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giovedì 12 giugno 2025

Georges Simenon - Maigret: Assassinio all'Etoile du Nord



1

Tutto iniziò con un confuso borbottio al telefono. O quanto meno, fu quel borbottio a trascinare Maigret in una nuova sconcertante avventura.
Il commissario era già quasi fuori dai ranghi della Polizia giudiziaria. Ancora due giorni e sarebbe andato ufficialmente in pensione. Quei due giorni contava di trascorrerli, come i precedenti, mettendo in ordine le pratiche e ripulendole dalle sue carte personali e dai suoi appunti. Dopo trent’anni passati al Quai des Orfèvres, lo conosceva come le sue tasche e vi si muoveva meglio che a casa sua. Non aveva mai scalpitato per andare in pensione. Ma ecco che, a quarantott’ore dalla libertà, si ritrovava nello stato d’animo di un soldato di leva e contava i minuti pensando alla casetta che lo aspettava sulle rive della Loira, dove la signora Maigret era già indaffarata nei preparativi per il suo arrivo.
Per lavorare in pace aveva trascorso la notte nel suo ufficio, che adesso era saturo di un denso fumo azzurrognolo di pipa. Era quasi l'alba, una pioggia sottile cadeva sui lungosenna, dove i lampioni erano ancora accesi, e quella atmosfera gli ricordava i tanti interrogatori che, cominciati nel pomeriggio, si erano conclusi solo alle prime livide luci del giorno con la confessione di un colpevole ridotto allo stremo delle forze – al pari, del resto, di chi lo aveva messo sotto torchio.
In una stanza vicina squillò il telefono. All’inizio Maigret non vi prestò attenzione, poi alzò la testa, ricordandosi che l’ispettore di turno era passato qualche minuto

prima per dirgli che andava a prendersi un caffè caldo.
La Casa Madre, come veniva chiamata la sede della Polizia giudiziaria, era deserta, con le luci smorzate, i corridoi vuoti. Maigret entrò nell’ufficio a fianco, sollevò la cornetta e disse:
«Pronto?».
All’altro capo del filo una voce maschile chiese:
«Sei tu?».
Perché, invece di rispondere «no», o di chiedere spiegazioni, si limitò a borbottare in modo confuso?
«Sono Pierre... Qui al Pronto Intervento ci è appena arrivata la segnalazione di un misterioso omicidio commesso all’Étoile du Nord... Ci vai tu?».
Maigret borbottò di nuovo, riattaccò la cornetta e si guardò intorno con un certo disagio. Sapeva come andavano queste cose. L’ispettore di turno doveva avere un amico, il suddetto Pierre, alla centrale del Pronto Intervento. E quell’amico era ben lieto di fornirgli qualche dritta.
Ancora due giorni...
Maigret caricò la pipa e rientrò nel suo ufficio, ma non se la sentì di tornare a immergersi nel mucchio di carte: si mise in testa la bombetta, indossò il pesante soprabito con il collo di velluto e scese le scale stringendosi nelle spalle.
 
 
Erano appena le sei del mattino. La telefonata era stata tempestiva, perché quando Maigret scese dal taxi in rue Maubeuge, a due passi dalla Gare du Nord, davanti alla porta dell’albergo, sorvegliata da un agente in divisa, non si erano ancora formati assembramenti.
«Il commissario di quartiere è arrivato?».
«Non ancora. Sono andati a prenderlo a casa».
«E il medico?».
«È salito adesso».
Era un albergo di quart’ordine, il genere di albergo che si trova nei pressi di tutte le stazioni. In un piccolo ufficio, a destra dell’ingresso, Maigret intravide un letto disfatto che doveva essere quello del portiere di notte.
L’alba viscida di pioggia accentuava lo squallore e la dubbia pulizia del luogo.
«Secondo piano, camera 32...».
Sulle scale una guida logora fermata da bacchette di ottone. Nel corridoio del primo piano clienti che sembravano appena scesi dal letto, qualcuno con il cappotto buttato a mo’ di vestaglia sul pigiama, il volto ancora assonnato e l’espressione inebetita di chi si sveglia di soprassalto nel bel mezzo di una catastrofe.
Maigret proseguì e per poco non si scontrò con una ragazza in tailleur scuro che stava scendendo. Nel commissario scattò il vecchio riflesso.
«Dove va, lei?» chiese.
«A prendere il treno».
«Torni in camera sua».
«Ma...».
«Nessuno potrà lasciare l’albergo finché non ne darò l’autorizzazione. All’ingresso c’è un agente».
Riprese a salire, costringendola a indietreggiare sui gradini.
«Ci vorrà molto?».
«Non lo so. Torni in camera sua, le ho detto».
All’inizio di ogni inchiesta Maigret tendeva a essere burbero, e quella volta, per di più, non aveva dormito. Si aprì una porta, quella della 32, e un uomo vestito alla bell’e meglio, senza colletto né cravatta, con i piedi nudi nelle pantofole, chiese:
«Il commissario di quartiere?».
«No, Polizia giudiziaria. Commissario Maigret».
«Si accomodi, prego... Sono il proprietario dell’albergo... È la prima volta, in cinque anni di lavoro, che mi capita...».
L’aveva già inquadrato! Un rompiscatole, logorroico e piagnone, un debole che aveva investito i suoi quattro soldi di risparmi in quell’attività con la speranza di ritirarsi dagli affari nel giro di pochi anni.
Maigret entrò nella camera. Il medico si stava rimettendo il cappotto, mentre sul letto un uomo, completamente nudo, era disteso in una posizione che non permetteva di scorgerne il viso, ma che lasciava in bella vista una profonda ferita in mezzo alla schiena, pressappoco all’altezza del cuore.
«Morto?».
«Quasi sul colpo».
«E il sangue?».
Il medico indicò un’ampia pozza sul pavimento, vicino alla porta.
«Si è trascinato fin là per chiedere aiuto».
Il proprietario dell’albergo spiegò:
«La mia sveglia aveva appena suonato, perché mi alzo sempre alle cinque e mezzo. La nostra clientela è fatta soprattutto di viaggiatori che devono prendere il treno e che di conseguenza si svegliano presto. Ho sentito un rumore di porte...».
«Un momento... Ha detto: “rumore di porte”? Intende che il rumore veniva da più di una porta?».
«Credo... Non lo so di preciso... Ho sentito un certo trambusto...».
«Anche rumore di passi?».
«Sì, certo, anche rumore di passi!».
«Nel corridoio o sulle scale?».
«Bella domanda...».
«Ci pensi su... Il rumore dei passi sulle scale o sul pavimento non è lo stesso...».
«Forse era un misto dei due, non so... Più che altro mi ha colpito un grido, un grido strozzato che sembrava di un uomo... Mi stavo infilando i pantaloni... Ho aperto la porta e...».
«Scusi! Dove dorme, lei?».
«In fondo al corridoio del primo piano, in una stanzetta che non posso dare ai clienti perché prende luce solo da un abbaino».
«Continui!».
«Non c’è molto da aggiungere. Sono accorso. Alcuni inquilini sbirciavano da dietro le porte socchiuse. La porta della 32, invece, era spalancata, e sulla soglia, disteso a terra, anzi in ginocchio, c’era un uomo che perdeva molto sangue...».
«Era nudo?».
«Sono stato io a togliergli il pigiama» intervenne il medico.
«Una coltellata?».
«Sì. Con un’arma robusta, a lama larga».
Finalmente arrivò il commissario di quartiere, che corrugò la fronte accorgendosi di essere stato preceduto da Maigret.
Maigret aveva una particolare avversione per le indagini negli alberghi, e già si rammaricava di aver incautamente risposto a una telefonata non destinata a lui. Come sempre, gli ospiti che dovevano partire davano segni di impazienza. Si facevano avanti l’uno dopo l’altro.
«Scusi, signor commissario... Ecco i miei documenti... Sono una persona rispettabile, piuttosto nota a Béziers... Devo essere a Bruxelles a mezzogiorno, e il mio treno...».
A tutti il commissario si limitava a rispondere:
«Mi dispiace!».
Alcuni si mostravano contrariati. Certe donne si mettevano a piangere, dopo aver tentato la carta della seduzione.
