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sabato 9 novembre 2024

Sara Vallefuoco: La gamba di gesso


Quando avevo più o meno nove anni il cugino di mia madre, che abitava dirimpetto a noi, si ruppe un braccio. Era inciampato sul bordo del marciapiede, in paese, mentre portava in mano un sacchetto con una bottiglia di latte e le uova. Da allora, tutte le volte che entravamo in casa sua si inscenava una commedia di terz’ordine, sempre la stessa: cominciava mio fratello, dicendo con quanto fiato aveva di sentire puzza di uova marce, e io e mia sorella giù a ridere; seguivano varie, incomprensibili battute, uno scappellotto ciascuno e infine il motto edificante di nostra madre, “non si ride sulle disgrazie altrui”. Sipario.
Mia sorella, che allora aveva solo quattro anni, mi confidò in seguito di aver sempre pensato che la mamma si riferisse alle uova, sì, insomma, che non era bello definirle marce davanti allo zio. Comunque. Nelle nostre menti bambine la realtà e la fantasia andavano a braccetto con la naturalezza di una coppia di vecchi coniugi, che dopo anni di consuetudini finiscono con l’assomigliarsi anche fisicamente. E così, dopo l’incidente dello zio, mio fratello frignò un secolo perché voleva per forza averlo anche lui il braccio ingessato; impiegammo mezz’ora di lavoro, tre scatole di scarpe e due gomitoli di spago. Decise eroicamente di guarire all’ora della merenda. Con un braccio fuori uso sarebbe stato il più lento a prendere le patatine fritte dalla busta, di quelle grandi, senza sorpresa dentro. Le nostre preferite erano le buste piccole con dentro le pistole ad acqua, ma contro gli intenti economico-educativi di nostra madre non c’era verso. Riuscivamo a spuntarla solo quando accompagnavamo la nonna a fare la spesa. Una delle cose più belle del mondo è la politica monetaria delle nonne. Seppure con qualche calo di gusto. Proprio in quei giorni, durante la convalescenza dello zio, mentre eravamo con lei dal droghiere rubai una confezione di dadi da brodo. Tutti i bambini provano almeno una volta l’impulso irresistibile di appropriarsi di qualcosa che non appartiene loro per il gusto di farlo, ma oggi so che per me fu l’inizio di qualcosa di diverso. Quell’atto arbitrario di possesso fu un’iniziazione, la prima vera prova da superare per poter affermare la mia esistenza come autonoma. Di veramente autonomo allora seguì solo un ceffone, che ricevetti da mia madre, e un’intera collezione di prevedibili rimproveri, ma nessuna di quelle reazioni mi fu di disturbo. La mia condizione di diverso dagli altri, dai miei
fratelli, dai miei compagni – ai miei occhi, e solo ai miei occhi – era stata finalmente segnata. Anche la nonna si unì veementemente al coro di proteste, ma i dadi non li riportò mai al negoziante. In fondo era dalla mia.
Questi e altri pensieri vaghi andavano dissolvendosi sui vetri del taxi che mi portava dall’ospedale a casa.
Il rientro fu meno facile del previsto. Abitavo al terzo piano di un palazzo senza ascensore e dovetti trascinare la gamba gradino dopo gradino. Dopo ogni rampa mi fermavo, per riprendere un po’ di fiato, che successivamente sprecavo per rispondere alle offerte di collaborazione domestica delle vicine. Comunque, alla fine conquistai la vetta e piantai a mo’ di bandiera la chiave nella toppa. Non potevo avere allora la certezza di oggi, ma mentre mi trascinavo verso il salotto, una vaga consapevolezza di stare per ricucire uno strappo, apertosi dolorosamente circa trent’anni fa, si faceva lentamente strada. Ora so che a dispetto della cicatrice la ferita è ancora viva, ma solo di tanto in tanto necessita di attenzione. E questo è più di quanto il mondo possa oggettivamente chiedermi.
Ripresi finalmente fiato semisdraiandomi sulla poltrona. Mi scoprii ad avere voglia di patatine. Di una busta grande di patatine, pensai, senza sorpresa; del resto, ce ne sono di più dentro, durano di più e in proporzione costano molto meno.
