Andrea voleva vendere la villa a Torcello. Perché? La sua decisione era stata improvvisa.
E non aveva risposto alle mie innumerevoli domande.
«Domani vado da Mario» mi aveva detto laconicamente. Mario era un suo vecchio compagno di scuola, che aveva un’agenzia di compra vendita molto ben avviata. Mi faceva la corte da anni perché gli vendessi villa Ada ed io gli avevo sempre risposto di no.
Da tempo, ormai, nonostante la vita agiata che conducevamo, avevo la certezza che l’attività di Andrea non andasse più tanto bene e che mio marito fosse indebitato con diverse banche. Ma, dato che lui non ne parlava mai, i miei erano rimasti soltanto vaghi dubbi e non ero andata oltre.
Non avevo neppure chiamato il mio avvocato per tastare un po’ il terreno.
Ma avrei dovuto farlo al più presto. C’era qualcosa. Ne ero sicura. Mi aveva insospettito qualche sua frase buttata là, come per caso. E meno male che il patrimonio di mia madre in azioni, gioielli e liquidi, era ancora intatto. Su consiglio del mio avvocato, non era stato messo nella comunione dei beni. Andrea, fino ad oggi, aveva incamerato più che a sufficienza, pensavo tristemente quella mattina, mentre uscivo per l’appuntamento con Carla.
Andrea era stato un mio colpo di testa quando ero all’università. Avevo smesso di studiare e ci eravamo sposati nel giro di sei mesi, giovanissimi.
Andrea doveva la sua brillante e rapida carriera a mio padre, noto imprenditore edile. Ma era passato tanto tempo… ormai eravamo una coppia di mezz’età, che non aveva più nulla da dirsi.
Da anni ero rassegnata. Andrea continuava a organizzare la nostra vita, come se io non fossi in grado di decidere da sola e ormai non ci parlavamo quasi più.
Non riuscivo nemmeno a ribellarmi. Il tempo aveva cancellato ogni mio tentativo di rivolta.
Che Andrea avesse dilapidato il mio patrimonio paterno non me ne importava più di tanto, l’eredità di mia madre, per me, era più che sufficiente. Ma non potevo sopportare che volesse vendere villa Ada.
A villa Ada ero troppo legata: troppi ricordi collegati alle cose e al parco. Avevo abitato lì, finché non mi ero sposata. Avrei potuto accettare tutto, ma non la vendita della villa, che era stata costruita dal nonno. Il parco era stupendo, all’inglese, e c’era anche una piccola zona archeologica, là dove mio padre avrebbe voluto la piscina. Erano affiorate le fondamenta di un piccolo edificio paleoveneto. Il babbo aveva dovuto lottare a lungo con la Sovrintendenza ai Monumenti, ma, alla fine, l’aveva spuntata e aveva ottenuto il permesso di proseguire gli scavi.
E così era stato. Durante tutta la mia infanzia si erano susseguite innumerevoli campagne di scavi, cui partecipavo con entusiasmo. Entusiasmo che non mi aveva abbandonato; ero famosa per le mie collezioni di pipe venete e di cocci, che, periodicamente, venivano esposti al museo archeologico di Altino. Una storia molto interessante quella degli antichi abitanti della laguna. Con Carla eravamo socie fondatrici di un’associazione filologica e organizzavamo cicli di seminari sulla storia e la cultura degli antichi veneti. Andrea, invece, non ha mai amato l’archeologia.
«Sciocchezze, davvero non capisco cosa tu possa trovare in quei cocci… diamine, se li hanno buttati via, ci sarà pur stato un motivo, no?»
Andrea era proprio un materialista della peggior specie. E poi, mi sottovalutava sempre. Tutto quello che mi appassionava per lui era inutile e sciocco.
In tanti anni di matrimonio, poi, questo suo atteggiamento era costantemente peggiorato.
Chissà com’era con Carla. Per quanto ne sapevo, non doveva essere un idillio neanche con lei.