«Se mio marito viene a sapere che ho dormito in questo albergo...».
«Abbia pazienza, signora...».
Alla fine, poiché c’era troppa gente a ingombrare i corridoi, Maigret fece la voce grossa costringendoli tutti a rientrare nelle proprie camere e a chiudere le porte.
Gli restava meno di un quarto d’ora per lavorare in pace. Di lì a poco sarebbero arrivati i tecnici della Scientifica con il loro armamentario di macchine fotografiche e diavolerie varie.
Poi sarebbe stata la volta del giudice istruttore, del sostituto procuratore e del medico legale.
«Tutto qui il bagaglio della vittima? Non aveva nient’altro?».
Il proprietario dell’albergo, pallido in viso, fece segno di no. C’era solo una raffinata valigetta, in un angolo della stanza. Maigret l’aprì e vi trovò qualche accessorio da toilette e dei cambi di biancheria.
Appesi all’attaccapanni un vestito grigio ferro di ottimo taglio, un soprabito con la martingala e un cappello di feltro morbido con le iniziali «G. B.».
Nel portafoglio un biglietto da visita: «Georges Bompard, rue de Miromesnil 17, Parigi». Niente soldi, però, né nel portafoglio né altrove, eccetto pochi spiccioli nelle tasche.
Maigret, che aveva fatto girare il corpo, si trovò faccia a faccia con un uomo sui quarantacinque anni, d’aspetto ben curato e con lineamenti delicati. Strano a dirsi, erano i capelli brizzolati a dargli, per contrasto, un’aria giovanile, oltre che distinta.
«Mi porti la scheda di registrazione».
Il proprietario dell’albergo obbedì. La scheda era intestata a nome Bompard, e l’indirizzo era uguale a quello riportato sul biglietto da visita.
«Era solo?».
«L’ho appena chiesto al portiere di notte, dato che questo Bompard è arrivato qui alle tre e mezzo del mattino. E sì, era solo».
«Dov’è il portiere di notte?».
«Aspetta da basso».
«Gli dica di non allontanarsi dall’albergo finché non avrò finito con le indagini preliminari».
In quello stesso momento Maigret, chinandosi, raccattò da terra una calza di seta seminascosta dietro un piede del letto.
«Mi porti la lista degli ospiti, e soprattutto delle ospiti».
Quella calza di seta doveva essere stata tolta in fretta e furia e lasciata cadere a terra, come quando ci si spoglia precipitosamente. Era color carne, di misura piuttosto piccola e di qualità mediocre.
Salutato il commissario di quartiere, che doveva raccogliere gli elementi per il suo rapporto e ricevere i membri della Procura, Maigret uscì dalla camera tale quale a com’era entrato, con il soprabito indosso, il cappello in testa e la pipa fra i denti. Ma la pipa era spenta, e lui, con il proprietario dell’albergo al seguito, aveva l’aria di un colonnello che ispeziona le camerate.
«Chi c’è qui?» chiese indicando una porta.
«La signora Geneviève Blanchet, quarantadue anni, vedova, di Compiègne».
«Entriamo!».
Gli bastò un’occhiata per constatare che la signora Blanchet portava calze di filo, ciò nondimeno la costrinse ad aprire i bagagli, e poi, sordo a ogni protesta, frugò in tutta la camera.
«Non ha sentito niente?».
La donna arrossì. Bisognava insistere.
«Ho avuto l’impressione... Sa com’è... Le pareti sono così sottili! Ho avuto, dicevo, l’impressione che quel signore non fosse solo, e che lui... cioè, che loro...».
«Insomma, che nella camera accanto stessero facendo l’amore?» tagliò corto Maigret, che delle donne pudibonde aveva un sacro orrore.
Due anziane inglesi, qualche porta più avanti, gli diedero del filo da torcere, perché possedevano parecchie paia di calze di seta, ma nuove, che volevano portare a una nipote eludendo la dogana.
Una svizzera in possesso di documenti sospetti fu mandata al Quai des Orfèvres per accertarne l’identità.
Il tempo passava senza che Maigret riuscisse a scovare la seconda calza. Al piano di sopra si imbatté nella giovane in tailleur che aveva già incrociato sulle scale, e lo sguardo gli corse subito alle gambe.
«To’, come mai non porta le calze?» chiese stupito. «Strano, in questa stagione...».
In effetti era marzo e faceva molto freddo.
«Non le porto mai».
«Ha bagagli?».
«No!».
«Ha compilato la scheda in portineria?».
«Sì».
La cercò nel fascio di carte che aveva in mano. Ce n’era una a nome Céline Germain, disoccupata, con domicilio in rue des Saules, a Orléans.
«Si chiama Céline Germain, lei?».
«Sì».
Il commissario la osservò con più attenzione, colpito dall’aggressiva laconicità delle sue risposte.
«Quanti anni ha?».
«Diciannove!».
«È sicura di non portare mai calze?».
Intanto rovistava la camera, metteva a soqquadro il letto, apriva tutti i cassetti del guardaroba. A un tratto disse:
«Si alzi la gonna, per favore».
«Che cosa? Lei è pazzo!».
«La prego di alzarsi la gonna».
«Senta un po’, lo sa che potrei sporgere denuncia contro uno sporcaccione come lei?».
«In questo albergo è stato ucciso un uomo!» si limitò a replicare Maigret. «Su, si sbrighi!...».
La ragazza era pallida, con grandi occhi illuminati da pagliuzze d’oro, occhi da rossa, che in quel momento esprimevano rabbia e disprezzo.
«Me la alzi lei, se ha il coraggio» lo sfidò. «La avverto che sporgerò denuncia!...».
Il commissario le si fece vicino e le tastò i fianchi.
«Lei indossa una guaina» constatò.
«E con questo?».
«Lo sa benissimo che non è una guaina modellante, ma una di quelle sottili con i ganci per reggere le calze...».
«E a lei che cosa gliene importa? Posso vestirmi come mi pare, no?».
«Dov’è l’altra calza?».
«Non so a cosa si riferisca...».
Il proprietario dell’albergo ascoltava stupefatto quello strano dialogo.
«Mi procuri una chiave inglese di grosse dimensioni!» gli ordinò Maigret.
E se ne servì per smontare il tubo di scarico del lavabo. Qualche istante dopo, come evidentemente prevedeva, ne tirò fuori una piccola massa spugnosa, che era appunto una calza di seta.
«Andiamo, ragazza mia!» la esortò Maigret, che non mostrava un briciolo di stupore. «Parleremo meglio nel mio ufficio».
«E se mi rifiutassi di seguirla?».
«Andiamo!».
La pilotò lungo il corridoio. Lei avanzava impettita. Davanti alla camera 32, Maigret si fermò un istante e aprì uno spiraglio della porta.
«Io vado al Quai!» annunciò al giudice istruttore, che era appena arrivato. «Credo di aver trovato qualcosa di interessante».
In quel momento la sua prigioniera tentò di sfuggirgli con una mossa a sorpresa. Ma il commissario fu altrettanto lesto ad afferrarle il braccio, e allora lei, con la mano libera, cercò di graffiargli il viso.
«Su, stia buona!...».
«Mi lasci!... Le ho detto di lasciarmi... Lei è un mascalzone!... Ha cercato di farmi spogliare... Mi ha alzato la gonna... E siccome non le ho permesso di mettermi le mani addosso, ora vuole vendicarsi!...».
Si aprirono alcune porte. Apparvero volti dall’espressione sconcertata, ma Maigret, l’unico a restare impassibile, continuò a tenere saldo il braccio della ragazza.
«Vuole stare zitta, o no?».
«Lei non ha il diritto di portarmi via! Non ho fatto niente! Devo prendere il treno...».
Il commissario la trascinò giù per le scale, mentre lei, non ancora rassegnata, strillava:
«Aiuto!... Non ho fatto niente!... Mi picchiano!...».
Forse sperava in una reazione della folla male informata, come accade più spesso di quanto non si immagini. Una volta Maigret, all’inizio della carriera, le aveva prese di santa ragione perché un borseggiatore, che lui stava arrestando all’uscita di un grande magazzino, si era messo a gridare:
«Al ladro!».