Mi guardai lo strano arto che da qualche giorno ero costretto a portarmi appresso: il gesso partiva un palmo più su del ginocchio e lasciava scoperte solo le dita dei piedi. Lasciamo stare il dolore della frattura, che ormai era passato; lasciamo stare che il gesso pesa un quintale, “ma non si preoccupi, solo finché non si asciuga”; fatto sta che a nessuno piace portarsi dietro una bruttura non sua, e quelle striature bianco ottico si sarebbero ingrigite e involgarite con i giorni. E anche la gamba sarebbe diventata sfacciata, priva di stile. Faticavo a riconoscere come mio perfino il contenuto, figuriamoci l’involucro. Decisi di passare dalla poltrona al letto.
Finalmente nudo. Il mio macroscopico arto fin dal primo momento non aveva dimostrato rispetto per i calzoni lunghi. L’unico paio che potevo indossare era un modellino creato dalla mano fantasiosamente armata di bisturi di un’infermiera – non quella di cui vi parlerò – che aveva provveduto ad aprimi la gamba sinistra da un lato nel senso della lunghezza. Accesi la televisione e piazzai il timer. Dalla fessura di una palpebra scorsi James Stewart sbarbato di fresco. Sistemai meglio il cuscino piegandolo in due.
Anche lui aveva avuto una gamba ingessata in quella storia della finestra, dei fatti strani che succedevano nel palazzo di fronte. Avevano ucciso una donna, mi pare, un bel film, ma non doveva essere quello; la bionda mi sembrava un’altra.
Diana non aveva ancora chiamato. Scacciai l’idea di una qualche complicazione, e preferii pensare che molto probabilmente non era sola.
«Ti chiamo io», aveva detto. Ci eravamo salutati di fretta in ospedale.
Povera Diana.
Avevano telefonato in ospedale per lei quella mattina presto. Un’ora prima una donna delle pulizie aveva trovato il cadavere del suo datore di lavoro in cucina, riverso bocconi sul pavimento, in pigiama (ma questo e il resto lo seppi dopo). L’odore del cibo e del pentolino bruciato filtrava fin da sotto la porta, e prima ancora di intuire l’accaduto la signora Ines ebbe l’avventatezza di entrare per spalancare la finestra. Non che fosse un’eroina: fortunatamente non seppe mai quanto aveva rischiato. La signora Ines, mi disse Diana più avanti, trascorreva la vita come fosse sempre nei pressi di una telecamera mai puntata su di lei, tentando continuamente di infilarsi nell’inquadratura per fare ciao con la manina. Non avrebbe mai perso l’occasione di rischiare una seria intossicazione a beneficio del diritto di cronaca del pubblico condominiale. Comunque. Vennero a chiamare Diana fuori dalla mia stanza di ospedale, dove si trovava per il suo giro mattutino, e le dissero semplicemente che era successa una disgrazia a suo marito. Tornò dopo qualche minuto a prendere il vassoio delle terapie che aveva appoggiato vicino al mio letto. «Cosa è successo», le chiesi. Fu lì che mi guardò e con il più breve dei sorrisi disse: «Ti chiamo io». Il suo turno di notte finiva lì. Nella manciata di ore che seguirono, tra le altre cose, fui dimesso dall’ospedale. E quella stessa sera James Stewart non tardò a eclissarsi dallo schermo.