Perché poi Andrea, con tutte le occasioni che doveva avere avuto, si era messo proprio con lei, non mi era chiaro. Forse perché Carla era la mia migliore amica? La cosa andava avanti da moltissimo: mi sembrava di avere sempre saputo, sin dai primi anni di matrimonio, che le cene d’affari erano cene con Carla.
L’avevo odiata, per un periodo; avrei voluto ucciderla. Ogni tanto ero ancora sopraffatta da una rabbia quasi incontrollabile. Ma, poi, mi dicevo che anche lei era vittima di Andrea e che, pur di non litigare, cedeva a ogni suo desiderio.
Andrea sapeva essere molto violento, quando qualcosa non corrispondeva ai suoi desideri. E quando voleva qualcosa, l’otteneva con qualsiasi mezzo.
Lo conoscevo troppo bene.
Con me Andrea faceva la vita di routine: casa e lavoro, qualche cena di rappresentanza, gli amici del tennis club, il solito viaggio all’anno.
Carla era il diversivo, la compagna per le sue cacce in Africa, che io detestavo, l’amica per le sue evasioni al casinò e per i fine settimana di lavoro.
Più volte, negli ultimi tempi, avevo pensato di lasciarlo, ma cosa può fare una donna di mezz’età da sola? Ero vicina alla sessantina e non avevamo avuto figli. Mi spaventava moltissimo la solitudine. Anche se Andrea, con me, era spesso latitante, era pur sempre il compagno di tutta una vita.
Non potevo certo dipendere dalla mia unica nipote che viveva a Roma e trasferirmi. Ero nata a Venezia e qui avevo le mie abitudini, la mia società filologica, le mie spedizioni in cerca di cocci, due, tre volte l’anno; il giro per i negozi del centro, qualche amica con cui andare al cinema o a teatro e il palco riservato alla Fenice.
Il mio rapporto con Andrea stava diventando molto ambiguo, da un lato l’odiavo profondamente ed ero stanca del suo egoismo, dall’altro avevo bisogno lui e non sapevo staccarmi dall’abitudine di averlo accanto.
Anche con Carla i miei rapporti andavano a fasi alterne. E poi… da un po’ di tempo sentivo che Andrea era molto nervoso; che la sua relazione con
Carla si stesse incrinando?
Che anche Carla si fosse stancata di lui? Non sapevo davvero cosa pensare.
Erano solo sensazioni.
Ma più ci pensavo e più Andrea mi sembrava strano. Evasivo. Ossessivo.
Come perseguitato da un pensiero fisso… No, stavolta non intendevo cedere.
Per vent’anni Andrea non aveva fatto altro che cacciarsi nei guai e chiedere aiuto. Poco per volta erano sparite tutte le azioni che mi aveva lasciato il babbo, i terreni sul Montello e avevamo persino ipotecato il palazzetto di famiglia a San Felice.
Il nostro ménage e il nostro benessere dipendevano da me. Ero io a pagare i conti e a sostenere tutte le spese. Andrea era un pozzo senza fondo. Con gli aiuti che aveva ricevuto, avrebbe potuto non solo pagare i debiti, ma risanare completamente l’azienda. Invece, sembrava sempre sull’orlo del fallimento. No, non lo sembrava, lo era.
Dio solo sa dove finivano i miei soldi.
In parte lo sapevo: Andrea ha sempre fatto viaggi in Paesi lontani e costosi regali alle sue amichette. E da sempre andava a giocare al casinò, convinto che io non lo sapessi… Carla di queste cose parlava pochissimo, anche se, di tanto in tanto, si lasciava sfuggire qualche particolare, esasperata dal comportamento di mio marito. In fondo Andrea non meritava neanche lei.
Nemmeno Carla doveva avere avuto una vita facile con lui. Andrea era egocentrico, ostinato, bugiardo e infedele. Eppure per tutto questo tempo l’avevamo sopportato, addirittura amato; anche se, negli ultimi anni, soprattutto da parte mia, era subentrata una stanchezza rassegnata.
