La macchia gialla del Carro da Fieno si sollevava come una soffice pizza di formaggio sul brulichìo variopinto della calca paesana.
C’era una direzione, pensò Laura, una direzione non proprio orizzontale ma vagamente obliqua, nel Trittico, come se la folla fosse orientata, o spinta, e con essa lo sguardo dello spettatore, verso il pannello di destra, quello delle Costruzioni Infernali.
Si sorprese a pensare che – come sempre – il gruppo per lei più vistoso, nella composizione, era la scena dell’assassinio, ai piedi del carro: un uomo con un largo cappello di paglia che gli nascondeva il volto immobilizzava un altro uomo in camicia rossa e a braccia spalancate, e gli tagliava la gola. Si vedeva il sangue zampillare attorno alla lama triangolare. Il cappello di pelliccia della vittima era rotolato più in là, tra le stoppie dorate, e un bastone da viandante giaceva sotto il braccio destro del morente.
Laura spostò il peso del corpo da un piede all’altro. Maledette scarpe coi tacchi alti, non avrebbe dovuto metterle per lavorare. D’altra parte, la divisa era così monotona, che un tocco di femminilità non avrebbe potuto che migliorare tutto l’insieme, si disse, sistemandosi automaticamente i polsini della camicia d’ordinanza.
Il pannello, spalancato e protetto da una spessa teca di cristallo, antiproiettile, capeggiava al centro del salone. Lungo le pareti erano allineate le fotoriproduzioni e gli ingrandimenti dei particolari, prima e dopo il restauro.
Il Trittico, polverizzato in decine e decine di tessere, si allungava in una scia vertiginosa e variopinta tutt’intorno a se stesso, riflettendosi in una miriade di volti ghignanti, di sagome impossibili, di ibridi e mostri, meraviglie e grotteschi, in toni caldi e terrosi che trascoloravano piano piano, da sinistra verso destra – di nuovo – attraverso un tripudio di rossi e di gialli e di verdi, fino ai fiammeggianti orizzonti delle Costruzioni Infernali.
La conferenza introduttiva del professor Bronckhorst, ultimo e più autorevole restauratore del Trittico, appartenente ad una famiglia d’illustri studiosi dell’opera di Bosch, era stata densissima ed affascinante anche per orecchie profane come le sue, che era lì quasi per caso, in pratica solo perché le avevano affidato la supervisione del servizio di sicurezza del dipinto.
Il Professore aveva guidato per oltre due ore il suo fitto auditorio attraverso la straordinaria avventura del terzo Trittico del Fieno, di cui, da sempre, si favoleggiava in cataloghi ed inventari d’epoca, ma che non era mai stato possibile riconoscere tra la miriade delle imitazioni degli epigoni di Bosch e rimettere insieme.
’s-Hertogenbosch, durante gli scavi necessari per il prolungamento d’una fognatura.
La tavola centrale, in tutto identica a quella del Prado, e molto simile alla copia meno celebre dell’Escorial, era miracolosamente integra, avvolta in uno spesso imballaggio di cartapecora e guttaperca, che l’aveva perfettamente preservata dalla umidità. Gli sportelli, spezzati, giacevano in fondo ad un bauletto piombato, in mezzo ad un ammasso di cenci macchiati che avevano resistito ben poco dopo l’esposizione all’aria e alla luce. Le due tavole erano molto rovinate, aggredite com’erano da muffe e fungosità, tuttavia, anche attraverso le macchie e le offese del tempo, era possibile riconoscere le linee fantastiche delle consuete produzioni del Maestro, i suoi colori, la decisione minuziosa dei contorni, il brulichìo delle figure… l’attribuzione degli olii a Hieronymus Bosch era stata quasi immediata, ed unanime. Il restauro – affidato al professor
Bronckhorst, che per primo aveva intuito la straordinaria paternità dei dipinti – aveva richiesto più di dodici anni, e solo ora era possibile ammirare, nella sua integrità, il
Trittico.