In collegio dividevo la stanza con un mio compagno di corso. In genere andavamo d’accordo, tranne quando prendeva meno di me agli esami e quando tirava in ballo la storia dei cassetti. A Gianni aveva sempre dato fastidio il fatto che chiudessi i cassetti della mia scrivania a chiave (avevamo uno scrittoio per ciascuno; il mio era sotto la finestra, il suo accostato alla parete contigua, ad angolo retto). Non era per mancanza di fiducia, non c’entrava niente la fiducia. È che non volevo farne a meno. Glielo dissi tante di quelle volte, potevo anche dividerla col Papa la stanza, avrei chiuso lo stesso a chiave i cassetti, e Gianni finiva col fare finta di niente, ma si vedeva che gli dava fastidio. A volte mi chiedevo se fosse giunto ad odiarmi per questo. Ora lo so per certo. Una sera, armeggiando nella serratura della dispensa del collegio con un piccolo attrezzo metallico che mi ero procurato, riuscii a trafugare merendine alla carota e scatole di piselli. Magro bottino per studenti affamati, ma pronto per essere diviso con Gianni. Lo incontrai poco dopo nel cortile dell’università: era con la sua nuova ragazza, una rossa non particolarmente bella, con due occhi strani che fissavano il vuoto più spesso del suo interlocutore. Confidai a entrambi l’escursione nella dispensa. Non fu la sua reazione violenta a stupirmi (reazione di cui lo avevo sempre ritenuto capace), ma il momento in cui avvenne, del tutto inaspettato. Le pupille sbarrate e rosso di rabbia, mi accusò di essere un ladro, anzi, meglio, uno sporco ladro. È incredibile quanto impreciso sia l’uso che ormai facciamo della nostra lingua. “Ecco perché tieni sempre i cassetti chiusi a chiave.
Scommetto che ci si può trovare dentro tutto quello che è sparito da quando sei arrivato”. Mi sentivo addosso tutta la sua rabbia e gli occhi di lei, che osservavano me, poi il vuoto, poi il viso rosso di Gianni, poi il vuoto, e le nuvolette di fumo che emettevamo dalla bocca respirando convulsamente, con una pena e una paura infinite. Bruciavo. Mi insultava volgarmente capire non che Gianni sapeva – e chissà da quanto – ma che aveva associato quel banale furto alimentare, che non apparteneva al mio essere se non per il fatto che fisicamente ero stato io compierlo, a tutto il resto, giudicato come si può giudicare la profondità del mare da una sua foto in bianco e nero. Lasciai il collegio tre giorni dopo. Questo accadeva ormai più di dieci anni fa.
Decisi di emergere definitivamente da un sonno sbriciolato quando la sveglia digitale mi puntò dritte negli occhi le sei e quarantacinque. Fu il primo segno che mi rammentò chiaramente dove mi trovassi, e a ruota ricordai tutto. Diana, suo marito, la mia gamba ingessata. Non aveva ancora telefonato. Filtrai la mia ansia per lei dal generico malumore con cui mi apprestavo a iniziare la giornata. Non dovetti aspettare molto, comunque: erano quasi le otto quando suonò il campanello. Aprii la porta sulla nuova immagine della mia vita, che era al momento stanca, spettinata, senza colorito, con gli occhi gonfi e provati, ma privi di lacrime. E avreste detto di potervi notare un sottile, sottilissimo primigenio bagliore di libertà. Mentre le preparavo il caffè, mi raccontò di venire direttamente dalla questura, dove aveva trascorso tutto il giorno precedente. Sì, era per questo che non aveva potuto chiamare. Avevano tentato in tutti i modi di farla contraddire. All’inizio l’avevano trattata come fosse un’assassina. Ma non aveva ceduto. Lei a quella morte era estranea. Probabilmente suo marito aveva avuto un malore mentre stava per scaldarsi la cena. Soffriva di pressione alta e aveva già avuto in passato problemi circolatori: questa era la spiegazione che lei si era data, e che aveva dato alla polizia. Curiosamente avevano pensato anche al suicidio. Si era trattenuta dal rispondere che raramente la gente si suicida con un fornello acceso sotto una frittata di zucchine. E poi, figurarsi, suo marito prima di se stesso avrebbe avuto una popolazione intera da sterminare. Sì, avevano fatto domande sul loro matrimonio.