Mi ero spesso domandata come facesse, Andrea, a tenerci in pugno, tutte e due. Ma mio marito sapeva essere molto affascinante, quando voleva.
Nessuna donna poteva resistere alla sua galanteria, al suo umorismo sottile, ai suoi costosi regali…
Ed io avevo sempre perdonato e fatto finta di non essere a conoscenza dei continui tradimenti. Ogni tanto mi chiedevo perché sopportassi ancora di essere sposata con un uomo così e la risposta non poteva essere che una sola; in fondo ero affezionata a mio marito, e, a modo suo, anche lui a me.
Ma questa sua idea di vendere la mia villa di Torcello era una pugnalata alla schiena.
Per nulla al mondo vi avrei rinunciato ed ero dispostissima a divorziare, se fosse servito. Ma non sarebbe servito. La villa era tra i beni intestati a entrambi e Andrea non avrebbe mai ceduto la sua parte, ne ero certa.
Ormai la villa stava diventando il nostro punto di scontro… o d’incontro, chissà?
Avrei dovuto pensarci e usare il cervello, come diceva una mia vecchia zia di Roma.
A questo punto dovevo parlare con Carla. Le telefonai due giorni dopo che
Andrea aveva fissato l’appuntamento con Mario. L’avrei aspettata all’Harry’s bar, quella mattina stessa.
Arrivai in anticipo, così gironzolai per i negozi lì attorno. Era novembre, l’umidità si faceva sentire e così pure il freddo. Ma il flusso dei turisti non diminuiva. Non si poteva andare avanti così, questo continuo intasamento della città nei suoi punti cruciali metteva a dura prova i nervi dei veneziani e soprattutto i miei.
Risalii faticosamente la marea di persone che mi separava dall’Harry’s.
Avrei ordinato un aperitivo, mentre aspettavo Carla.
Ma lei era già arrivata, mi fece cenno e sedetti al suo tavolo. Parlammo a lungo.
E così Andrea, per l’ennesima volta, era sull’orlo del fallimento. Non sapevo se crederci o no. Carla insisteva, ma non ero certa di potermi fidare di lei, nonostante fosse stata un’ottima amica e per lungo tempo avessimo pacificamente condiviso Andrea. Lei sapeva che io sapevo, ma non aveva mai parlato apertamente. Una volta soltanto, molti anni prima, aveva tentato di farmi capire della sua relazione con mio marito, ma io non avevo voluto ascoltare… era una situazione ambigua, la nostra, ma aveva funzionato.
Carla continuava nel suo monologo appassionato. Mi trovai a osservarla attentamente.
Aveva l’aria stanca e la sentivo delusa. La relazione con Andrea l’aveva logorata. Non era più tanto giovane, nemmeno lei. I suoi capelli rossi non erano più così brillanti e gli splendidi occhi verdi erano contornati da rughe profonde. Tutto il viso era molto segnato. Guardandola, decisi di parlarle francamente di noi tre.
Da giorni ero ossessionata da un unico pensiero, avevo in mente un certo progetto che riguardava lei e Andrea…
«Senti, Carla, avrei un discorso da farti. Ascoltami, ti prego. Da donna a donna». Quando ci salutammo, avvertii con gioia, che Carla era spaventata.
E così ero riuscita nel mio progetto. Non era stato difficile convincere Andrea a passare un ultimo week-end alla villa. Dopo tante discussioni gli avevo lasciato volutamente capire, che, forse, avrei ceduto e che Mario venisse pure a parlare con noi, al nostro rientro a Venezia.
Era stato un po’ più difficile convincere Carla, che era diventata molto prudente nei miei confronti, dopo il colloquio all’Harry’s.