C’era molta gente davanti all’Étoile du Nord. Il commissario si era premurato di far arrivare un taxi all’ingresso. Ciò nonostante, dovette ricorrere all’aiuto di un agente per tenere ferma la ragazza, che continuava a dibattersi tentando di buttarsi a terra.
Alla fine riuscirono a chiudere la portiera. Maigret si rimise a posto il cappello e lanciò un’occhiata in tralice alla giovane che respirava affannosamente.
«Di carognette come lei ne ho incontrate di rado».
«E io, di villani come lei, non ne ho visti mai».
Che ragazza strana! Quando l’aveva incrociata la prima volta, sulle scale, così giovane e minuta nel suo tailleur blu scuro, l’aveva presa per una signorina di buona famiglia.
Nella sua camera, invece, si era mostrata bellicosa e cinica come una prostituta.
Ora aveva cambiato di nuovo atteggiamento:
«Se lei è il famoso Maigret, complimenti! La facevo più furbo!».
Il commissario si accese la pipa, spenta da un pezzo. La ragazza si lagnò:
«Non sopporto il fumo!».
«Il che non le impedisce di avere in borsa un pacchetto di sigarette!» replicò lui.
«A ciascuno il proprio fumo! Il suo mi dà fastidio!».
Maigret continuò a fumare, senza smettere di tenerla d’occhio, perché quella era capace di aprire la portiera e gettarsi in strada.
«Da quanto tempo?» le chiese a un tratto.
«Che cosa?».
«Il mestiere... Da quanto tempo batte?».
Maigret ebbe l’impressione che un fugace sorriso le increspasse le labbra sottili.
«Non sono affari suoi».
«Come vuole. Forse, una volta nel mio ufficio, diventerà più ragionevole».
«Cercherà di nuovo di alzarmi la gonna?».
«Può darsi».
Pioveva ancora. Le strade di Parigi si erano popolate. Rallentarono per attraversare le Halles, e alla fine raggiunsero il lungosenna.
Maigret non avrebbe saputo dire se era contento o no di aver risposto al telefono quella mattina. In ogni caso, osservava con interesse la piccola peste che gli sedeva a fianco tutta impettita.
Era lotta aperta, fra i due, una lotta strana, in cui sembrava che da entrambe le parti vi fosse una certa curiosità.
«Suppongo che mi interrogherà per ore e ore, senza darmi da bere né da mangiare. È così che funziona, no?».
«Può darsi» ripeté Maigret.
«Comunque l’avverto subito che non mi spaventa affatto. Non ho niente da rimproverarmi. Qualunque cosa tenterà di farmi le si ritorcerà contro...».
«Se lo dice lei!...».
«Di che cosa mi accusa?».
«Non lo so ancora».
«Allora mi lasci andare. Sarebbe molto più intelligente da parte sua».
Il taxi si fermò nel cortile della Polizia giudiziaria. Maigret scese e fece per prendere il portafoglio dalla tasca e pagare, quando il suo sguardo incrociò quello della ragazza. Capendo che lei aspettava quel gesto per tentare ancora una volta la fuga, disse al conducente:
«Le farò portare giù i soldi da qualcuno».
La Casa Madre aveva ripreso vita, e gran parte degli uffici echeggiava di voci. Maigret aprì la porta del suo, fece entrare Céline Germain e uscì chiudendo la porta a chiave dall’esterno. Poi si fece annunciare al direttore.
Con il superiore discusse del caso per una decina di minuti, concordando il da farsi, dopodiché si fermò davanti all’usciere.
«Fammi portare caffè e croissant per due».
Allorché riaprì la porta dell’ufficio, rimase per un istante come paralizzato vedendo tutte le sue carte, strappate o appallottolate, sparse per terra, i vetri della finestra rotti, e il busto della Repubblica, che fino a poco prima faceva bella mostra di sé sul camino, spezzato in due sul pavimento.
La ragazza se ne stava seduta sulla poltrona del commissario e lo guardava con aria di sfida.
«Gliel’avevo detto!» lo provocò. «E l’avverto, non finisce qui!».

2

Quello fu forse l’interrogatorio più frustrante di tutta la carriera di Maigret. Si svolse, dall’inizio alla fine, in condizioni fuori dal comune, nella stanza a soqquadro, con il pavimento ricoperto di documenti strappati e pezzi di gesso che il commissario fingeva di non vedere.
A questo si aggiungeva il fatto che Maigret non aveva dormito e che con ogni probabilità la sua interlocutrice era più o meno nelle stesse condizioni. Infatti erano tutti e due pallidi, con gli occhi lucidi di quel languore febbrile che fa seguito alle lunghe veglie.
Entrando nell’ufficio, Maigret si era diretto senza battere ciglio verso la sua poltrona e aveva preso per il braccio la ragazza, mormorando:
«Le dispiace?».
Lei si era alzata, perché era chiaro che il commissario l’avrebbe avuta vinta, e si era seduta nel posto da lui indicato, di fronte alla finestra da cui entrava un fascio di luce cruda, implacabile come un lampo al magnesio. Si aspettava che le dicesse qualcosa? In questo caso dovette rimanere piuttosto spiazzata, perché il commissario cominciò con il caricare la pipa con cura minuziosa, poi attizzò il fuoco nella stufa, quindi prese a temperare una matita e per finire aprì la porta al fattorino che portava la colazione per due.
«Vuole?» si limitò a mormorare rivolgendosi alla prigioniera.
«Non c’è un po’ di latte?» replicò la ragazza in tono acido.
«Ho pensato che il caffè nero l’avrebbe aiutata a star sveglia».
«Non mi piace il caffè senza latte».
«Allora non lo beva».
Invece lo bevve, tentando di assuefarsi alla temibile placidità del commissario. Il quale, dopo essersi rifocillato, sollevò la cornetta del telefono.
«Pronto?... Mi passi la Squadra Mobile di Orléans...».
E quando la ebbe in linea:
«Sono Maigret... Può darmi un’informazione in via ufficiosa? Se è necessario, le faccio mandare una rogatoria... Si tratta di una certa Céline Germain, residente a Orléans, in rue des Saules...».
Il commissario ebbe l’impressione che un breve sorriso increspasse le labbra della ragazza. Nello stesso momento, lui aggrottò le sopracciglia.
«Come?... Ne è sicuro?... Neanche in periferia?».
Quando riagganciò, tenne lo sguardo inchiodato a lungo sul viso di Céline Germain. Poi le chiese con un sospiro:
«Dove abiti?».
«In nessun posto!».
«Dove hai conosciuto Georges Bompard?».
«Per strada».
Ormai fra i due era guerra aperta: si osservavano a vicenda, con i nervi tesi, mentre la pioggia continuava a cadere dietro i vetri della finestra, da cui giungeva di tanto in tanto il fischio di un rimorchiatore che passava sotto le arcate del ponte.
«In quale strada?».
«A Montmartre».
«Eri a caccia di clienti?».
«E con questo?».
«Che ora era?».
«Non lo so».
«Siete entrati in albergo insieme?».
Lei ebbe un attimo di esitazione, poi dovette pensare che il commissario era al corrente dell’arrivo solitario del suo accompagnatore, quindi precisò:
«Io sono entrata un po’ prima e ho preso una camera. È stato lui a volere così».
«Dove sei nata?».
«Sono affari miei».
«Mai avuto problemi con la Buoncostume?».
In quel momento bussarono alla porta. L’ispettore Janvier non si decideva a parlare, ma Maigret gli fece segno di non farsi problemi.
«Vengo da rue de Miromesnil, dove non ho scoperto granché. Georges Bompard risulta domiciliato lì. Abita da una quindicina d’anni in un appartamentino di due stanze, al quinto piano sul cortile, per il quale paga duemilacinquecento franchi di affitto. La portinaia sostiene che non c’è quasi mai, perché fa il commesso viaggiatore ed è sempre fuori».
Maigret notò che la ragazza aveva aggrottato le sopracciglia e sembrava sul punto di dire qualcosa, ma fu una questione di secondi, perché subito dopo aveva riacquistato il suo atteggiamento impassibile.
«Continua».
«Tutto qui! Bompard è uscito da casa ieri mattina».
«Aveva ricevuto telefonate?».
