a ridosso della tromba dell’ascensore,” dissi gentilmente.
“Non ce l’ho l’appartamento qui,” disse lei.
“Non ho pensato che lo avessi.”
“Stanno cercando me?”
“Sì, ma non cominceranno a setacciare l’isolato mattone per mattone prima di domani. E solo se non riusciranno a identificare Waldo.”
Lei mi fissò. “Waldo?”
“Oh, non conosci Waldo,” dissi.
Lei scosse lentamente la testa. L’ascensore cominciò di nuovo a scendere. Il panico tremolò negli occhi della ragazza come un’increspatura sull’acqua.
“No,” disse senza fiato, “ma toglimi da questo corridoio.”
Eravamo quasi alla mia porta. Infilai la chiave nella serratura, la feci girare, spinsi la porta verso l’interno. Infilai una mano quanto bastava per accendere la luce. Lei mi superò come un’ondata. Nell’aria fluttuò profumo di sandalo, molto lieve.
Richiusi la porta, gettai il cappello su una sedia, osservai la ragazza avvicinarsi a un tavolino sul quale avevo lasciato un problema di scacchi che non riuscivo a risolvere. Una volta dentro, con la porta chiusa, il panico l’aveva abbandonata.
“Così sei un giocatore di scacchi,” disse, in tono circospetto, come se fosse venuta a vedere la mia collezione di acqueforti. Desiderai che fosse venuta per quello.
Poi restammo entrambi immobili, ad ascoltare il clangore lontano delle porte dell’ascensore e poi i passi – che andavano nella direzione opposta.
Feci un sorriso, ma con sforzo, non con piacere, raggiunsi il cucinotto e mi misi ad armeggiare con un paio di bicchieri, poi mi resi conto che avevo ancora il suo cappello e la giacca a bolero sotto il braccio. Andai nella cabina-armadio dietro il letto a parete e li cacciai in un cassetto, tornai nel cucinotto, pescai uno scotch di prima qualità e preparai un paio di drink.
Quando tornai con i drink la ragazza aveva una pistola in pugno. Era una piccola automatica con il calcio di madreperla. L’arma scattò verso di me, gli occhi della ragazza erano pieni di terrore.
Mi fermai, con un bicchiere in ogni mano e dissi: “Forse questo vento caldo ha fatto impazzire anche te. Sono un investigatore privato. E te lo proverò, se me lo permetterai”.
Lei annuì leggermente, bianca in faccia. Mi avvicinai piano e le posai un bicchiere vicino, arretrai, posai il mio bicchiere, tirai fuori un biglietto da visita non troppo sciupato agli angoli. La ragazza era seduta, si stava lisciando un ginocchio blu con la mano sinistra e con l’altra reggeva la pistola. Misi il biglietto da visita accanto al suo bicchiere e mi sedetti dopo avere recuperato il mio.
“Mai permettere a un uomo di venirti tanto vicino,” dissi. “Non se fai sul serio. E se hai la sicura innescata.”
Lei abbassò gli occhi di scatto, ebbe un tremito e rimise la pistola nella borsa. Mandò giù metà del drink senza fermarsi, posò con violenza il bicchiere e prese il biglietto.
“Non lo offro a molta gente quel liquore,” dissi. “Non posso permettermelo.”
Le sue labbra si contrassero. “Immaginavo volessi dei soldi.”
“Cosa?”
Lei non rispose. La sua mano era di nuovo vicina alla borsa.
“Non dimenticare la sicura,” dissi. La sua mano si fermò. Ripresi: “Questo tizio di nome Waldo è parecchio alto, diciamo un metro e ottantacinque, snello, bruno, occhi castani, tutto lustro. Naso e bocca troppo sottili. Abito scuro, fazzoletto bianco in vista, e ansioso di trovarti. Sto facendo progressi?”.
La ragazza prese di nuovo il bicchiere. “Così quello è Waldo,” disse. “Bene, che gli è successo?” Nella sua voce sembrava esserci un leggero accenno d’alcol adesso.
“Ecco, una cosa strana. C’è un bar dalla parte opposta della strada... Dimmi un po’, dove sei stata tutta la sera?”
“Seduta nella mia macchina,” rispose lei freddamente, “quasi tutto il tempo.”
“Non hai notato una certa agitazione dall’altra parte della strada lungo l’isolato?”
I suoi occhi cercarono di dire no e fallirono. Le sue labbra dissero: “Sapevo che c’era stato qualche problema. Ho visto i poliziotti e i fari rossi. Ho pensato che qualcuno si fosse fatto male”.
“Qualcuno si è fatto male. E questo Waldo ti stava cercando prima che accadesse. Nel bar. Ha descritto te e i tuoi vestiti.”
Ora i suoi occhi erano fissi come chiodi ed erano altrettanto espressivi. La sua bocca cominciò a tremare e non smise.
