Il sospetto, sordo e inespresso, aleggiava nell’aria della polverosa stanza d’ufficio al quarto piano di un’anonima palazzina della Wagnerstrasse.
A dire la verità, la stanza era polverosa solo a metà: la scrivania occupata da Alexander Dreske e gli scaffali dove teneva le sue carte erano nitidi, tersi e perfettamente in ordine. Proprio come lui. Dreske detestava la trasandatezza e il disordine in ogni loro manifestazione, e soprattutto li detestava quando si incarnavano in Thomas Boll, suo collega e compagno di stanza.
Anche oggi Boll era in ritardo, o meglio, anche oggi Dreske era arrivato in ufficio per primo. Alzarsi presto la mattina non gli costava nessuno sforzo e con quei dieci minuti di anticipo si prefiggeva di raggiungere due obiettivi. Il primo era quello di mostrarsi solerte all’insonne Herbert Wenders, il capo, che nessuno aveva mai visto arrivare in ufficio per la semplice ragione che arrivava sempre prima lui. Il secondo obiettivo, quello che gli dava più tensione e più eccitazione, era di smascherare, prove alla mano, il suo collega Boll come traditore.
La prima regola di un agente di controspionaggio è quella di non lasciare mai nulla di compromettente in giro, ed anche Boll doveva certo averla assimilata, ma Dreske confidava nella sua trascuratezza. Secondo lui, un uomo che non sapeva mai dove aveva lasciato la pipa, che lavorava in un inverosimile disordine di appunti e che non aveva mai la riga dei pantaloni stirata doveva, prima o poi, fare un passo falso. Era nell’ordine delle cose.
Si avvicinò alla scrivania di Boll, fece una piccola smorfia di disgusto e si accinse a passare al setaccio tutte le sue carte. Lo fece con abilità e sveltezza, applicando ogni trucco conosciuto per non lasciare tracce: era un professionista. Non trovò nulla e tornò alla sua scrivania. Non era seccato, sapeva che si trattava solo di una questione di tempo. Era sicuro che, prima o poi, Boll avrebbe fatto un passo falso, avrebbe commesso una dimenticanza. E allora lui l’avrebbe accusato, smascherato, inchiodato al muro. Odiava i traditori. Qualunque tipo di traditore: quello che confessava sotto tortura, quello che tradiva per motivi “ideologici” e, soprattutto, quello che vendeva la sua patria per denaro. E
Boll doveva certamente appartenere a quest’ultima specie.
Sentì dei passi strascicati lungo il corridoio e si barricò dietro al giornale, in tempo per non vedere con quanta negligenza Boll gettasse l’impermeabile sulla sedia.
«Buon giorno, Dreske. Che fai, controlli quanto hai guadagnato in borsa?»
Dreske non si diede neanche la pena di rispondergli. Quando erano stati appena trasferiti nella stessa stanza aveva fatto lo sbaglio di raccontargli che investiva i suoi risparmi in borsa. Si trattava di poche migliaia di marchi perché lo stipendio non era granché e lui aveva una famiglia da mantenere, ma giocare in borsa quel piccolo gruzzolo gli dava l’impressione di avere mezzi più consistenti.
Ma, invece di apprezzare la confidenza, Boll aveva cominciato a prenderlo in giro. Era facile per lui: sembrava che lo stipendio gli servisse solo a comprare il tabacco per la pipa e ad offrire alle ragazze cene in ristoranti eleganti. Anche per questo Dreske aveva cominciato a sospettare: gli sembrava quantomeno strano che Boll avesse una riserva inesauribile di vecchie zie e lontani cugini che morivano lasciandogli piccole eredità, come diceva lui.
Guardò l’orologio, vide che erano le otto e mezzo in punto, afferrò un pacco di fascicoli impeccabilmente impilati sullo scaffale, si lisciò la giacca e uscì per andare a fare la sua relazione quotidiana a Herbert Wenders, il capo.