«Nell’appartamento non c’è il telefono».
«Nient’altro?».
«No, niente, eccetto un’impressione personale. Doveva essere un dongiovanni, a giudicare dalle fotografie di donne che tappezzano le pareti...».
«C’era anche il ritratto di questa qui?».
«Sto cercando di ricordare. Mi pare di no...».
«Va’ a prendermi tutte le foto, e anche le lettere, se ce ne sono...».
Janvier uscì, e Maigret si dedicò nuovamente al fuoco, con calma, poi si passò una mano sulla fronte e sbadigliò.
«Insomma, tu sostieni di non sapere niente. Ti chiami Céline Germain e batti il marciapiede. Bompard ti ha abbordato per strada e ti ha portato in albergo...».
«Non subito. Prima siamo andati a ballare in un paio di locali notturni».
«E una volta in albergo?».
«L’ho raggiunto nella sua camera, come d’accordo. Siamo andati a letto insieme».
«Questo lo so! Una vicina vi ha sentiti...».
«Una viziosa, a quanto pare! Si sarà alzata per ascoltare... Magari ha anche guardato dal buco della serratura...».
«E dopo? È entrato qualcuno?».
«Non lo so... Io sono tornata nella mia camera».
«In sottoveste?».
«Mi ero rivestita alla bell’e meglio. Una calza dev’essere finita sotto il letto. Non ho sentito gridare. Mi sono svegliata solo per il viavai di passi in corridoio e il rumore di porte che si aprivano e si chiudevano. Quando ho capito che cosa stava succedendo, ho pensato che sarei stata incolpata e ho tentato di andarmene. Ma lei mi ha impedito di lasciare l’albergo. Mi sono ricordata della calza, e ho cacciato l’altra nel tubo di scarico. Contento?».
Maigret si alzò, si mise il cappello, ma non il soprabito, aprì la porta e si limitò a dire:
«Vieni!».
Senza smettere di tenerla d’occhio, si inoltrò con lei in un dedalo di corridoi e di scale anguste per approdare infine alla sezione antropometrica, dove stavano schedando tutti i sospetti, uomini e donne, arrestati durante la notte.
Era il turno delle donne. Ce n’era ancora una ventina, per lo più prostitute di bassa leva che, avvezze al cerimoniale, si spogliavano di loro iniziativa.
In quel momento chiunque non conoscesse Maigret l’avrebbe preso per un omaccione che faceva senza entusiasmo un mestiere qualunque.
«Spogliati...» sospirò riaccendendosi la pipa.
Ma voltò la testa dall’altra parte, affinché lei non lo vedesse sorridere sotto i baffi.
«Devo togliermi tutto?».
«Ovvio!...».
Maigret intuiva che era combattuta. E aspettava con una certa ansia. Alla fine la ragazza si strappò letteralmente di dosso la giacca del tailleur, poi la camicetta di seta color crema, e si sedette per togliersi le scarpe.
Abbassando gli occhi, il commissario constatò che le mani di Céline tremavano, e fu sul punto di mettere fine a quella prova.
«Sostieni ancora di essere una che batte il marciapiede?».
Lei fece segno di sì, e a denti stretti, con lo sguardo fisso, lasciò cadere la gonna, mentre il seno piccolo e appuntito faceva capolino dalla sottoveste.
«Ora mettiti in fila... Devono visitarti».
Poi, con un gesto in apparenza noncurante, raccolse i vestiti da terra e li portò nell’ufficio a fianco. Lì c’era il laboratorio dove, tra provette e microscopi, i tecnici si dedicavano a minuziose ricerche.
«Senti, Éloi, che cosa ne pensi di questi straccetti?».
Un giovanotto alto prese il tailleur, tastò il tessuto con aria da intenditore e indicò l’etichetta.
«Viene da una sartoria di Bordeaux. Stoffa pregiata, ottima fattura. Un abito da signorina della buona borghesia».
«Ti ringrazio».
Quando tornò nel reparto donne, udì le voci di un alterco, e poco dopo il fotografo della Scientifica venne ad annunciargli:
«Niente da fare! Appena tento di scattarle una foto, quella chiude gli occhi, gonfia una guancia, storce la bocca, insomma fa di tutto per rendersi irriconoscibile».
«Lasciatela rivestire!» concesse Maigret con una certa stanchezza. «Nei nostri archivi non c’è traccia delle sue impronte digitali, vero?».
«Proprio così! La ragazza non ha mai avuto a che fare con la polizia. Ah, ecco il dottore che viene a cercarla...».
Era un giovane medico che Maigret conosceva bene. I due uomini si appartarono in un angolo e discussero a lungo sottovoce. Avevano appena finito di parlare quando riapparve Céline, in tailleur, con lo sguardo fisso e il volto così pallido che il commissario si impietosì.
 
 
«Si è decisa a parlare?».
«Non ho niente da dire».
Erano di nuovo nell’ufficio di Maigret e tra i due, curiosamente, si era stabilita una specie di intimità. Non erano diventati amici, questo proprio no, ma non erano più due estranei.
«Lo sa che cosa mi ha detto il dottore?» fece Maigret.
Lei arrossì e parve sul punto di scoppiare in lacrime.
«Penso che se lo immagini. Non è neanche un mese che...».
«Stia zitto!».
«Allora lo ammette che fino al mese scorso era ancora vergine? Perché non ammette pure che ha dato un nome falso?».
La ragazza tentò di fare dell’ironia:
«È tanto bravo a rispondersi da solo!».
«Proprio così! Allora continuerò a rispondermi da solo. O meglio, cercherò di ricostruire gli avvenimenti. Lei vive in provincia, non so ancora dove, forse nei dintorni di Bordeaux...».
Notò che il viso della giovane tradiva una certa soddisfazione: dunque non era Bordeaux!
«... Era una ragazzina giudiziosa e probabilmente viveva ancora con i suoi... Poi nella sua vita è entrato Georges Bompard... Ha cominciato a corteggiarla... Lei si è lasciata sedurre e Bompard l’ha spinta a seguirlo...».
La ragazza voltò la testa, capendo che il commissario mirava solo a spiare le sue reazioni.
«È la trama di un romanzo popolare?» lo schernì con un tono che non riusciva a essere sfrontato come avrebbe voluto.
«Più o meno, e infatti stiamo per arrivare all’abbandono...».
«Vediamo un po’... Georges mi comunica che dobbiamo lasciarci, e io lo ammazzo, poi vado a nascondere il coltello... A proposito! Dove avrei potuto nasconderlo, il coltello?».
«Scusi, chi le ha detto che è stato accoltellato?».
«Mah... Nei corridoi... Se ne parlava...».
«Allora, visto che è diventata così loquace, continui pure, e mi dica appunto dove ha nascosto l’arma».
«Lei è un osso duro, eh?».
«Se c’è una cosa di cui sono certo, in ogni caso, è che lei è un osso duro! Tanto da sopportare la visita medica, stamattina, e la promiscuità con le prostitute piuttosto che confessare di aver mentito a proposito dell’adescamento!».
«Che ingenuo!».
«Perché?».
«Il fatto che un mese fa ero vergine non significa niente! Conta di interrogarmi ancora a lungo?».
«Per tutto il tempo che sarà necessario. Le comunico, a titolo di informazione, che un tale, tre anni fa, è rimasto per trentasette ore sulla stessa sedia dove ora è seduta lei. Era entrato come testimone. È uscito con le manette ai polsi, e adesso è ai lavori forzati nella Guyana francese».
Lei accennò una smorfia sprezzante.
«Faccia con comodo!» ribatté. «Me ne starò tranquilla ad aspettare le sue domande. Lei prima mi ha messo le mani addosso. Poi ha trovato il modo di vedermi nuda. Mi viene il dubbio che, in fin dei conti, sia solo un depravato...».
Maigret non rispose, però, forse per punirla, la lasciò cuocere per un quarto d’ora nel suo brodo, mentre esaminava in silenzio alcune carte del tutto prive di interesse.
«Quanto le ha dato Bompard per passare la notte con lui?» chiese a un tratto alzando la testa. «Perché, se l’ha presa dal marciapiede, è normale che...».
«Che mi abbia pagata! Mi ha dato mille franchi...».