“Io ero là,” proseguii, “a parlare con il ragazzo che gestisce il locale. Non c’era nessuno, a parte un ubriaco su uno sgabello, il ragazzo e me. L’ubriaco non prestava attenzione a niente e a nessuno. Poi Waldo è entrato e ha chiesto di te e noi gli abbiamo risposto che no, non ti avevamo vista, al che lui ha fatto per uscire.”
Sorseggiai il drink. Anche a me, come a tutti, piace fare pause a effetto. I suoi occhi mi stavano divorando.
“Ha fatto per uscire. A quel punto l’ubriaco che non stava prestando attenzione a niente e a nessuno lo ha chiamato Waldo e ha tirato fuori una pistola. Gli ha sparato due volte...” feci schioccare le dita due volte. “Così. Morto.”
La ragazza mi prese in giro. Mi rise in faccia. “Dunque mio marito ti ha assunto per spiarmi. Avrei dovuto capirlo che era tutta una commedia. Tu e il tuo Waldo.”
La guardai come un allocco.
“Non lo avevo mai considerato un tipo geloso,” sbottò lei. “Almeno non di un uomo che era stato il nostro autista. Un po’ geloso di Stan, naturalmente, è ovvio. Ma di Joseph Choate...”
Agitai una mano in aria. “Signora, uno di noi ha il libro aperto alla pagina sbagliata,” grugnii. “Non conosco nessuno che si chiami Stan o Joseph Choate. Quindi aiutami, non sapevo nemmeno che avessi un autista. La gente di queste parti non se li può permettere. Per quanto riguarda i mariti... be’, un marito qualche volta ce l’abbiamo. Non abbastanza spesso.”
Lei scosse lentamente il capo, la sua mano rimase vicino alla borsa, i suoi occhi azzurri luccicavano.
“Non funziona, mister Dalmas. No, non funziona nemmeno un po’. Vi conosco, voi investigatori privati. Siete tutti marci. Mi hai fatto venire con un trucco nel tuo appartamento, ammesso che sia il tuo. Più probabile che sia l’appartamento di qualche uomo orribile pronto a giurare qualsiasi cosa per pochi dollari. Adesso stai cercando di spaventarmi. Per potermi ricattare, e per ottenere denaro da mio marito. D’accordo,” proseguì senza fiato, “quanto devo pagare?”
Misi giù il bicchiere vuoto e mi appoggiai allo schienale. “Mi perdonerai se accendo una sigaretta,” dissi. “Ho i nervi scossi.”
La accesi mentre lei mi osservava con cattiveria, senza paura o perlomeno troppo poca per chi nasconda davvero qualche colpa grave. “Così si chiamava Joseph Choate,” dissi. “Il tipo che lo ha ucciso nel bar lo ha chiamato Waldo.”
Lei sorrise vagamente disgustata, ma quasi tollerante. “Non tirare in lungo. Quanto?”
“Perché stavi cercando di incontrare questo Joseph Choate?”
“Stavo per ricomprare da lui qualcosa che mi aveva rubato, è chiaro, no? Qualcosa che per me ha valore. Qualcosa che ha valore anche in senso lato. Costa quindicimila dollari. Me l’aveva data l’uomo che amavo. È morto. Ecco! È morto! È morto in un aereo in fiamme. Ora, va’ pure a dirlo a mio marito, piccolo viscido topo di fogna!”
“Ehi, io peso ottantacinque chili senza vestiti,” gridai.
“Sei viscido lo stesso,” gridò lei in risposta. “E non disturbarti a dirlo a mio marito. Glielo dirò io. Probabilmente lo sa già comunque.”
Sogghignai. “Fantastico. A proposito, cos’è che avrei dovuto scoprire?”
Lei afferrò il bicchiere e finì quello che restava del drink. “Dunque lui crede che mi stia vedendo con Joseph,” disse beffarda. “Be’, infatti lo vedevo. Ma non per farci l’amore. Non con un autista. Non con un vagabondo che ho raccolto sui gradini dell’ingresso e a cui ho dato un lavoro. Non ho bisogno di prendermi tanto disturbo, se voglio divertirmi.”
“Signora,” dissi, “non ne hai bisogno davvero.”
“Adesso vado,” disse. “Tu prova solo a fermarmi.” Estrasse dalla borsa la pistola con l’impugnatura di madreperla.
Sogghignai, e continuai a sogghignare. Non mi mossi.
“Allora, piccola lurida nullità,” esplose lei. “Come faccio a sapere che sei davvero un investigatore privato? Potresti essere un delinquente. Questo biglietto da visita non significa nulla. Chiunque può farsene stampare uno.”
“Certo,” dissi. “E immagino anche di essere tanto furbo da aver vissuto qui per due anni sapendo che avresti preso un appartamento qui oggi e poterti così ricattare per non avere incontrato un uomo di nome Joseph Choate che è stato ucciso dall’altra parte della strada sotto il nome di Waldo. Ce li hai i soldi per comprare questo qualcosa che costa quindicimila dollari?”