Boll rimase a fissare la sedia vuota. L’aria scanzonata con la quale era entrato nella stanza scomparve. Era perplesso, o meglio, preoccupato, molto preoccupato. Aveva notato che le sue carte venivano perquisite, e da mani estremamente esperte. Da qualche giorno ne aveva anche la certezza. La cerchia dei sospetti si restringeva ad uno solo: Dreske. Solo lui aveva l’altra chiave del loro ufficio. La donna delle pulizie, per regolamento, lavorava solo quando almeno uno di loro due era presente.
Dreske, quindi. Il rigido e solerte Dreske spiava tra le sue carte. Non ci poteva essere che un motivo: faceva il doppio gioco, tradiva. Per tutta la vita Boll aveva diffidato dei tipi troppo impettiti e troppo pignoli: era convinto che si creassero quelle stupide costrizioni di comportamento perché non avevano un ordine interiore, qualcosa veramente serio che li guidasse nella vita. Ma si era sempre detto che il suo era un pregiudizio intollerante, costruito per mascherare un puro e semplice fastidio. Così si era sempre piccato di trattare quel genere di persone anche meglio degli altri. Specialmente Dreske, che era il più insopportabile di tutti.
E invece, evidentemente, il suo istinto aveva ragione. Dreske spiava e quindi tradiva. Era disgustoso, ma era così. Bisognava smascherarlo, ma come? Non poteva certo andare da Herbert Wenders a confidargli i suoi sospetti! Wenders se lo sarebbe mangiato vivo. A suo modo, naturalmente.
Avrebbe schiacciato la sigaretta nel portacenere zeppo di cicche e alzato su di lui l’azzurro sguardo gelido per cui era famoso tra i suoi e tristemente famoso tra gli altri. Poi l’avrebbe fissato per un minuto buono mentre lui non avrebbe potuto fare a meno di muovere i piedi a disagio, ritto davanti alla sua scrivania.
«La mia sezione è costituita dagli uomini migliori» avrebbe sibilato. «Non sopporto insinuazioni. Sono perniciose. Se avete qualche accusa seria sul vostro collega tornate, con le prove del suo tradimento. Siete un agente capace, se ci sono le troverete.» E lo avrebbe liquidato con un brusco cenno del capo.
Tutti sapevano quanto Wenders fosse fanaticamente orgoglioso del suo metodo, della sua sezione e dei suoi uomini.
No, non poteva certo andare da lui. Doveva sbrigarsela da solo, in un modo o nell’altro. Intanto doveva anche portare avanti il suo lavoro, e alla svelta, perché i tempi stringevano. Il documento che aveva costruito era perfetto: anche Wenders aveva detto che conteneva l’esatta proporzione di verità interessante e di falsità fuorviante. Ma il suo capolavoro era stato scegliere il contatto giusto e pescarlo all’amo dandogli l’impressione di essere lui, il pescatore. O meglio lei, la deliziosa Hanna, falsa tedesca dell’ovest, falsa studentessa di architettura e falsa innamorata. Quella sera, come prova d’amore, le avrebbe dato il documento. Hanna sarebbe stata un perfetto, e piacevole, veicolo di disinformazione.
Dreske tornò, scuro in viso come sempre, dal suo rapporto al capo. Boll lo guardò celando perfettamente i propri sospetti dietro un cordiale sorriso e pensò all’improvviso che quell’uomo poteva tornargli utile. Ma certo! Avrebbe fatto in modo che anche Dreske entrasse in possesso del documento di disinformazione. Se era innocente tutto restava com’era, ma se era colpevole, allora il documento, arrivando da due fonti diverse, sarebbe apparso assolutamente insospettabile. La sua macchinazione fu elementare, ma efficace. Fece una fotocopia e finse di dimenticare l’originale nella macchina. Un quarto d’ora dopo Dreske tornò dalla fotocopiatrice in fondo al corridoio e gli porse l’originale con un commento malevolo sulla sua sbadataggine. Boll fu sicuro che ne avesse fatta una copia per sé.