«In effetti c’era una banconota da mille nella sua borsetta. Gli altri clienti la avevano abituata a tanta generosità?».
«Dipende dal tipo di cliente».
In certi momenti Maigret l’avrebbe presa volentieri a schiaffi. Da quell’ufficio erano passati i più famosi delinquenti degli ultimi trent’anni. Uno di loro, un ex uomo di legge tragicamente approdato al crimine, era così scaltro che Maigret aveva dovuto allontanarsi più volte dalla stanza per dissimulare la sua rabbia.
E invece quella che aveva di fronte era solo una mocciosa! Dichiarava di avere diciannove anni, ma lui non si sarebbe stupito se fosse venuto fuori che ne aveva diciassette.
Da ore, ormai, erano faccia a faccia, e il commissario non aveva appurato nulla, neanche il suo nome, o il suo paese d’origine! La ragazza mentiva spudoratamente. E non si sforzava neppure di nasconderlo. Anzi, sembrava dire:
«Non sta a me dirle la verità, no? Tocca a lei scoprirla!».
Janvier era tornato da rue de Miromesnil con un mucchio di fotografie, alcune delle quali non lasciavano nulla all’immaginazione. Maigret le aveva passate in rassegna l’una dopo l’altra, con calma, non senza notare la rabbia soffocata della sua interlocutrice.
«Gelosa?» le aveva chiesto.
«Di un cliente occasionale?».
Comunque nessuna delle donne ritratte somigliava a Céline e le informazioni su Bompard erano piuttosto scarse.
Era stata individuata l’azienda per la quale lavorava: una casa editrice musicale di boulevard Malesherbes. L’editore, interrogato, aveva detto:
«Bompard era un tipo strano, lo vedevo di rado. Era un ottimo rappresentante, ma aveva le sue manie, come quella di cambiare continuamente zona. Gli piaceva circondarsi di mistero, e in casa editrice lo consideravamo un millantatore. A volte lasciava intendere di provenire da una famiglia illustre. Vestiva con cura meticolosa e un’originalità perfino eccessiva, data la sua professione...».
 
 
Alle tre del pomeriggio l’ufficio di Maigret versava nel medesimo disordine, con in più boccali di birra e avanzi di sandwich sul tavolo, cenere di pipa dappertutto, e anche mozziconi, perché alla fine il commissario aveva mandato a prendere un pacchetto di sigarette per Céline.
La situazione, ormai, rasentava il ridicolo, e la voce doveva essersi diffusa anche negli altri uffici, perché vari colleghi, a turno, si affacciarono alla porta con delle scuse sfacciate.
Nel frattempo all’Étoile du Nord il brigadiere Lucas, il più fidato collaboratore di Maigret, conduceva, senza alcun risultato, un’inchiesta accurata. Non solo il coltello era introvabile (avevano finanche smontato tutti i gabinetti!), ma nessun testimone aveva fornito il minimo indizio.
Insomma, tutto quello che erano riusciti a mettere insieme era che intorno alle tre del mattino, una certa Céline, di cui non si sapeva nulla, aveva bussato alla porta dell’albergo chiedendo una camera per il resto della notte.
Meno di un quarto d’ora dopo, Georges Bompard, munito di una piccola borsa da viaggio, era entrato nello stesso albergo e aveva preso una camera, dove di lì a poco era stato raggiunto da Céline.
Non erano passate due ore che Bompard aveva aperto la porta chiedendo aiuto e si era accasciato a terra, colpito da una coltellata alla schiena, mentre la ragazza tentava di svignarsela.
I giornali del pomeriggio erano appena usciti. Sulle prime pagine campeggiava la fotografia di una Céline irriconoscibile, a causa delle smorfie che la giovane si era ostinata a fare davanti all’obiettivo.
«Mi dica, ragazza mia, quando l’ha abbordata in quella strada di Montmartre di cui lei ha dimenticato il nome, Bompard aveva già con sé la valigetta?».
«No!».
«Siete andati in due locali notturni. Lui era ancora senza valigetta? Eppure, quando si è presentato in albergo, ce l’aveva...».
«Siamo andati a prenderla insieme in un piccolo bistrot aperto tutta la notte, nei pressi di place Pigalle, dove l’aveva lasciata in consegna».
«Una volta in camera, ha aperto la valigetta davanti a lei?».
«No... Sì... Non me lo ricordo...».
«Da dove ha tirato fuori la banconota da mille franchi?».
«Dal portafoglio, no?».
«Per sua informazione, quel portafoglio, quando è arrivato in mano nostra, era vuoto. Questo farebbe pensare che Bompard le abbia dato tutti i soldi che aveva con sé, tenendosi in tasca solo quanto bastava per pagare la camera l’indomani mattina...».
«Affari suoi!».
Figurarsi! La ragazza aveva sempre la risposta pronta, e la sua versione dei fatti, per quanto improbabile, aveva una logica!
Che cos’altro poteva fare per provare a smontarla? Tentare il bluff? Maigret si rassegnò all’idea e assunse la sua espressione più affabile.
«Non le pare che ci stiamo rendendo entrambi ridicoli? Io che cerco di farle ammettere di aver ucciso Bompard, mentre forse non è così. E lei che si ostina a sostenere di non saperne niente, mentre qualcosa sa...».
«Dunque sarei in vantaggio!» gli fece notare lei.
«Ebbene, sì! Ma non per molto. Lucas mi ha appena comunicato che è su una buona pista. Nel giro di qualche ora si capovolgeranno le parti e lei si troverà in una brutta posizione...
«Ragioniamo con calma, e mi corregga se sbaglio... Innanzitutto c’è un fatto innegabile: Bompard è stato ucciso con una coltellata... Ora, è improbabile, a meno di non pensare a un omicidio premeditato, che lei avesse un coltello di quelle dimensioni nella borsetta... Né è verosimile che potesse trovarsi sul tavolo... E la borsa da viaggio, che avrebbe potuto contenerne uno, era chiusa...».
«Io non ho mai detto questo!».
«E va bene!... Poteva essere aperta o chiusa, poco importa... Fatto sta che una donna minuta come lei di rado si azzarda a usare il coltello... Se avesse avuto l’intenzione di uccidere un amante infedele, o un cinico seduttore, avrebbe comprato una rivoltella...
«Dunque non è stata lei a uccidere Bompard...
«Bisogna allora supporre che sia arrivato qualcuno da fuori, ma le dimostrerò che questo qualcuno può essere entrato nella camera soltanto mentre lei era ancora lì...».
La ragazza si era alzata e aveva appoggiato la fronte al vetro della finestra, mentre sulla città bagnata di pioggia scendeva il crepuscolo.
«Punto primo: se lei avesse lasciato la camera con calma, dopo le effusioni di cui si è detto, e che non mi riguardano, avrebbe difficilmente dimenticato una calza sotto il letto... Avrebbe raccolto con cura le sue cose, da personcina razionale e posata qual è...».
Lo diceva con ironia, dato che, in quello stesso momento, la ragazza era scossa da piccoli brividi che le attraversavano la schiena.
«Mi sta ascoltando, Céline? Punto secondo: Bompard è stato colpito alle spalle, perciò o era occupato con una terza persona – lei! –, quando è apparso l’assassino, oppure questo assassino era qualcuno di cui non aveva motivo di diffidare...
«Ecco dove ci conduce un ragionamento più o meno rigoroso!... Ora ho un consiglio da darle, nel suo interesse: parli il prima possibile... Vuol darmi a intendere che lei fa l’adescatrice di mestiere, per non usare un termine più crudo?...
«Se pure mi lasciassi convincere, non mancherei di farle notare che, in questo caso, lei avrebbe con ogni probabilità un amante, uno di quegli amici, diciamo, affezionati, ai quali si dà anche un altro nome... Questo amante, vedendola entrare in albergo con un uomo dall’aria benestante, potrebbe aver pensato di derubarlo...
«Mi segue? Lo capisce che, in fin dei conti, le conviene raccontarmi per filo e per segno, senza giri di parole, quello che ha visto?».
Ci fu un lungo silenzio. La ragazza continuava a guardare fuori dalla finestra. Maigret stava all’erta per coglierne la minima reazione, ma senza troppe speranze.