La pala di destra, in particolare, aveva spiegato Bronckhorst, aveva richiesto – da sola – tre anni di lavoro, tre anni passati a ricollegare le schegge di legno frantumate, a ricostruire la continuità delle linee, a giustapporre le scaglie di colore, ad allontanare, ad una ad una, le barbe voraci degli implacabili miceli…
Laura sorrise: sì, aveva detto proprio così, il professore, nel suo italiano duro e scoppiettante di fiammingo, “le barbe voraci degli implacabili miceli”, ma adesso il Trittico era lì, splendido ed enigmatico, nella sua corazza di cristallo e, anche se s’ignorava il significato allegorico della composizione,
“personalmente” Bronckhorst condivideva l’ipotesi che le tavole s’ispirassero ad un Salmo di Davide, che paragona la vicenda umana all’effimera giornata d’un fragile stelo d’erba. Forse, suggeriva l’Olandese – ma qui i ricordi di Laura si facevano confusi – il pittore aveva tenuto conto anche del significato simbolico di alcune carte dei
Tarocchi, il Carro, certo, ma, chinandosi un po’ verso il margine inferiore della pala centrale, proprio sotto le sagome dell’assassino e della sua vittima, a lei sembrava di riconoscere anche il panchetto affollato d’oggetti e la sagoma bizzarra d’un Bagatto.
Laura inforcò gli occhiali e s’accostò alla vetrina.
«Straordinario, vero?» disse una voce dietro di lei, una voce bassa e vellutata, ma anche curiosamente aspra, che la fece trasalire.
La sagoma dell’esile uomo canuto, alle sue spalle, si rifletteva sul cristallo, disegnando un confine tortuoso attorno alla scena del delitto e al suo Bagatto incappucciato di rosso.
«Professor Bronckhorst, è ancora qui?» domandò Laura, voltandosi. La sala si stava vuotando degli ultimi visitatori, ed i guardiani accompagnavano i ritardatari verso le uscite. L’uomo sorrise: «È difficile stare lontani da un proprio figlio» rispose «e da un figlio così splendido, in particolare, non crede?». Laura annuì. Avevano familiarizzato, durante la messa a punto del sistema di sicurezza per il Trittico e a lei, che era solo una specialista di sistemi elettronici, il mondo del professore, brulicante di mostri e di fantasia, era sembrato subito incredibilmente invitante. Anche il professore, così appassionato e totalmente assorbito dal suo lavoro, le era sembrato un uomo interessante. Un entusiasta soprattutto.
«Ho pensato spesso» disse Bronckhorst, guardando il Trittico «che la pittura di Bosch potrebbe funzionare come una minuziosissima serie di tavole di Rorschach. Ognuno tende a vederci qualcosa di diverso, e non ho mai trovato nessuno in grado di descrivere con esattezza i suoi ibridi, questi uomini lucertola, ad esempio, o, guardi lì in alto, quelle sagome alate che potrebbero essere insetti o pesci o rettili volanti, e magari sono solo fiori o pietre… sa che ci sono dei critici che si sono presi la briga di catalogarli e descriverli uno per uno?»
«Come le piante d’un erbario» osservò Laura. Poi, dopo un momento di silenzio imbarazzato: «Io credo che Bosch, in queste tavole, abbia semplicemente voluto raccontare una storia» azzardò «una storia complessa e terribile, alla quale aveva assistito, o di cui era venuto a conoscenza, in qualche modo. Forse una storia che lo riguardava direttamente».
Il professore la fissò per un momento, con espressione indecifrabile.
«Il De Guevara lo riteneva infatti un grande pittore naturalistico» disse lentamente.
«Forse» continuò Laura sorridendo «questa è una conferma a quanto diceva poco fa: ognuno vede nei suoi dipinti quello che vuole o può vedere».
«E lei, che è un poliziotto, non può vedere altro che…» Bronckhorst si fermò, come se la parola gli ripugnasse.
«Un delitto.» completò Laura «Un delitto perfettamente ricostruibile».
«Sono solo figure allegoriche, da inscrivere in un certo gusto dell’epoca» asserì il professore cortese ma – così sembrò a Laura – con una punta d’asprezza nella voce.
