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lunedì 4 marzo 2024

Lev Nikolaevic Tolstoj: Confessione


Sono stato battezzato e educato nella fede cristiana ortodossa. Me la insegnarono fino dall'infanzia e durante tutto il periodo della adolescenza e della prima giovinezza. Ma quando, a diciotto anni, abbandonai l'università al secondo corso, io non credevo ormai più a nulla di quello che mi avevano insegnato.

A giudicare da alcuni ricordi, non ho neanche mai creduto seriamente, avevo soltanto fiducia in quello che mi insegnavano e in quello che professavano davanti a me i grandi; però quella fiducia era molto vacillante.

Quando avevo undici anni, un ragazzo, che è morto da molto tempo, Volondin'ka M., il quale studiava in un ginnasio, venendo a passare una domenica da noi ci annunziò, come ultima novità, la scoperta che aveva fatto al ginnasio. La scoperta consisteva in questo, che Dio non c'è e che tutto quel che ci insegnano non sono altro che frottole (questo accadeva nel 1838). Ricordo che i miei fratelli maggiori si interessarono a questa novità e chiamarono a consulto anche me. Noi tutti, ricordo, ci animammo molto e accogliemmo questa notizia come qualcosa di molto interessante e di possibilissimo.

Ricordo anche che, quando mio fratello maggiore Dimitrij, mentre era studente all'università, improvvisamente, con la passionalità propria della sua natura, abbracciò la fede e cominciò ad assistere a tutti i servizi divini, a digiunare, a condurre una vita pura e morale, noi tutti, e anche i più anziani, in continuazione lo mettevamo in ridicolo e, chi sa poi perché, lo soprannominammo Noè.

Ricordo come Musin-Puskin, allora curatore dell'università di Kazan', avendoci invitati a casa sua a ballare, beffardamente cercasse di convincere mio fratello, che si rifiutava, con l'argomento che anche David aveva danzato dinnanzi all'arca. Io simpatizzavo allora con questi scherzi dei più anziani e ne traevo la seguente conclusione: studiare il catechismo è necessario, andare in chiesa è necessario, ma non bisogna prendere tutto ciò troppo sul serio. Ricordo ancora che, molto giovane, leggevo Voltaire e che le sue irrisioni non solo non mi ripugnavano, ma anzi mi divertivano molto.

Il mio distacco dalla fede avvenne in me così come avveniva ed avviene ora nelle persone del nostro tipo di cultura. Esso, mi sembra, nella maggioranza dei casi avviene così: gli uomini vivono come vivono tutti, e tutti vivono fondandosi su princìpi che non solo non hanno nulla in comune con la dottrina della fede, ma che per lo più sono contrari ad essa; la dottrina della fede non ha una sua parte nella vita, e nelle relazioni con le altre persone non accade mai di imbattersi in essa, così come nella nostra vita non ci accade mai di consultarla; la dottrina della fede viene professata in un qualche luogo, lontano dalla vita e indipendentemente da essa. Se ci troviamo ad avere a che fare con essa, è soltanto come con un fenomeno esterno, non collegato con la vita.

Dalla vita di un uomo, dalle sue azioni, oggi come anche allora, non si può in alcun modo venire a sapere se egli è credente o no. Seppure vi è una differenza tra coloro che manifestamente professano l'ortodossia e coloro che la negano, essa non è certo a favore dei primi. Come oggi anche allora la dichiarata accettazione e professione dell'ortodossia per lo più si riscontrava in persone ottuse, crudeli e immorali, e che si ritenevano molto importanti. Mentre l'intelligenza, l'onestà, la rettitudine, la coscienza morale per lo più si incontravano in persone che si riconoscevano non credenti.

Nelle scuole insegnano il catechismo e mandano gli allievi in chiesa: ai funzionari chiedono attestati di frequenza alla comunione. Ma un uomo della nostra cerchia che non studia più, e che non si trova a prestar servizio statale, anche oggi, ma ancor più in passato poteva aver vissuto decine d'anni senza ricordarsi neppure una volta di vivere in mezzo a dei cristiani e di essere egli stesso considerato uno che professa la fede cristiana ortodossa.

E' così che oggi, come in passato, la dottrina della fede, accettata sulla fiducia e sostenuta da pressione esterna, a poco a poco si esaurisce sotto l'influenza di conoscenze e di esperienze di vita antitetiche alla dottrina stessa, e un uomo molto spesso vive a lungo immaginandosi che sia integra in lui quella dottrina della fede che gli è stata comunicata fin dall'infanzia, mentre da tempo non ve n'è più alcuna traccia.