Certo che glielo aveva detto: convivere con lui semplicemente non poteva più definirsi un’esperienza dignitosa. Ormai erano passati quattro anni dal giorno in cui lui, sposandola, aveva ufficializzato il disprezzo che avrebbe metodicamente nutrito per lei. Un disprezzo che, un mese dopo l’altro, si era condensato in nubi di un odio atipico. Ovviamente avevano pensato che la picchiasse. Aveva risposto che sarebbe stato un gesto troppo sfacciatamente leale per lui. Sì, infatti non avevano capito, ma non aveva dato spiegazioni più precise, né gliene avevano chieste. A che serviva? Un malore per loro andava benissimo, senza complicazioni (che sarebbero sicuramente derivate dall’approfondire le conoscenze con una vedova così stramba). Meglio così. Convinta? Mah, meglio così che indagini, inchieste e cose varie. No, non aveva nessuno da avvertire. No, solo le condoglianze di sua cognata. I parenti di suo marito non l’avrebbero mai perdonata per essere riusciti a liberarsi di lei pagando contemporaneamente un prezzo così alto. Il caffè intanto era pronto. Sì, era capitato ancora. Sì, probabile, in effetti si sentiva molto nervosa, sarà stato per quello. Aprì la borsetta e mi mostrò un fermacarte.
Incontrai Diana in ospedale lo stesso giorno che mi ricoverarono. Non ero riuscito a essere comico come il cugino di mia madre e riportai da un incidente automobilistico una gamba rotta in più punti, un leggero trauma cranico e qualche escoriazione. Dato il vasto repertorio, dovetti ricoverarmi. Ero costretto a letto, e cominciai ben presto a sentire dentro una smania derivante – come credo – dall’estrema, concreta difficoltà di impadronirmi di qualcosa che mi piacesse. Andava avanti così dalla volta dei dadi da brodo; crescendo ero andato via via considerando quel lato della mia personalità come un’eccentricità che aveva tuttavia radici così profonde da essere sconosciute anche a me stesso. Ben diversamente tutto ciò era visto dagli altri, ovviamente. La mia era una famiglia non particolarmente preparata dal punto di vista culturale né umano ad affrontare un caso di cleptomania tra le mura domestiche. Da “bambino vivace” mi trasformai presto in “ladro”, reso ancor più ladro dal fatto di rubare quasi sempre cose di nessun valore. Quello che da ragazzino sentivo come un gioco nel quale venivo improvvisamente spinto da una forza intrinseca che, muovendo dai più svariati oggetti, si faceva insolentemente strada, e che poi da adulto decisi di vivere come un’alterata eccentricità, era agli occhi dei miei stessi familiari, prima ancora che degli estranei, un insulto al rispetto della proprietà, ancor più grave perché appariva “di principio”, giacché non rubavo per mangiare o per comprarmi la droga, ma solo per il gusto di farlo. E la maggior parte delle persone, nei confronti di piaceri o bisogni inspiegabili e a loro estranei si dimostra genet(r)icamente astemia. L’allontanamento dalla famiglia (con gran sollievo di tutti) per gli studi universitari arricchì la mia collezione di situazioni imbarazzanti, che finirono con l’isolarmi neppure tanto lentamente dalla maggior parte dei miei compagni. Con il tempo però migliorai: divenni più accorto. Inizialmente non mi prendevo neppure la briga di nascondere ciò di cui mi appropriavo. Il rapporto che instauravo con gli oggetti che prelevavo non era morboso come si può pensare; spesso non facevo nessun uso neanche di quelli utilizzabili, che finivano con il giacere insieme agli altri in un cassetto. Un po’ come si fa con i ricordi: ogni tanto li riguardavo, e mi capitava di non provare più alcun interesse per qualcuno di loro, ma più spesso, toccandoli, ricreavano qualcosa di non definito che mi ricollegava al momento in cui me ne ero impossessato. Costituivano nell’insieme, presi nel loro ordine – che maniacalmente tendevo a mantenere – una sorta di storia del mio subconscio. E per questo acquistavano con il tempo un certo fascino documentario che mi impediva definitivamente di sbarazzarmene. Feci generalmente in modo di non doverne parlare mai con nessuno: pur legandomi di tanto in tanto a qualche compagno più che ad altri, non arrivai mai a confidarmi totalmente. Con il passare del tempo finì per diventare intollerabile anche solo l’idea che qualcuno potesse o volesse riportarmi a vivere una vita per così dire “normale”, di superficie. Perché era questo in fondo che mi sembrava di fare tutte le volte che accadeva, appropriarmi di uno strato sottocutaneo della mia esistenza e portarlo alla luce, per poi riporlo accuratamente in un cassetto. Per questo non ho mai lavorato per più di un anno nello stesso posto, né mi fermo più di due anni nella stessa città. Vivo da nomade per salvaguardare una mania dalla quale chiunque potrebbe pensare di voler guarire. Mi dispiace, ho divagato mostruosamente.