La ragazza girò dietro alla vetrina, ed invitò con un gesto l’Olandese a seguirla: «Ecco il protagonista del nostro giallo» cominciò, in tono spiritoso. «Un giorno, era un giorno d’estate o di primavera inoltrata,
Hieronymus assiste per caso a un delitto. Forse è proprio lui il viandante raffigurato sugli sportelli esterni del Trittico. Bene, mentre attraversa la campagna attorno a
’s-Hertogenbosch… ecco, vede, c’è una forca sulla collina alle spalle del viandante, e persino una ruota… se ricordo bene dai miei studi di storia del diritto penale, queste colline del supplizio erano alle porte delle città, non in aperta campagna, perché servissero di monito ai ma lintenzionati che arrivavano da fuori…». Laura completò il suo giro e tornò davanti alle tavole. «Insomma, Hieronymus, subito fuori del paese, vede due uomini lottare e rotolarsi tra le stoppie d’un campo appena falciato.
All’improvviso, uno dei due estrae un coltello, e taglia la gola a quel l’altro. Poi si rialza, e Hieronymus ha paura. Perché l’assassino, l’uomo col cappello di paglia, non è un viandante o un contadino qualsiasi, come i suoi abiti potrebbero far pensare, ma una persona che Hieronymus conosce.
Magari un notabile della zona, o un suo protettore, forse un affiliato alla sua stessa Confraternita. Hieronyrnus sa, ma non può parlare. Un innocente viene accusato del delitto, un poveraccio qualunque, trascinato via dai birri, imprigionato e torturato, finché non confessa anche ciò che non sa.»
Laura tacque per un istante, divertita al pensiero di cimentarsi in quel gioco bizzarro, a caccia di tracce impalpabili confuse nella congerie di sagome e d’oggetti, ciotole, bastoni, scale e ruote e berretti, porcelli e bambini, frati grassi e pesci con le zampe, scimmie, contadini, papi, mendicanti, ladri e re, come in una filastrocca infantile.
«Come vede, siamo arrivati alla terza tavola, alle Costruzioni Infernali» annunciò, con buffa solennità. «Tutto l’insieme delle figure tende verso questa parte del Trittico, ne conviene?»
Bronckhorst la fissava, serio. Si teneva un po’ scostato da lei, con le mani incrociate sul petto. Aveva un grosso anello, nell’anulare della sinistra, osservò automaticamente Laura, un anello a sigillo dall’aspetto antico, d’argento o di ferro brunito, che lei non aveva notato prima.
«Voi italiani siete molto fantasiosi» disse finalmente l’uomo, a bassa voce.
Laura si strinse nelle spalle, delusa. Chissà perché, era convinta che il professore si sarebbe divertito, che avrebbe condiviso il suo entusiasmo di segugio. Invece, sembrava soprattutto seccato.
«Lei stesso ha detto che della vita di Bosch si sa pochissimo, che non si conosce praticamente nulla dei suoi committenti e che non esistono lettere autografe o diari, nulla, insomma, che permetta di ricostruire i casi della sua esistenza reale. Perciò, non trovo particolarmente sconveniente passeggiare un po’ con la fantasia in uno dei suoi dipinti» osservò, un tantino sostenuta.
Il Professore sorrise, bonario.
«Come finisce, il suo “thriller”?» chiese.
Laura si voltò verso la tavola delle Costruzioni Infernali.
«Ecco l’assassino» dichiarò.
Bronckhorst seguì la direzione del dito della ragazza.
Ai margini della torre in costruzione, una figura bruna col viso nascosto da un tondo cappello di paglia stava chinata su una tinozza, apparentemente intenta a raccogliere della calce con una cazzuola. Tutt’intorno, ferveva l’attività dei demoni, e i dannati s’incamminavano verso le oscure profondità della costruzione. C’era persino un diavolino nero, in bilico su una specie di trespolo, intento a sorvegliare un verricello. Oppure a sistemare un filo a piombo, chi sa?
«Certo, l’analogia è sorprendente» convenne Bronckhorst, cauto. L’assassino con la lama e il muratore con la cazzuola erano identici, stesso il cappello, stesso il grembiule chiaro stretto attorno alle reni, identico il colore bruno delle braccia, coperte da una camicia nella prima figura, nude e livide nel secondo personaggio.
«Come spiega questo?» domandò finalmente.