S., uomo intelligente e sincero, mi raccontava come smise di credere. Aveva ormai circa ventisei anni quando, trovandosi a caccia, accampato per la notte, secondo la vecchia abitudine presa fin dall'infanzia, la sera si inginocchiò per la preghiera. Il fratello maggiore che si trovava a caccia con lui se ne stava sdraiato sul fieno e lo guardava. Quando S. ebbe finito e si accinse a coricarsi suo fratello gli disse: "Ma tu lo fai ancora?". Ed essi non si dissero nient'altro. S. da quel giorno smise di genuflettersi a pregare e di andare in chiesa. E sono ormai trent'anni che non prega, non si comunica e non va in chiesa. E ciò non perché egli conoscesse quali fossero le convinzioni di suo fratello e fosse d'accordo con lui, non perché egli avesse deciso qualcosa in cuor suo, ma soltanto perché la parola detta dal fratello era stata come la spinta data con un dito a un muro che era già pronto a crollare per il suo stesso peso; quella parola era stata il segnale del fatto che là dove egli credeva che fosse la fede da tempo ormai c'era un posto vuoto, e perciò le parole che diceva e i segni della croce e le genuflessioni che egli faceva mentre pregava erano atti del tutto privi di senso. Avendone riconosciuta l'insensatezza egli non poteva continuare a compierli.

Così è potuto accadere e accade, penso, alla stragrande maggioranza degli uomini. Parlo delle persone del nostro tipo di cultura, parlo delle persone sincere con se stesse e non di coloro che dell'oggetto stesso della fede si fanno un mezzo per raggiungere dei fini transitori, quali che essi siano. (Queste persone sono i più radicali non credenti, poiché, se per loro la fede è un mezzo per raggiungere un qualsivoglia scopo di vita, essa davvero non è più fede). Queste persone del nostro tipo di cultura si trovano in una posizione in cui la luce del sapere e della vita ha fatto crollare un edificio fittizio, sia che esse se ne siano già accorte ed abbiano lasciato libero quel posto, sia che non se ne siano ancora accorte.

La dottrina della fede che mi era stata insegnata fin dall'infanzia è scomparsa in me, così come negli altri, con l'unica differenza che, siccome avevo cominciato molto presto a leggere e a pensare, il mio rifiuto della dottrina e della fede assai presto divenne cosciente. Fin dall'età di sedici anni avevo smesso di inginocchiarmi per la preghiera, e avevo smesso di andare in chiesa per mia iniziativa e di digiunare. Cessai di credere in quello che mi era stato insegnato sin dall'infanzia, ma in qualche cosa credevo.

In che cosa credevo non avrei potuto assolutamente dirlo. Credevo anche in Dio o, più semplicemente, non negavo Dio ma in quale Dio non avrei potuto dirlo; io non negavo neppure Cristo né il suo insegnamento ma in che cosa consistesse il suo insegnamento, anche questo non avrei potuto dirlo.

Oggi, ricordando quel tempo, vedo chiaramente che la mia fede - ciò che all'infuori degli istinti animali muoveva la mia vita - l'unica autentica mia fede in quel tempo era la fede nel perfezionamento. Ma in che cosa consistesse il perfezionamento e quale fosse il suo fine, non avrei potuto dirlo. Io mi sforzavo di perfezionarmi intellettualmente, imparavo tutto quel che potevo, tutto quello verso cui la vita mi spingeva; mi sforzavo di perfezionare la mia volontà: mi ero compilato delle regole che mi sforzavo di seguire; mi perfezionavo fisicamente, esercitando la forza e la destrezza con ogni specie di attività e allenandomi alla resistenza e alla pazienza con privazioni di ogni specie. E tutto ciò io lo consideravo perfezionamento. L'inizio di tutto era stato, si capisce, il perfezionamento morale, ma presto era stato sostituito dal perfezionamento in generale, cioè dal desiderio di essere migliore non dinnanzi a me stesso o dinnanzi a Dio, bensì dal desiderio di essere migliore dinnanzi agli altri uomini. E molto presto questa aspirazione ad essere migliore dinnanzi agli uomini fu sostituita dal desiderio di essere più forte degli altri uomini, cioè più celebre, più importante, più ricco degli altri. 

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