Tornando alla storia, a parte i primi due giorni d’ospedale in cui ero in effetti un po’ malconcio, fui preso per così dire in simpatia da un’infermiera all’incirca mia coetanea, Diana appunto. Da quando la incontrai mi perseguitò la sensazione di averla ritirata fuori da qualche cassetto dimenticato della mia vita, e ora so che non era solo l’effetto dei sedativi. Ben presto cominciai a fare tentativi per impadronirmi di oggetti che in qualche modo le appartenessero. Era difficilissimo, dato che veniva spesso nella mia stanza, ma non per molto tempo, ed era sempre, per motivi professionali, molto presente a me e a se stessa. Preciso ciò che è ovvio solo per me: non era perché le sue cose fossero le sole con cui potevo venire in contatto, immobile come ero; non desideravo gli oggetti di nessun altro dei medici o degli infermieri. Solo ciò che lei toccava mi metteva a tratti una smania indicibile. Riuscii a prendere dal carrello di Diana tre batuffoli di ovatta imbevuti di alcool (non tutti in una volta, s’intende), la penna verde che portava nella tasca del camice all’altezza delle anche e un blister di medicinali a caso. Non potendo nasconderli meglio, li misi uno dopo l’altro nel piccolo cassetto del mio comodino ospedaliero. Non credo fosse una mia impressione, ma dal secondo o terzo “furto” (concedo questo termine solo alla vostra comprensione) cominciò a guardarmi più insistentemente, a volte con ansia, a volte con allegria, a volte con uno strano senso di spavento. Considerai come al solito la possibilità che avesse capito, ma stavolta la mia condizione mi rendeva assolutamente inerme. Di lì non sarei potuto fuggire tanto presto. Ed è stato un bene.
In ospedale occupavo una stanza da due letti momentaneamente da solo. Fu così che una notte tranquilla in cui Diana era di turno, contravvenendo credo a una manciata di regole, venne a trovarmi. Per la verità, il suo atteggiamento aveva subito un cambiamento graduale da quando la incontrai per la prima volta. Ero quasi sicuro che si fosse accorta della mia mania.
Entrò sulla scia di luce che si aprì con la porta ed esitò; per dirle che non dormivo accesi prontamente l’abatjour. Aveva i capelli raccolti in una crocchia rossa e spettinata, ma non priva di grazia. Il respiro leggermente alterato, si avvicinò, schiuse le mani e depose sulle coperte, all’altezza del mio addome, tre piccoli oggetti. Due erano miei: un gemello della camicia (annotazione che pare d’altri tempi, ma tant’è) e l’astuccio delle cuffiette della radiolina che la mia vicina di casa mi aveva fatto avere. Il terzo era un vecchio braccialetto d’argento un po’ ossidato di foggia maschile. Lo presi e lessi sulla fascetta centrale il nome del proprietario. Alzai gli occhi increduli su di lei. L’agnizione era compiuta. Guardò me, poi il vuoto, poi ancora me, poi ancora il vuoto, e prima di nascondere il viso tra le mani disse semplicemente: l’ho sposato.
Diana ripassò spesso quella notte, e mi raccontò a puntate una storia che in molti tratti era la mia. Gianni aveva scoperto solo dopo il matrimonio il problema di quella ragazza che io conobbi solo per pochi istanti e che era diventata sua moglie, e da allora le aveva reso la vita un inferno. Non sto a dirvi in quale modo meschino si comportò per umiliarla ogni volta che poteva e dinanzi a chiunque. Potete immaginare da voi lo strazio di una vita così. O forse mi illudo che possiate. Io potevo, comunque, giacché mi ero salvato tante volte da una sorte simile solo per un capello, e a prezzo di una vita di fuga e solitudine.