Laura lo guardò, sorpresa. Che il professore avesse deciso di stare al gioco?
«Non so. Forse Hieronymus cominciava a provare dei rimorsi per la sua viltà che aveva portato un innocente al patibolo. Forse era malato e sentiva avvicinare il momento in cui sarebbe entrato nella torre con tutti gli altri dannati. Quella torre che l’assassino, la cifra del suo segreto, stava costruendo per lui, cementandola col suo silenzio. Rimorso, misticismo, forse follia…» Laura tacque per un momento.
«O forse, più semplicemente, Bosch era ancora sotto l’influenza dell’altro, soprattutto se, come penso, si trattava d’un nobile o d’un notabile di ’s-Hertogenbosch».
«Molto interessante» ammise Bronckhorst «quindi, secondo lei, l’artista, per alleggerirsi comunque la coscienza, avrebbe consegnato il suo segreto al Trittico in una specie di confessione pittorica. Un diario sceneggiato degli avvenimenti cui aveva assistito».
Laura ridacchiò: «Già, una specie di “Finestra sul cortile” fiamminga».
Il professore annuì, con espressione sibillina.
«E il movente? Ha dipinto anche quello?»
La sua interlocutrice rimase per un momento perplessa. Poi, trionfante, indicò il primo pannello.
«Il peccato originale» disse «Sesso. Insomma, il movente più elementare ed antico del mondo. La gelosia. L’assassino deve aver sorpreso la sua donna con l’altro e, per non esporre lei e se stesso alla pubblica vergogna…»
Bronckhorst l’interruppe, brusco:
«Ma, in realtà, Bosch non ha dipinto il volto del suo assassino. Penso che lei non possa che convenire su questo punto». Laura osservò le tavole in silenzio, per qualche minuto. Sentiva lo sguardo attento di
Bronckhorst seguire i suoi movimenti con (come dire?) una sorta d’attenzione sospesa e partecipe, come lo sguardo d’uno spettatore che osserva le evoluzioni d’un trapezista spericolato che volteggia senza rete. Scosse il capo, delusa.
«È impossibile, in questa folla di visi. Potrebbe essere chiunque.
Hieronymus potrebbe averlo segnato in qualche modo, che so, disegnandogli addosso un rospo o un ramarro, o indicandolo attraverso una qualunque particolarità dell’abito… ma è impossibile dirlo con certezza». Poi, sorridendo: «Sa che se avessimo un programma completo sui lavori di
Bosch da inserire in un computer, potremmo localizzarlo, utilizzando le analogie con queste due figure?» Il professore rimase per un istante immobile, come se volesse aggiungere qualcosa, o ribattere, chissà.
«E magari ci troveremmo di nuovo di fronte ad un personaggio col viso nascosto» aggiunse mestamente Laura.
In quel momento, uno dei guardiani di notte s’affacciò sulla porta della sala, e cominciò a spegnere le luci.
«Venga, usciamo» disse la ragazza, facendo un cenno al professore.
Bronckhorst rimase a guardarla mentre, con gesti sicuri, innescava il sistema d’allarme elettronico, sulla porta della grande stanza silenziosa.
La luce azzurrata delle lampade di sicurezza conferiva tonalità lapidee ai putti obesi che si sporgevano, lungo il soffitto, per indicarsi il terzo
Trittico del Fieno. Il più antico, il più enigmatico e pericoloso dei tre.
Il professore sorrise, nell’oscurità: Laura aveva notato quasi tutto di ciò che c’era da vedere nelle tre tavole, dando prova d’una capacità d’osservazione e d’una abilità, nei collegamenti tra le singole figure e i gruppi, assolutamente fuori del comune, soprattutto in un profano.
Non era stato solo un esercizio di pura fantasia, giocato lungo i nodi di alcuni particolari concreti, visibili a tutti. Lui lo sapeva bene.
Ciò che Laura non poteva immaginare – ciò che nessuno avrebbe saputo mai – era che il restauro aveva richiesto un’abilità del tutto particolare, da parte sua.