Alla fine Céline si girò, pallida come al mattino, quando era uscita dalla sezione antropometrica. Andò a sedersi con aria stanca al suo posto e allontanò con il piede le carte sparse per terra.
«Ha finito?» sospirò.
«Perché non confessa subito ciò che, tra un’ora o due, dovrà confessare per forza?».
La ragazza contrasse le labbra in un sorriso amaro e replicò:
«Lei dice?».
Poteva sembrare sconfitta, sul punto di decidersi a parlare. Se ne stava lì, a fissare il pavimento, con le mani giunte sulle gambe accavallate. Maigret non osava fiatare, per timore di influenzarla.
Alla fine la giovane si riscosse, cercò le sigarette sulla scrivania, ne prese una e la accese con un gesto disinvolto.
«Che lavoro, il suo!» constatò poi. «Non la mette un po’ a disagio?».
Maigret non batté ciglio.
«Si sente tanto in gamba per la storiella che ha raccontato? E davvero pensa di sapere qualcosa di me?».
«Io penso solo che presto saprò» rispose convinto il commissario.
«Sul serio?».
Era esasperante. Si trasformava nel giro di un secondo, ora aveva ripreso il tono che aveva al mattino, quando parlava della sua vita da adescatrice.
«Le conduce sempre così, le sue inchieste?».
Invece di arrabbiarsi, Maigret era contento, perché cominciava a percepire in lei un’angoscia repressa, una disperazione che forse avrebbe rotto il fragile argine della sua volontà.
«Senta, Céline...».
«Non mi chiamo Céline!».
«Lo so».
«Lei non sa un bel niente! E niente saprà! E se anche, per disgrazia, dovesse scoprire qualcosa, le resterà sulla coscienza. Ora mi mandi in prigione, se le fa piacere. Rilasci pure interviste ai giornalisti, i quali scriveranno pagine e pagine sulla ragazza che rifiuta di dire il suo nome...».
«Che cosa faceva a Bordeaux?».
«Quando?» esclamò lei trasalendo.
«Non molto tempo fa. Le darò la data precisa tra poco. A giudicare dall’accento, lei non è affatto del Midi, né del Sud-Ovest. Eppure...».
La giovane sospirò, sopraffatta da una stanchezza che non era finta.
«Non ne posso più. Se mi mandasse in prigione, là almeno potrei dormire, no?».
«Potrà dormire appena mi avrà detto...».
«È un ricatto?».
Il commissario, preso alla sprovvista, balbettò:
«Ma no, razza di scema! Non lo capisce che lo faccio per lei? Non lo sa che, una volta uscita da questa stanza, sarà un’imputata e dovrà vedersela con la Procura? Mi ha visto prendere un solo appunto? Mi ha visto redigere un verbale di questo interrogatorio?».
Lei lo osservava con curiosità.
«Finché è qui dentro, capisce...».
Ma lasciò la frase a mezzo. Aveva già detto troppo. In quell’istante l’avrebbe presa a schiaffi, come una bambina disobbediente, in altri momenti invece...
«Vuole che ricominciamo dall’inizio? Le dimostrerò che la sua versione non sta in piedi!».
La ragazza alzò lo sguardo verso di lui e disse:
«Lo so!».
«E allora?».
«Allora non posso fare altrimenti. Sono stanchissima, mi creda. Se mi lasciasse stendere a terra, mi addormenterei...».
Il telefono squillò e Maigret rispose, voltando le spalle alla ragazza, che, in effetti, si allungò sul pavimento e chiuse gli occhi.

3

«Pronto?... Sei tu?... Hai ancora da lavorare in ufficio?... C’è qui l’elettricista che vuole sapere se deve installare una presa elettrica nel magazzino degli attrezzi...».
La signora Maigret telefonava da Meung-sur-Loire, dove la casetta rimessa a nuovo aspettava il commissario di lì a quarantotto ore.
«Che tempo fa?» chiese lui.
«Secco... C’è molto vento...».
A Parigi pioveva ancora, e Maigret avrebbe voluto che il vento della Loira venisse a spazzare via l’atmosfera tesa, nervosa, malsana del suo ufficio, dove da ore e ore si svolgeva una lotta estenuante.
Con la cornetta all’orecchio, il commissario non smetteva di osservare quella creatura enigmatica che gli teneva testa con l’inaudita energia di cui solo certe donne sono capaci, e che mentiva come solo le ragazze sanno mentire.
«Sì, ti sento...».
«Posso rubarti ancora un momento? L’elettricista vuole sapere anche se deve piazzare un campanello alla porta d’ingresso. Ma io direi che basta il battente...».
«Ovvio!».
Ma l’esclamazione di Maigret non si riferiva solo alla porta d’ingresso e al campanello della casa di Meung. Il commissario non ascoltava più. Aveva fretta di riagganciare, e ben altro di cui occuparsi. Rispose in tono distratto:
«Sì... Va bene... Fa’ come meglio credi... D’accordo... Buonanotte, cara...».
E quel «cara» bastò a riportare su di lui lo sguardo curioso della ragazza, a riprova del fatto che per quanto drammatiche possano essere le circostanze una donna resta sempre una donna.
Ah... Maigret si sentì sollevato. Gli parve che, dopo tanto girare a vuoto senza trovare la minima via d’uscita, finalmente gli si aprisse uno spiraglio. Aveva recuperato la sua capacità di ragionare. L’errore era stato di rimanere troppo a lungo con quella mocciosa in un’atmosfera soffocante.
«Pronto... Lucas è rientrato? Fallo salire subito nel mio ufficio... Sì, con tutti i verbali del caso Étoile du Nord...».
Poi una boccata di pipa, un sorso di birra, qualche passo verso la finestra, che aprì a dispetto della pioggia.
«Solo un momento, per far cambiare l’aria» si scusò.
Certo, l’assassino di Georges Bompard non l'aveva ancora trovato, e l’idea che gli era balenata in mente non aveva nulla di straordinario, ma bastava a tirarlo fuori dal vicolo cieco in cui si trovava.
L’idea era questa: al momento dell’omicidio, al pianterreno c’era il portiere di notte, senza il cui aiuto non era possibile uscire dall’albergo. Ora, il portiere di notte sosteneva di non aver aperto la porta a nessuno e di non essersi mai allontanato dalla sua postazione.
D’altra parte, al primo piano, il proprietario era già in piedi, intento, aveva detto, a infilarsi i pantaloni, ed era corso su per le scale non appena aveva sentito il grido d’aiuto.
Supponendo, dunque, come faceva Maigret, che la ragazza non avesse ucciso...
Supponendo che avesse assistito alla tragedia, e che tacesse per un motivo grave...
Lucas si affacciò alla porta, con un fascio di carte in mano.
«Entra e siediti! Hai la deposizione del portiere di notte?».
Poi lesse sottovoce, in tono svogliato:
«Joseph Dufieu, nato a Moissac... Ho sentito un grido proveniente dal secondo piano, e un istante dopo i passi del proprietario sulle scale... Sono stato io a telefonare al Pronto Intervento, poi ho fermato un agente che passava per strada e lui si è messo di guardia all’ingresso...».
Maigret lo faceva apposta a mandare avanti l’inchiesta in presenza della ragazza? Fatto sta che lei aveva drizzato le orecchie, lasciando trapelare una certa preoccupazione.
«Hai interrogato tutti gli ospiti dell’albergo, Lucas?».
«Qui ci sono i verbali... Ho appurato che nessuno di loro conosceva la vittima, e di conseguenza manca il movente per...».
«E il proprietario? Di dov’è, lui?».
«Di Tolosa».
Lo scenario era ancora vago, certo, ma in quella nebbia cominciava a delinearsi qualche ipotesi. Maigret camminava in lungo e in largo, con le mani dietro la schiena, la pipa fra i denti. Aveva richiuso la finestra, e ogni tanto andava a piantarsi davanti alla sconosciuta, che appariva turbata da quella trasformazione.