«Cosa farai adesso?»
«Non lo so ancora; prenderò un po’ di ferie. Mi cercherò un altro posto dove stare. Non lo so.»
«Puoi stare qui se vuoi. Ho una camera in più.»
Giocava stancamente con la tazzina, percorrendone il bordo con un dito.
Non mi guardava quando mi disse:
«C’è qualcosa che devi chiedermi, vero?» Pausa di silenzio; poi risposi:
«L’hai ucciso tu?»
«No. Non nel senso che intendi. In fondo si è ucciso da solo.»
«Mi basterà.»
Sono passati due anni da quel nostro dialogo. Vi scrivo da un computer portatile, oltre il quale vedo il giardino della mia casa, e più lontano alberi su un tappeto di foglie secche e di tanto in tanto la scia di qualche scoiattolo. La prossima casa è distante almeno dieci minuti a piedi da qui, l’Italia più di sei ore di aereo, Washington mezz’ora d’auto.
Rileggendo, mi accorgo di aver parlato troppo di me finora, e troppo poco di Diana, che volevo fosse la vera protagonista di questa storia. Questa parte finale è tutta per lei, giacché più e più volte volle tornare su quell’episodio della sua vita, e finì per raccontarmi i particolari presunti della morte di suo marito. In fondo, tutto quello che mi disse di sé, di ogni episodio della sua esistenza di cleptomane, era qualcosa che mi diceva di me, cosicché alla fine poco importa se ho parlato fin qui in prima persona. Tanto è vero che quello che lei fece fino a quel tragico giorno ora non so più se fu lei a farlo o fui io, dato che ottenne un riscatto per entrambi.
Era appena tornata da un week-end a Murano con suo marito Gianni.
Disfacendo le valigie si diede subito da fare per nascondere un vasetto di vetro soffiato chiuso da un tappo di sughero in fondo al cassetto della biancheria. Un miracolo: non si era rotto, deposto come era stato in fretta e in furia nella tasca interna della sua borsetta dopo essere stato prelevato in una fabbrica-esposizione di oggetti in vetro, come ce ne sono tante sull’isola. A Gianni piaceva molto portarla in luoghi pieni di cose, come mostre, supermercati, grandi esposizioni, e osservarla sadicamente per vedere se e come sarebbe riuscita a impadronirsi di qualcosa. Una volta a casa, prendeva teatralmente quello di cui lei si era appropriata per farlo in mille pezzi (se frangibile) e poi buttarlo via davanti ai suoi occhi – meglio se davanti anche a qualche altro paio di pupille, parenti o estranee che fossero – con un sorriso di fotoromanzato disprezzo. Stando così le cose da parecchio tempo, quella volta fu molto cauta con il vasetto. Riuscì a non farsi scoprire da Gianni, irritato con lei perché stavolta la refurtiva non compariva, e il fatto di aver ricondotto intatta a casa un’arma del delitto così fragile fu il segno del destino che aspettava. Molte persone pensano che il destino sia così pigro da attendere anni e anni prima di mettersi in moto, e quando alleluia si decide, cosa pensano che faccia? Si fa annunciare dal particolare più insignificante, stupido e casuale di un’intera esistenza.
Diana era una di queste persone. E infatti per lei, dopo quel week-end, la vita cambiò direzione. Il lunedì fui ricoverato in ospedale, con tutto quello che, come s’è detto, ne seguì. Il lunedì successivo Diana faceva nuovamente il turno di notte. Proprio quel giorno Gianni rincasò come al solito nel tardo pomeriggio, mentre Diana si preparava per andare al lavoro. Quello che si dissero non ha importanza. Quello che invece fece lei chiusa in bagno fu accertarsi che il tappo di sughero aderisse bene al vasetto di vetro. Poi trasse con una siringa alcune gocce di cianuro da una fialetta, forò con l’ago il tappo e le versò nell’ampolla. Tremava, gli occhi puntati su un’arma mortale costruita con i suoi abituali strumenti di lavoro e qualche sostanza reperibile con una facilità di cui lei stessa si era stupita, le orecchie che percepivano il più piccolo movimento di lui che si svestiva nella stanza adiacente. Aveva infatti consapevolmente scelto di preparare il tutto mentre Gianni si trovava a pochi passi da lei.