Aveva ragione. Ad una prima scorsa Dreske aveva pensato che quel documento, di cui lui non sapeva nulla, era interessante, ma che ancor più interessante sarebbe stato scoprire perché Boll se ne era messa una copia in tasca. Decise che quella sera l’avrebbe pedinato. Era un tipo preciso: l’avrebbe denunciato solo quando avesse avuto in mano delle prove concrete. Non voleva certo correre il rischio di bruciare con una falsa accusa la promozione che aspettava invano da mesi.
Lo pedinò dal barbiere, dal fioraio e fino ad una palazzina modesta, ma con portiere, nei pressi dell’università. Rimase in macchina lì davanti per tutta la notte, sveglio anche dopo che, verso le due, l’ultima luce si spense. Verso l’alba si appuntò i nomi di tutti gli inquilini e rimase perplesso quando vide che ce n’era uno che gli sembrava familiare. Quindi si rimise in macchina ad attendere. Il mattino dopo era domenica. Fu solo quando li vide uscire in tuta da ginnastica che quel cognome familiare fu all’improvviso corredato di un nome e di un volto: Hanna Biberkoph, una spia dell’est che lui stesso aveva identificato. Pensò soddisfatto che Boll si era rovinato con le proprie mani, per presunzione e per trasandatezza, difetti che lui gli aveva sempre rimproverato.
Wenders non staccò neppure per un attimo gli occhi da Dreske mentre ripiegava minuziosamente il documento che questi gli aveva portato come prova del tradimento di Boll.
«Volete dire che avete sorvegliato la casa di Hanna Biberkoph per tutta la notte?» gli chiese scandendo le parole ad una ad una.
«Sì» rispose Dreske, improvvisamente a disagio.
«E non sapete che anche il portiere di quello stabile è una spia dell’est?»
«Cosa c’entra il portiere?» balbettò Dreske, disorientato.
«C’entra, invece!» urlò Wenders. «Avrà certamente notato il vostro puerile pedinamento. Siete un irresponsabile, un imbecille! Con la vostra idiozia avete rovinato mesi di lavoro. Boll è bruciato, ormai.»
Tutto il mondo di certezze di Dreske sembrò crollargli addosso all’improvviso.
Ci fu un’inchiesta. Per poco Boll, furioso, non convinse tutti che Dreske era un traditore e che per questo aveva fatto in modo di bruciargli un contatto che sarebbe stato utilissimo per passare la migliore disinformazione. Alla fine la buona fede e l’onestà di Dreske furono accertate, ma lui fu ugualmente allontanato dal servizio. Boll, invece, fu trasferito: come disinformatore era completamente bruciato.
Solo nel suo ufficio Wenders aspirò il fumo della sigaretta e ne gustò pienamente il sapore. I suoi occhi non mandavano lampi gelidi, ma erano socchiusi in una placida espressione di soddisfazione. Anche questa volta era riuscito a muovere gli uomini come se fossero delle pedine. Dreske e Boll erano due elementi eccellenti, intelligenti e fidati, i migliori che avesse mai avuto, ed erano terribilmente diversi l’uno dall’altro. A lui era bastato farli trasferire nella stessa stanza. Era logico che ad un certo punto cominciassero a detestarsi, a provare gelosie, a sospettarsi.
Aveva affidato loro incarichi che ciascuno doveva adempiere per proprio conto, senza la partecipazione dell’altro. Aveva fornito Boll di denaro abbondante per facilitare la sua missione e insieme insospettire Dreske.
Aveva finto di dimenticare la promozione di quest’ultimo per esacerbarne l’animo ed era rimasto a guardare. Loro avevano fatto il resto. Ora Wenders poteva finalmente respirare. Quei due uomini intelligenti e fedeli, che prima o poi avrebbero potuto sospettare la verità, non erano più nella sua sezione. Ora poteva finalmente trasmettere le sue informazioni all’est senza paura che uno dei due potesse avere all’improvviso un lampo, un’intuizione su come determinate notizie passassero dall’altra parte.
Si accese un’altra sigaretta e pensò che quella piccola operazione non era stata difficile: era bastato un po’ di metodo. Ma sì, in fondo, anche prevenire il pericolo era solo una questione di metodo.
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