“Oh! E adesso pensi di rapinarmi, suppongo!”
“Oh!” la scimmiottai, “e adesso sono pure un artista della rapina, giusto? Signora, cortesemente, o metti via quella pistola o togli la sicura. Offende i miei sentimenti professionali veder trattare in modo tanto incompetente una buona arma.”
“Tu sei un intero carico di quello che non mi piace,” disse lei. “Stammi fuori dai piedi.”
Io non mi mossi. Lei non si mosse. Eravamo entrambi seduti – e nemmeno vicini.
“Rivelami un segreto prima di andare,” la implorai. “Perché diavolo hai preso l’appartamento al piano di sotto? Solamente per incontrare un tizio giù in strada?”
“Piantala di fare lo scemo,” scattò lei. “Non l’ho preso, l’appartamento. Ho mentito. È il suo.”
“Di Joseph Choate?”
Annuì bruscamente.
“La mia descrizione di Waldo corrisponde a quella di Joseph Choate?”
Annuì bruscamente di nuovo.
“D’accordo. Almeno questo l’abbiamo appurato. Non capisci che Waldo ha descritto i tuoi vestiti prima di essere ucciso – mentre ti stava cercando –, che quella descrizione è stata confermata alla polizia, che la polizia non sa chi sia Waldo e che stanno cercando qualcuno con i tuoi vestiti che possa aiutarli a scoprirlo? Non lo capisci questo?”
D’un tratto la pistola che la ragazza aveva in mano cominciò a tremare. Lei abbassò lo sguardo sull’arma, in modo quasi assente, lentamente la rimise nella borsa.
“Sono una stupida,” sussurrò, “anche solo a parlare con te.” Mi fissò a lungo, poi fece un lungo respiro. “Mi ha detto dove abitava. Non sembrava che avesse paura. Suppongo che i ricattatori siano così. Avrebbe dovuto incontrarmi in strada, ma io ero in ritardo. C’erano poliziotti dappertutto quando sono arrivata. Così sono tornata indietro e mi sono seduta in macchina per un po’. Poi sono salita all’appartamento di Joseph e ho bussato. Poi sono tornata alla macchina e ho aspettato di nuovo. Sono salita tre volte in tutto. L’ultima volta ho fatto a piedi un piano in più prima di salire sull’ascensore. Mi avevano vista già due volte al terzo piano. Ho incontrato te. Questo è quanto.”
“Hai detto qualcosa riguardo a un marito,” grugnii. “Dov’è?”
“È a una riunione.”
“Oh, una riunione,” dissi con cattiveria.
“Mio marito è un uomo molto importante. Ha sempre un mucchio di riunioni. È un ingegnere idroelettrico. Ha viaggiato in tutto il mondo. Vorrei che tu sapessi...”
“Lascia perdere,” dissi. “Un giorno lo inviterò a pranzo e me lo farò raccontare da lui. Qualsiasi cosa Joseph avesse contro di te è defunta, adesso. Come Joseph.”
Alla fine ci credette. Chissà perché avevo pensato che non potesse più accadere. “È veramente morto?” bisbigliò. “Veramente?”
“È morto,” dissi. “Morto, morto, morto. Signora, è morto.”
La sua faccia andò in pezzi come la crostata di mele di una sposina. Non aveva la bocca grande, ma in quel momento avrei potuto metterci dentro il pugno. Nel silenzio, l’ascensore si fermò al mio piano.
“Tu urla,” minacciai, “e ti faccio due occhi neri.”
Non era stata una cosa carina da dire, ma funzionò. La scosse dalla paralisi. La bocca le si chiuse come una tagliola.
Udii dei passi venire avanti nel corridoio. Abbiamo tutti le nostre premonizioni. Mi portai un dito alle labbra. Ora la ragazza non si muoveva. In viso aveva un’espressione di terrore. I suoi grandi occhi azzurri erano neri come le occhiaie che li cerchiavano. Il vento caldo tuonava contro le finestre chiuse. Le finestre devono restare chiuse quando soffia il Santa Ana, calore o non calore.
I passi che avanzavano nel corridoio erano i passi normali, disinvolti, di un uomo. Ma si fermarono davanti alla mia porta. Qualcuno bussò.
Indicai la cabina-armadio dietro il letto a muro. La ragazza si alzò senza fare rumore, la borsa stretta contro il fianco. Indicai di nuovo, il suo bicchiere. Lei lo sollevò svelta, scivolò sul tappeto, entrò nella cabina-armadio e richiuse piano la porta alle proprie spalle.
A tutti gli effetti non sapevo perché mi stessi prendendo tutto quel disturbo.
Bussarono di nuovo. Avevo il dorso delle mani sudato. Feci scricchiolare la sedia, mi alzai, ed emisi un sonoro sbadiglio. Poi andai ad aprire la porta – senza una pistola. Fu un errore.
 
FINE PRIMA PUNTATA

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