Ripeté la stessa operazione, stavolta iniettando nell’ampolla acido cloridrico fino a riempirla quasi tutta. Le chiesi spesso dove andò la sua mente in quei momenti. Mi rispose sempre la stessa cosa: pensava continuamente alla copertina del libro dove aveva letto qualche mese prima di quella miscela mortale. Era un libro sulla pena di morte. Era arancione, o forse no. Per quanti sforzi abbia fatto, non riuscì mai più a ricordarselo.
Curioso. Stai confezionando un’arma letale e ti fissi sulla copertina di un libro. La mente umana a volte percorre vie sterrate. Alla fine, uscendo disinvoltamente dal bagno, si chiuse il vasetto nella mano e andò in cucina. Lo ripose nel primo ripiano, accanto al sale, poi entrò nella stanza da letto per infilarsi il cappotto.
«La cena è pronta. Devi solo scaldare la frittata. Io vado.»
«Ciao.»
Lo uccise una telefonata. Diana arrivò in ospedale, passò a salutarmi e si trattenne qualche minuto. Poi tornò nella stanza delle infermiere, compose il numero di casa e parlò per l’ultima volta con il marito.
«Stai mangiando?»
«Non ancora. Sto scaldando la frittata.»
«Gianni, aggiungi il sale, ho dimenticato di metterlo.»
«Figurarsi se fai mai qualcosa di buono. Ci vediamo domattina allora, eh?»
Diana tornò spesso da me durante quella notte, trovandomi sempre sveglio o in dormiveglia, cosicché scambiavamo di tanto in tanto qualche parola. Ma più importante di quello che facemmo noi, fu quello che probabilmente fece Gianni dopo la telefonata. L’unico che può avere la certezza che le cose siano andate veramente così non può raccontarlo a nessuno, ma sia io che Diana non crediamo di sbagliarci di molto. E poi, dopo tanto parlare, la scena che sto per raccontarvi ha raggiunto dimensioni così concrete da essere comunque parte reale della nostra vita. Dopo la telefonata Gianni tornò in cucina e rivolse la sua attenzione al sale. Vide l’ampollina di Murano, o meglio, la prese tra le mani, la rigirò e la riconobbe come tale.
Fu ucciso da un attimo, un attimo prevedibile di trionfo. Eppure molte cose sarebbero potute andare diversamente. Sarebbe bastato che per una volta Gianni avesse avuto una reazione umana, non dico di comprensione o compassione, ma almeno umana; sarebbe bastato non fracassare con rabbia e – quel che è peggio – soddisfazione quel vasetto sul pavimento. Invece così ci vollero probabilmente pochi secondi perché il gas velenoso sprigionatosi dalla miscela facesse effetto. Avrebbe ucciso chiunque nel raggio di quei pochi metri quadrati. E il fornello acceso che bruciò post mortem per tutta la notte frittata e pentolino contribuì a camuffare l’odore pungente. E forse salvò la signora Ines. E intanto Diana continuava il suo andirivieni notturno in corsia, vegliando in cuor suo qualcosa che stava cambiando il suo destino, o forse no. Quella notte, tra una mia domanda e una sua risposta, tra un corridoio e l’altro, tutto e niente sarebbe potuto accadere. Diana aveva deciso solamente – così mi disse, e io le credo – che, se la mattina successiva rincasando avesse trovato ancora intatta l’ampollina, sarebbe stata lei a romperla. L’unica cosa che non avrebbe lasciato al caso sarebbe stata se romperla davanti a Gianni o da sola. Non so se Diana avesse già sciolto in cuor suo il dilemma durante quella notte, o magari nei giorni o nei mesi a venire.
Ora è in cucina, per preparare un pranzo vagamente americano. Le nostre porte qui non hanno chiave, e neppure i nostri cassetti.


 

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