Andrea aveva acconsentito, senza esitazioni, nonostante dicembre a Torcello non fosse certo l’ideale, dato il freddo, l’umidità e la nebbia fitta che, da qualche giorno, era calata sulla città, rendendo difficile la navigazione. Aveva solo commentato:
«Sarà un rischio tirare fuori il motoscafo. Ma, vedrai, ce la faremo. Lo sai che sono un ottimo pilota… non sarà certo la nebbia a fermarci».
Di questo ero sicura. Ed ero sicura anche di un’altra cosa. Andrea, nonostante i miei rifiuti iniziali, si aspettava il mio consenso per la vendita della villa. Avrei ceduto, come sempre. Una moglie fedele e remissiva da tanti anni, non poteva certo ribellarsi. Non sarebbe stato logico, in fondo avevamo sempre diviso tutto o quasi, fino a quel momento.
E poi ero in debito con lui. Non avevo messo nella comunione dei beni l’eredità di mia madre. Per questo motivo, gli dovevo lealtà in un momento critico, in quel preciso momento.
Dovevo approfittare della situazione. Se avessi lasciato intendere che c’era una possibilità di vendere villa Ada, Andrea non mi avrebbe rifiutato un ultimo fine settimana alla villa.
E nemmeno Carla avrebbe potuto rifiutarmi questo piacere.
«E lei, signora, dove si trovava?»
Il commissario passeggiava nervosamente lungo la riva del canale, dietro la villa.
La lancia della Croce Azzurra era da poco partita per l’Istituto di Patologia di Venezia.
Mi guardò rabbrividendo. Cominciava già ad imbrunire.
«Allora, signora, le dispiace ripetere tutto dall’inizio?» Aveva l’aria trasandata e la barba lunga.
Anch’io avevo freddo, sotto la pelliccia non indossavo che un leggero abito di seta.
Erano le tre del pomeriggio e la nebbia stava infittendo sempre più. Attesi un momento, prima di rispondere. Mi sentivo così stanca. Il mio corpo non mi apparteneva più. Solo il mio cervello lavorava intensamente ed era completamente staccato da me. Non avvertivo nulla, oltre il freddo. Né dolore, né pietà, o rimorso. Solo un gran senso di vuoto.
«Ma certo, che non mi dispiace, commissario. Non potremmo, però, rientrare? Fa Molto freddo, qui fuori.»
«Ha ragione, signora. Mi scusi. La prego, mi faccia strada.» Poco dopo entrammo dal retro e lo feci accomodare nello studio di Andrea. Il commissario si lasciò cadere nella poltrona preferita di mio marito. Non doveva avere più di quarant’anni, gli accattivanti occhi celesti, il sorriso aperto e sincero, gli davano un’aria sbarazzina.
Mi versai del cognac e gliene porsi un bicchierino.
«Grazie, signora. Ci voleva proprio.»
«Allora, signora, sia gentile, ricominci da capo.»
«Come le ho già detto, commissario, siamo arrivati qui ieri sera» attaccai tutto d’un fiato «io, mio marito e la signorina Carla Fantini. Andrea voleva assentarsi dal lavoro e riposare un po’. Sa, qui è molto difficile che lo disturbino…» Ma cosa stavo dicendo? Andrea non c’era più. Era morto. Morto. Non me ne rendevo ancora conto.
Questo pensiero mi colpì come una martellata. Smisi di parlare di colpo. E scoppiai a piangere. Non riuscivo più a trattenermi.
Il poliziotto era imbarazzatissimo e cercò persino di consolarmi.
«Su, su, signora. Coraggio, non faccia così. Lo so che è stato un brutto colpo per lei…»
Si erano appena portati via Andrea. Non l’avrei mai immaginato, ma la perdita di mio marito mi aveva sconvolto. Davvero. Non potevo pensarmi da sola. Mi lasciai andare senza ritegno.
Il commissario tossicchiò e si alzò in piedi.
«La prego, signora… forse è meglio che finisca il suo cognac. Vuole che rimandiamo il nostro colloquio?»
Non gli risposi.
Il commissario sembrava sempre più a disagio.