«Ci siamo! Segui con attenzione il mio ragionamento, Lucas! Supponi che la qui presente signorina non abbia ucciso Bompard. Stando ai risultati delle tue indagini, l’assassino non è nemmeno uno degli altri ospiti. Ora, due persone affermano che nessuno è uscito dall’albergo. Queste due persone sono Dufieu, il portiere di notte, e il proprietario... Che cosa ci impedisce di pensare che l’uno o l’altro fosse una vecchia conoscenza di Bompard, e che avesse un conto in sospeso con lui?».
Maigret si interruppe di colpo, contrariato.
«No, non può essere il portiere di notte, perché Bompard, arrivando in albergo, l’ha visto, gli ha anche consegnato la scheda compilata: avrebbe avuto tutto il tempo di riconoscerlo. Se una discussione o un regolamento di conti doveva esserci, avrebbe avuto luogo prima, già alle tre e mezzo».
Perché la ragazza sembrava rilassarsi, come rincuorata? E perché Maigret continuava a ragionare a voce alta?
«Quanto al proprietario... Vediamo... Di solito, la mattina, si fa chiamare dal portiere di notte?... No, ha una sveglia... Quando ha sentito gridare, lui non era ancora sceso... Dufieu non era salito... Quindi il proprietario non poteva sapere che Bompard si trovava nel suo albergo...».
Maigret si sedette pesantemente. Come spesso capita, aveva iniziato a seguire un’idea con convinzione, e ora si accorgeva che non stava andando da nessuna parte.
«Facci portar su da bere, Lucas... Lei che cosa prende?».
«Un caffè!».
«Non le pare di essere già abbastanza nervosa?».
E dire che, con una parola, quella avrebbe potuto chiarire tutto, e invece si ostinava a tacere! Maigret la guardava con rancore. Voleva venire a capo della faccenda, a qualunque costo. Non gli andava giù, a fine carriera, di consegnare la ragazza nelle mani del giudice, dichiarando:
«Non lo so se è colpevole o no. L’ho tenuta sotto torchio per dodici ore, ma senza risultato...».
Lucas, dal canto suo, sapeva che in quelle occasioni era meglio tenersi in disparte, perciò, dopo aver ordinato le birre e il caffè, si ritirò in un angolo della stanza.
«Capisci, Lucas? C’è un personaggio al quale sono costretto a tornare sempre: il portiere di notte. Era l’unico a sapere che Bompard fosse in albergo. L’unico che poteva veder uscire l’assassino... Aspetta!...».
Bussarono alla porta. Maigret gridò:
«No! Non ci sono!... Per nessuno!...».
Era di nuovo in piedi, in preda all’agitazione.
«La lista degli ospiti, presto! Hai detto che il portiere di notte è di Moissac?... E il proprietario è di Tolosa?... Vediamo i clienti... Londra... Amiens... Compiègne... Marsiglia... Mercy-le-Haut... Neanche uno di Moissac!... E nemmeno di Tolosa!...».
Aveva appena pronunciato queste parole, quando, girandosi verso la ragazza, notò il suo sguardo spaventato, i piccoli denti che mordicchiavano con accanimento il labbro inferiore.
«Hai capito dove voglio arrivare, Lucas? Bompard, in dolce compagnia, com’era sua abitudine, almeno a giudicare dalle fotografie trovate nel suo appartamento, è entrato in un albergo a caso, di fronte alla Gare du Nord... Qualcuno l’ha riconosciuto, qualcuno che ha motivo di avercela con lui... Dev’essere una persona che questa ragazzina testarda conosce, visto che si ostina a tacere e se le inventa tutte pur di non dire la verità... Diamine, ci siamo. Me lo sento...».
Ripeté con aria assorta:
«Moissac!... Tolosa! E il tailleur viene da una sartoria di Bordeaux...».
Prese la cornetta del telefono e la passò a Lucas.
«Chiama l’editore di musica per il quale lavorava Bompard... Fatti dire qual è stata l’ultima zona battuta dal suo commesso viaggiatore...».
In quei momenti pareva che Maigret diventasse più alto, più grosso e massiccio. Fumava a grandi boccate, e di tanto in tanto fissava la ragazza come a volerla schiacciare sotto il peso del suo sguardo. Sembrava dire:
«Ma certo! Quando mi ha visto, si è immaginata che fossi molto meno in gamba di come mi dipinge qualcuno. Un bonaccione, vero? Un bonaccione che si lascia prendere all’amo da una ragazzina e che ci prova gusto a farla spogliare! Un sentimentale, per giunta, che la guarda intenerito, che va in collera, che si innervosisce! Un momento, cara mia...».
E a Lucas, che stava telefonando:
«Che cosa dice?».
«A quanto pare, Bompard ha passato gli ultimi mesi nel Sud-Ovest».
«Basta così! Riattacca!».
Vuotò d’un fiato il boccale di birra, si mise ad attizzare con cura il fuoco nella stufa, poi si voltò, improvvisamente calmo, e, con un tono così inaspettato che la ragazza non riuscì a trattenere un sorriso, disse a Lucas:
«Non potevi farmelo notare che stavo facendo la figura dell’idiota?».
«Ma, capo...».
«I fattorini, le cameriere... Li hai interrogati?».
«Sì, capo... Ci sono solo due cameriere che dormono in albergo, al sesto piano... Non hanno sentito niente, naturalmente... Sono scese per ultime, quando il trambusto le ha tirate giù dal letto...».
«Hai preso le generalità?».
«La prima si chiama Berthe Martineau, diciannove anni...».
«Di dov’è?».
«Controllo subito... Ecco... di Compiègne...».
«E l’altra?».
«Lucienne Jouffroy... quarantacinque anni... di... di Moissac...».
E Lucas, che era di bassa statura, alzò verso il commissario due occhi stupefatti e ammirati a un tempo.
«Hai capito, ora? Salta su un taxi! Portamela qui... Ma sbrigati, diamine!...».
Spinse fuori il brigadiere e richiuse la porta con un gesto stanco ma soddisfatto.
Osservò le fotografie una per una, e l’unica conclusione a cui giunse fu che le amanti di Bompard erano tutte giovani, spesso giovanissime.
«Qual è, di queste?» chiese in tono bonario alla sua prigioniera.
Cascavano tutti e due dal sonno. Céline era come rannicchiata su se stessa. Invece di rispondere, scosse la testa in segno di diniego.
«La foto di Lucienne Jouffroy non è qua in mezzo?».
«Non posso ancora dire niente!» sospirò lei con uno sforzo.
«Perché? Aspetta l’arrivo di quella donna? Anche lei è di Moissac, lo ammetta!».
«Lo saprà tra poco!».
«Perché non adesso?».
«Perché no!».
«Lo sa che cosa farei, io, se avessi una figlia come lei? Ogni tanto le darei un bel paio di ceffoni, giusto per insegnarle a vivere. Scommetterei, per esempio, che collezionava fotografie di divi del cinema. No? Allora ha letto troppi romanzi...».
«Suonavo...» lo corresse lei sottovoce.
E trasalì quando Maigret affermò con sicurezza:
«È la stessa cosa! Si è infarcita la testa di romanticherie! E ha incontrato Georges Bompard. Quello che mi stupisce, però, è che si sia invaghita di un commesso viaggiatore...».
La ragazza lo corresse di nuovo:
«Mi ha detto che faceva il compositore. Suonava il pianoforte in modo meraviglioso...».
Tra loro si era ricreata l’intimità, quella strana intimità che si stabilisce più spesso di quanto non si creda tra poliziotto e criminale. L’ufficio era surriscaldato, pieno di fumo. Giungevano ovattati i rumori della Polizia giudiziaria: le telefonate nelle stanze vicine, i passi nel lungo corridoio e, in sottofondo, i clacson delle macchine sul ponte poco distante.
«Ne era innamorata?».
Lei chinò il capo senza rispondere.
«Ne era innamorata, è evidente! E mi chiedo se sia stato Bompard a portarsela dietro o lei a seguirlo, ad aggrapparsi a lui».
La ragazza alzò lo sguardo, limitandosi a replicare:
«Sono stata io, dopo!».
Maigret capì. Si ritrovò di colpo nella realtà banale che si cela sempre dietro i casi in apparenza più complicati.
Un commesso viaggiatore che aveva un debole per le donne giovani e che cercava di rendersi interessante ai loro occhi spacciandosi per un grande compositore...