L’Olanda pullulava di restauratori, e c’erano molti Bronckhorst, ma solo lui era l’ultimo di “quei” Bronckhorst, l’ultimo dei grandi committenti di Bosch, l’ultimo dei guardiani, perché la vergogna di
Agnese, così sfrontatamente dipinta nelle forme di Eva, all’interno del primo sportello del Trittico, potesse rimanere celata per sempre.
Da generazioni, “loro”, si tramandavano il compito di sorvegliare che il segreto rimanesse accuratamente mimetizzato nella miriade di sagome mostruose, d’oggetti bizzarri e di animali impossibili. Nessuno, nessuno avrebbe dovuto sospettare, mai.
Le cose erano andate davvero come aveva ipotizzato la sua graziosa interlocutrice, e il vecchio pittore aveva taciuto per sempre, mantenendo i consueti rapporti di lavoro con l’assassino, come testimoniava il Complesso dell’Epifania, dipinto alcuni anni più tardi, e donato da Agnese Bosshuyse e da suo marito Pietro Bronckhorst alla Cappella della Dolce Madre di ’s-Hertogenbosch.
Anche in quel Trittico il pittore s’era raffigurato, nei panni di San
Giuseppe che scalda i pannolini del Bambino davanti ad un fuocherello, ed un attento osservatore dell’opera di Bosch non avrebbe potuto esimersi dal notare la sorprendente somiglianza tra quell’uomo velato dall’espressione mesta e colpevole, che si volta a guardare Pietro Bronckhorst, e il pellegrino macilento ritratto sugli sportelli del Trittico del Fieno.
Bronckhorst amava particolarmente la pala dell’Epifania: il donatore vi era raffigurato nella piena maturità, accanto allo stemma e al motto di famiglia, “Een Voer Al”. Suo padre, tramandandogli quella storia ed i segreti del mestiere, gli aveva spesso fatto notare quanto lui stesso assomigliasse al suo trisavolo Pietro, identico il lungo viso solenne, i capelli chiari, l’espressione murata…
Laura si fermò per salutarlo, sulla gradinata del Museo. Ancora due giorni, poi il Trittico avrebbe proseguito, nella sua mostra itinerante, verso
Atene, lontano dagli occhietti aguzzi di quella ragazza in divisa.
Peccato che non conoscesse meglio le opere del Maestro, pensò Bronckhorst, con un fremito di soddisfatto sollievo. Una capacità di guardare come la sua avrebbe meritato un premio. Sì, avrebbe meritato di sapere il resto.
«Spero che non si sia offeso per le mie… fantasie» disse
Laura, tendendogli la mano.
Era graziosa anche con gli occhiali, pensò il professore, ma avrebbe dovuto farsi crescere un po’ i capelli.
Agnese li aveva lunghi e bellissimi, d’una splendida sfumatura di rosso.
«No, certo» rispose, e si chinò per baciarle una mano.
«Il suo anello è molto interessante» osservò Laura «È un sigillo, vero?»
Bronckhorst se lo sfilò, compiaciuto, perché potesse ammirarlo meglio. Era quasi buio, ormai, e Laura fece fatica a decifrare i caratteri gotici incisi attorno al castone.
«‘E…en Voer… Al’. Che cosa significa?» domandò, rendendo il gioiello.
Il professore pensò a quanto aveva faticato per cancellare quelle stesse parole, dipinte in netti caratteri gotici nel pannello delle Costruzioni
Infernali, sul bordo interno della tinozza dalla quale l’uomo col viso nascosto dal cappello giallo sembra attingere calce o sabbia con una cazzuola. Sì, era stato un restauro davvero molto laborioso.
«‘Uno per tutti’» rispose «Si riferisce a Dio. E anche allo spirito di solidarietà familiare» spiegò. «Ho scovato quest’anello da un rigattiere di Harlem» aggiunse in fretta.
E quanto gli era costato trasformare in sabbia il contenuto di quella tinozza!
Perché, dopotutto, Hieronymus era riuscito davvero a dipingere il volto dell’assassino, il viso di Pietro Bronckhorst. Il “suo” viso.
Era riflesso nell’acqua della tinozza, sulla quale l’uomo dal cappello giallo si china per lavare l’arma del delitto.
Nessun commento:
Posta un commento