«Le dispiace se vado a parlare con la signorina Fantini? In quanto al resto, è solo una formalità, non si preoccupi… gliel’ha già detto, alla signorina Fantini, vero?» aggiunse poi, a bruciapelo.
«Sì, commissario. Ma, ha la febbre molto alta. È stata malissimo tutta la notte e la notizia l’ha sconvolta…» sussurrai con un filo di voce.
«Lei non deve preoccuparsi, glielo ripeto. Con la signorina c’è già la dottoressa Lanza; anzi, adesso salgo e la mando giù. Mi pare che ne abbia bisogno anche lei.»
Un giovane poliziotto in borghese entrò senza bussare, interrompendoci.
«Commissario, non so come, ma sono già arrivati dei giornalisti.»
Il commissario sbuffò indispettito. Poi mi guardò un attimo e se ne andò senza aggiungere una parola.
L’articolo era sulla pagina della cronaca locale. C’era anche una foto di Andrea, mentre giocava a golf nel parco della villa.
“… tragica disgrazia a Torcello. Noto professionista annega nella darsena della sua villa. Tutti in città conoscevano l’architetto Andrea F., la cui scomparsa ha suscitato profonda commozione.
Probabilmente il dottor F., mentre tentava di salire sul suo motoscafo, è stato colto da malore ed è caduto in acqua. È stata la moglie, preoccupata dalla sua lunga assenza, a trovarlo, ormai cadavere.”
Fu Carla a telefonarmi, avvisandomi dell’articolo. Le promisi che sarei andata a trovarla, tra qualche giorno. Che avesse pazienza. Carla aveva ancora la febbre e non poteva uscire.
Ma anch’io dovevo avere pazienza.
Adesso avevo tante cose da affrontare… ed ero sola! Dovevo abituarmi, non c’era più Andrea a sollevarmi dagli impegni più gravosi.
Non so come riuscii a superare le difficoltà burocratiche e devo dire che il mio avvocato fu un ottimo consigliere anche in quella occasione.
I giorni volavano. Andrea fu sepolto nella tomba di famiglia e la cerimonia nella Chiesa dei S.ti Giovanni e Paolo si svolse esattamente come lui avrebbe voluto.
Il commissario si fece vivo il giorno dopo il funerale.
Non mi aspettavo una sua visita. Restai un attimo sbigottita. Arrivò senza preamboli al nocciolo della questione.
«È solo una visita di cortesia, signora. Voglia scusare se la disturbo in questa tragica circostanza. Che disgrazia… ma c’è qualcosa che vorrei discutere con lei, qualcosa di molto particolare, che lei, forse, sa già.
Il suo avvocato le avrà riferito il risultato delle analisi, non è vero, signora?». Il commissario trattenne un attimo il respiro e mi guardò con quei suoi occhi celesti, chiari e penetranti.
Abbassai lo sguardo.
Poi proseguì: «Suo marito si drogava e per l’esattezza faceva uso di cocaina. Cosa ne sa?».
Lo guardai a mia volta.
«… Effettivamente beveva molto e questo lo sapevano tutti. Che facesse uso di cocaina lo sapevamo io e qualche amico intimo, ma, che vuole, commissario, Andrea non ascoltava mai nessuno. Gliel’avrò detto miliardi di volte che l’alcool non gli faceva certo bene… la droga poi… ma non mi ascoltava…»
«Eh, già, whisky e cocaina possono essere molto pericolosi… ma c’è un’altra cosa che vorrei dirle, se lei mi permette. Le confesso, signora, che per un momento ho dubitato di lei. Sa, quando succedono incidenti di questo genere, è di prammatica sospettare della moglie. Soprattutto per la faccenda dell’eredità, ma nel suo caso… la situazione finanziaria di suo marito non era certo rosea. Mentre lei…» il commissario mi sorrise fugacemente «È a causa dell’assicurazione, mi sono sorti dubbi per via dell’assicurazione. Anche dopo aver saldato i creditori, le resterà sempre una bella cifra, tutto sommato.»