Una provinciale romantica, come sono le ragazze a diciotto o diciannove anni, e che, dopo essersi fatta sedurre, aveva tentato di difendere la sua felicità...
«L’ha portata lui a Parigi?».
«Ci sono venuta da sola».
«Le aveva dato il suo indirizzo?».
«No... Si circondava di mistero... Ma mi aveva detto che frequentava un certo caffè di boulevard Saint-Germain... Così l’ho ritrovato là... Non avevo bagagli e lui è andato a prendere la sua borsa da viaggio... Mi ha pregato di restare qualche giorno in albergo, nel frattempo lui si sarebbe liberato dai suoi impegni e poi avrebbe potuto dedicarsi a me».
La mattina, quando la ragazza aveva tentato di farsi passare per una avventuriera da strapazzo, Maigret aveva rischiato di crederle, tanto era stata brava a recitare la commedia. Nel corso della giornata l’aveva vista di volta in volta ragazzina e donna fatta, inalberata e abbattuta, sprezzante e scoraggiata.
«Il suo ispettore se la prende comoda» commentò lei a un tratto, guardando l’orologio da polso.
«È brigadiere...».
«Per me non fa differenza».
«Da quanto tempo ha lasciato Moissac?».
«Non dirò nulla per ora...».
«Conosceva Dufieu, il portiere di notte?».
«Parlerò quando arriva il brigadiere».
«Quindi lei pensa che Lucienne Jouffroy sia fuggita?».
«Non lo so... Mi faccia portare dell’altro caffè, per favore. Sono stremata...».
Maigret chiamò l’usciere. Poco dopo gli passarono una telefonata.
«Come?... Ne sei sicuro?... E che vuoi farci, vecchio mio! Bisognava aspettarselo... Ma sì, faremo la segnalazione a tutte le frontiere...».
Si girò verso la ragazza.
«È il brigadiere Lucas... Dice che Lucienne Jouffroy ha lasciato l’albergo in tarda mattinata senza avvertire nessuno...».
E all’apparecchio:
«Torna subito qua... Sì, certo...».
Riattaccò e vide che la sua interlocutrice lo guardava diffidente.
«Suppongo» le disse «che ora non abbia più motivo di tacere».
«Chi mi assicura che non stia mentendo? Per quanto ne so poteva anche non esserci nessuno all’altro capo del filo...».
«Grazie per la fiducia! D’accordo, se la mette così, non ci resta che aspettare l’arrivo di Lucas. A lui almeno crederà, no?».
«Forse».
Erano tutti e due con i nervi a fior di pelle. Trascorse un quarto d’ora senza che si scambiassero una parola, poi arrivò Lucas, confuso, preoccupato.
«Avrei dovuto pensarci stamattina, capo...».
«Perché avresti dovuto pensarci tu, se non l’ho fatto io? E il portiere di notte?».
«È qui, sta aspettando in corridoio».
«Che cosa dice?».
«Niente! Sostiene di non sapere niente...».
«Fallo entrare».
Il portiere, un tipo dall’aria dimessa, lanciò a Maigret uno sguardo sfuggente.
«Che rapporti ha, di preciso, con Lucienne Jouffroy?».
«È mia cognata».
«Si sieda. Non abbia timore. Ma risponda con sincerità alle mie domande. Sua cognata aveva una figlia?».
«Rosine, sì».
«Che cosa ne è stato?».
«È morta».
«Come?».
Mutismo totale. Maigret insistette:
«Come è morta?».
E Céline, girandosi verso il portiere, mormorò:
«Può dirlo, Joseph!».
«È morta per un intervento che si è fatta fare perché era incinta. Aveva sedici anni...».
«È successo a Moissac?».
«Sì, tre anni fa».
«E all’epoca Georges Bompard bazzicava da quelle parti?».
«Sì, è stato lui a inguaiare Rosine... Ed è stato sempre lui, quando la ragazza è andata a trovarlo per dirgli che era incinta, a portarla da una mammana per farla abortire...».
«Un momento, Dufieu! A seguito di questi avvenimenti sua cognata è venuta a Parigi, e lei l’ha fatta assumere come cameriera all’Étoile du Nord, è così?».
L’altro annuì.
«Sono certo che ieri si è meravigliato parecchio vedendo entrare in albergo, alle tre di notte, una sua conoscente di Moissac, una ragazza di buona famiglia...».
«La signorina Blanchon» mormorò suo malgrado il portiere.
«La figlia del giudice Blanchon?».
Dufieu, spaventato, si girò verso la ragazza, e lei, scandendo le parole, disse:
«Geneviève Blanchon, sì, commissario. Mio padre non sa niente. Sono andata via da Moissac solo ieri mattina. Bompard aveva promesso di scrivermi, ma non avevo più avuto sue notizie...».
«Un momento, scusi. Dunque, Dufieu, lei si è stupito di vedere questa ragazza, ma si è stupito ancora di più quando è arrivato Bompard. Del resto, lei è un portiere d’albergo, e il fatto che si fossero presentati a distanza di qualche minuto l’uno dall’altro non poteva trarla in inganno».
«No, infatti, commissario».
«Quindi è salito al sesto piano per avvertire sua cognata».
«Esatto».
«Immaginava che sarebbe finita in tragedia?».
«Sapevo che mia cognata voleva vendicarsi di quell’uomo».
Maigret si girò verso il brigadiere.
«Lucas, portalo nel tuo ufficio, per favore».
Preferiva restare solo con la ragazza, che ora aveva perso la sua baldanza.
«Lucienne Jouffroy è entrata nella camera mentre lei era ancora lì?».
«Sì».
«Lei sapeva che la figlia era stata amante di Bompard?».
«Sì».
«E che lui l’aveva portata dalla mammana?».
«Sì».
«E, nonostante questo, l’ha raggiunto a Parigi?».
La ragazza abbassò la testa e disse con durezza:
«Lo amavo! Mi aveva fatto credere che Rosine era stata con altri uomini...».
«Se fossi suo padre...» bofonchiò Maigret.
«Che cosa farebbe?».
«Non lo so, ma... Così lei è andata via da casa senza soldi, senza bagagli... E Bompard le ha dato mille franchi per stare all’Étoile du Nord in attesa che...».
«Lo amavo!» ripeté la ragazza.
«E ora?».
«Non lo so più... Volevo solo evitare che Lucienne Jouffroy venisse arrestata, e anche che mio padre sapesse...».
«Come se fosse facile...».
Squillò il telefono. Maigret rispose brusco:
«Sì!... Bene!... Peggio per lei!... Certo!...».
E riagganciando:
«Lucienne Jouffroy non ha neanche tentato di passare la frontiera. Ha vagato per ore a Parigi e alla fine è entrata in un commissariato, dove ha vuotato il sacco... Non ha fatto il suo nome, ha detto solo che Bompard era a letto con una prostituta di cui lei non sa nulla...».
«Allora?».
«Se conosco i giudici del dipartimento della Senna, verrà senz’altro assolta...».
«E io?».
«Lei?».
A un tratto, drizzatosi in piedi, diede libero sfogo a un desiderio troppo a lungo represso e le mollò un ceffone. La ragazza rimase di stucco e non osò fiatare.
«Venga!».
«Dove?».
«Non sono affari suoi».
La pilotò lungo i corridoi e uscì insieme a lei nel cortile buio della Polizia giudiziaria.
«Ehi!... Taxi!...».
Poi, costringendola a salire in auto, borbottò come tra sé:
«Ci sono due portiere... Certo, in mezzo al traffico, qualcuno potrebbe uscire da una delle due...».
Poi tacque. Il taxi percorreva rue de Rivoli. La ragazza restava immobile.
«Insomma!» borbottò Maigret. «La facevo più sveglia!».
«Ho sonno» sospirò lei.
«Pazienza, dormirà dopo! La avverto che, se entro un minuto...».
La ragazza aprì la portiera, esitò.
E lui, furibondo:
«Ma si tolga dai piedi, diamine!... Razza di sciocca!...».
L’autista si girò e vide un solo passeggero in macchina, fece per fermarsi, ma il commissario abbassò il vetro e disse:
«Mi lasci davanti a una buona brasserie... Ho una sete!...».

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