Annuii e lo lasciai proseguire. Provavo una leggera sensazione di vertigine.
«Scusi la brutalità, ma un movente ci sarebbe anche stato, di denaro non se ne ha mai abbastanza… nonostante la sua situazione economica, tra azioni e immobili… solo la villa di Torcello vale un patrimonio… e poi… ci sarebbe anche la gelosia come movente, ma la testimonianza della signorina Fantini l’ha messa al riparo da ogni ragionevole dubbio.»
Il commissario si fermò un attimo. Io non volevo dare ulteriori spiegazioni.
Lui continuò.
«La signorina Fantini. Lo sapeva che, da anni, era l’amante di suo marito?»
A questo punto non potevo lasciarlo continuare.
«Davvero, commissario, lei ha potuto dubitare di me? Credere che io possa aver ucciso mio marito? E perché? Lo sapevo da anni che mi tradiva. Avrei potuto pensarci prima, non le pare? Perché aspettare di diventare vecchia?»
Stavo alzando la voce.
Il commissario cercò di calmarmi.
«Mi scusi, signora, non volevo. Non c’è motivo che si agiti. Lei non può aver ucciso suo marito. C’è la testimonianza della signorina Fantini.»
Già, Carla aveva testimoniato che non l’avevo lasciata un attimo dall’ora in cui Andrea era uscito di casa, fino a quando non avevo scoperto il cadavere.
Il commissario se ne andò poco dopo e quando lo salutai sulla porta ero completamente tranquilla. Era andato tutto per il verso giusto e non avevo più nulla da temere.
In primavera misi in vendita l’appartamento in centro storico e mi trasferii con Carla a villa Ada. Vivevamo in tranquillità assoluta e impagabile. Niente più Andrea, cui dover rendere conto anche del più piccolo spostamento. La libertà aveva un sapore sconosciuto e ineffabile, ma avevo tutto il tempo necessario per abituarmi.
I mesi che seguirono furono molto tranquilli. Uscivamo poco e frequentavamo pochissime persone. Il mio avvocato s’interessò di sistemare le ultime pratiche e di vendere la fabbrica.
Io continuavo a scavare nel parco e con Carla trovammo uno splendido pavimento di mosaico, con parecchie suppellettili in vetro e terracotta quasi intatte. Carla era ringiovanita, piena di entusiasmo e catalogava con zelante passione tutti i nostri reperti archeologici, prima di mandarli al museo di Torcello. La morte di Andrea le aveva fatto ritrovare, paradossalmente, la voglia di vivere.
Il commissario non si fece più vedere. A settembre, decidemmo di partire per gli U.S.A., dove avremmo trascorso l’inverno, avevo degli amici a San
Francisco. L’assicurazione che Andrea aveva fatto sulla vita, aveva pagato un primo acconto. Adesso ero una donna ricca e decisamente libera. Mentre il motoscafo ci portava all’aeroporto, mi trovai a pensare al commissario.
Che tipo! Era quasi arrivato alla verità… quasi! Mancava di fantasia, però!
Dovevo tutto a Carla. Aveva avuto un sangue freddo invidiabile. E che volontà! Uscire a fare una passeggiata con me e Andrea con un po' di febbre! Ma il mio affascinante poliziotto non aveva capito niente.
Andrea era annegato come un topo. Aveva avuto la fine che meritava. Non avrebbe potuto farcela con il whisky che si era scolato e con la cocaina che si era sniffato. Lo avevamo assecondato in tutto, quel fatidico giorno.
Quando poi, il povero Andrea era, molto opportunamente, scivolato, io e
Carla gli avevamo dato una mano a non risalire.
Lo sapevamo benissimo, Carla e io, che presi contemporaneamente il whisky e la cocaina potevano essere molto pericolosi!
Certo, whisky e cocaina erano stati fatali… quasi come una moglie e un’amante coalizzate!
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